Hafez Omar, il designer dello sciopero della fame

Abbiamo intervistato Hafez Omar, designer di Ramallah e creatore del simbolo di PalHunger (in solidarietà ai palestinesi detenuti da Israele che hanno deciso di intraprendere uno sciopero della fame). In poche ore milioni di persone in tutto il mondo hanno usato come foto profilo Facebook il logo da lui creato.

Omar come mai hai scelto proprio questo simbolo e questo colore? Cosa c’è alla base del logo?
Il logo testimonia la realtà quotidiana dei prigionieri: il colore ocra è lo stesso degli indumenti che il Servizio Carcerario Israeliano (Sci) impone ai detenuti; anche le scritte sul petto sono quelle dello Sci. E quella degli occhi bendati è una procedura comunissima per i palestinesi.

Hai idea di quante persone abbiano orientativamente utilizzato il simbolo?
E’ difficile calcolare precisamente quante persone lo abbiano utilizzato, soprattutto perché ci sono state davvero tante riproduzioni, in giro per il web, effettuate in forme simili ma con soggetti diversi. Nel primo giorno di lancio il logo è stato usato come foto del profilo da più di 12 milioni di persone in tutto il mondo. Tante persone hanno accantonato idee, background culturali e differenze di pensiero e si sono unite sotto lo stesso simbolo; nazioni e continenti lontanissimi si sono “avvicinati” per un obiettivo comune.

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Credi che la campagna #PalHunger abbia effettivamente portato benefici nelle condizioni umane dei prigionieri?
La battaglia continua, ad oggi sono ancora due i prigionieri in sciopero della fame. Il Servizio Carcerario Israeliano non è stato totalmente ai patti; sono stati fatti passi avanti nelle condizioni dei prigionieri ma non tanto quanto ci aspettavamo. Per principio, si intende; per non darcela vinta. Eppure la considero comunque una vittoria verso l’obiettivo, la nostra determinazione porterà i risultati sperati.

Quante persone sono attualmente detenute illegalmente nelle carceri israeliane?
Bisognerebbe distinguere tra detenzione amministrativa, prigionia, custodia, fermo, ecc. In teoria, perché benché si tratti di situazioni giuridiche diverse, Israele applica di fatto la stessa misura a chiunque. Anche a chi non ha capi d’accusa o a cui non è contestato alcun reato. Attualmente sono circa 4600 le persone che giacciono, senza motivo, nei centri detentivi israeliani.

Ci racconteresti la storia di qualche detenuto in particolare?
Posso parlarvi della mia esperienza. Mio fratello minore, prelevato di forza durante degli scontri in piazza, è in carcere da 7 anni e ne deve scontare ancora 3. Potrei citarti Khader Adnan, tanto per fare un nome noto. La “battaglia” che combatto e combattiamo- che non è per “solidarietà” ma è una questione personale di vita o di morte – è una, ma molteplici sono i fronti. C’è la questione dei prigionieri, gli scontri di piazza, l’arbitrarietà dei soldati ai checkpoint, il muro della separazione; così come mi trovo a lottare contro la mentalità di alcuni palestinesi che, solo per far parlare della Palestina, sarebbero in grado di bloccare i camion della Croce Rossa. E poi ci sono i media ufficiali che, per esempio, hanno del tutto ignorato lo sciopero. Oppure potrei parlarti di Mahmoud al-Sarsak , calciatore 25enne della Nazionale Palestinese, prelevato senza alcun motivo mentre stava andando ad allenarsi.

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Attualmente sei coinvolto come designer in qualche altra campagna?
Sai, non mi piace molto il termine “campagna”. Non è una questione politica o ideologica; è una questione di sopravvivenza. Partecipo a “campagne” ogni giorno; perché ogni giorno sono visibili ingiustizie su cui non si può passare sopra. E tutto questo è frutto dell’occupazione militare a cui siamo sottoposti. La stessa cosa ti direbbe qualsiasi altro palestinese che, come me e più di me, ha deciso di uscire dall’apatia e dall’indifferenza.


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