Musica e omofobia, l’inaspettato caso del reggae

di Nicola Casile

Musica omofobica: dovrebbe essere un ossimoro, invece è un binomio tristemente noto, che ciclicamente si ripropone creando attorno a se un prevedibile polverone.

Dagli anni settanta in poi il mondo della musica è cambiato progressivamente. I testi del rock e dei suoi derivati hanno cominciato ad essere espliciti, graffianti e non di rado motivo di grandi polemiche, probabilmente volute. Ma il fenomeno dei contenuti e degli atteggiamenti omofobici nella musica non riguarda né il rock, né il punk, né l’heavy metal, bensì il reggae, la musica giamaicana associata da sempre ai concetti di “peace & love”.

Il primo a farne le spese, con una eco globale, proprio come la sua fama, fu Shabba Ranks. Talentuoso cantante e dj giamaicano, salito alla ribalta delle scene americane e poi internazionali alla fine degli anni ottanta, Shabba ha sempre vantato un stile canoro aggressivo supportato da testi violenti, fortemente sessisti e spesso discriminatori nei confronti degli omosessuali. Il suo show sul palco era ricco di gesti e movimenti che, abbastanza esplicitamente, simulavano l’atto sessuale se non addirittura l’aggressione contro i cosidetti “batty boy”, termine dispregiativo con cui in Giamaica vengono chiamati gli omosessuali.

Nel momento di massima fama, Shabba inciampò in una clamorosa defaillance mostrandosi orgoglioso, in alcune interviste, delle sue idee riguardo gay e lesbiche. Fu letteralmente “bannato” da radio, tv e concerti.

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Ma tra i ghetti dell’isola Caraibica la lezione sembrò non aver avuto alcun effetto.

Nei primi anni novanta Buju Banton, nuovo talento della dancehall reggae, registrò la canzone “Boom Bye Bye” che diventò rapidamente una hit. Una hit dai contenuti omofobici. Il ritornello dice “boom bye bye

inna batty bwoy head, rude bwoy no promote no nasty man dem haffi dead”.

Una paio d’anni dopo l’artista proclamò la sua conversione alla fede Rasta e si dedicò ad una musica più lenta e riflessiva scrivendo testi dal contenuto mistico e spirituale. Tuttavia, anche Buju non rinnegò mai la sua avversione verso gli omosessuali, ribadendo in più occasioni “I say so, ‘cose the bible say so”. Un misto tra religione e cultura, discriminazione e ignoranza. Anche se non tutti credono alla favola che artisti di tale calibro possano esprimere certe posizioni con l’ingenuità e la genuinità dell’ignoranza. C’è da chiedersi, piuttosto, quanto questi atteggiamenti aggressivi e pseudo mascolini siano solo un modo per affiatare e fomentare un pubblico, specialmente giamaicano, che purtroppo fa dell’omofobia un pane quotidiano.

Negli anni novanta e fino ai primi duemila il reggae sembrava volersi reimpossessare del suo spirito originario, quello positivo, ribelle e pacifista promosso dai pionieri Burning Spear, The Abyssinians, Peter Tosh e lo stesso Bob Marley.

Ma una nuova generazione di artisti riprese a cavalcare l’onda dell’omofobia, tanto che intorno al 2005 nacque una vera campagna di boicottaggio contro la “murder music”. Le associazione gay fecero forti pressioni per far annullare i concerti europei di Beenie Man, Sizzla, Capleton e molti altri.

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Sul sito Indymedia Italia partì un coro unanime di dissenso contro questo fenomeno e contro gli artisti che lo generavano, e non di rado, in preda ad un euforia da boicottaggio, si inserirono tra i nomi da “punire” anche gruppi italiani che nulla avevano a che fare con l’omofobia.

Far annullare un grosso concerto reggae era quasi una prova di forza delle associazioni gay, a prescindere dal fatto che l’azione in se potesse apparire poco democratica se non poco utile. Nel 2007, comunque, alcuni degli artisti incriminati firmarono il famoso “Reggae Compassionate Act”, frutto della campagna “Stop Murder Music”.

Ci fu una chiusura totale e incondizionata contro una serie di artisti reggae internazionali che, oltre a due o tre testi discutibili, proponevano comunque un concerto con più di un’ora di messaggi di ribellione, di consapevolezza e di denuncia contro l’oppressione e il razzismo. Senza considerare che, in Europa e soprattutto in Italia, il pubblico dei concerti reggae è notoriamente un pubblico di giovani alternativi, per lo più riconducibili all’area della sinistra, o dell’antagonismo, o dei movimenti che del contrasto alle discriminazioni sessuali fanno una delle lotte principali.

Risulta dunque difficile immaginare che migliaia di persone, accorse gioiose ad un concerto reggae, possano improvvisamente rivedere le proprie idee in merito alle libertà individuali solo perché un cantante, dal palco, ha cantato un testo omofobico. Ciò non significa, tuttavia, che l’omofobia non debba essere sconfitta culturalmente, magari proprio attraverso una canzone come “Così sia” degli italianissimi Africa Unite.

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Sizzla – Nah Apologize

Africa Unite – Così sia


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