Amir, rap e seconde generazioni oltre gli stereotipi

Intervista di Joshua Evangelista e Luca La Gamma. Fotografie di Simone Silvetti

“Spesso mi chiedono: ‘come ti sei integrato?’ Sinceramente non ci ho mai pensato”. Amir, 32 anni e sette album da solista all’attivo, racconta a Frontiere News i luoghi comuni e i cliché dei media che si sono interessati alla sua musica e alla sua storia. Rapper, papà egiziano, infanzia nel popolare quartiere romano di Tor Pignattara: gli ingredienti per creare un personaggio stereotipato ci sono tutti. Dopo l’album Uomo di prestigio i giornali hanno puntato sul lato “esotico” del rapper, “come se mangiassi falafel e cous cous dalla mattina alla sera, i figli degli stranieri nati in Italia sono italiani”.

Ma a partire dalla location del servizio (“Non ci mettiamo davanti ai soliti murales, è banale”), scopriamo un personaggio molto più complesso di quanto la campagna marketing delle major con cui ha lavorato l’abbiano dipinto.Ci spiega che sì, è importante organizzare manifestazioni ed eventi legati agli artisti di seconda generazione, purché la qualità rimanga alta, che duetterebbe volentieri con Paolo Conte o Vinicio Capossela ma “non con Vasco Rossi e Ligabue, artisti che non mi piacciono”. E, ormai dentro il ruolo di sfatatore di leggende metropolitane, ci spiega che il rap non dev’essere solo “incazzato”, “se fai un album da sedici tracce tutte contro lo Stato vuol dire che hai qualcosa che non va”.

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