Lila Azam Zanganeh, raccontare l’esilio dall’Iran con Nabokov


di Valerio Evangelista

Cresciuta a Parigi da genitori iraniani in esilio (nel 1979, durante la Rivoluzione Islamica, suo zio è stato giustiziato sul tetto di una scuola di Teheran), Lila Azam Zanganeh è un’intellettuale e autrice apprezzata a livello mondiale. Il suo primo libro, “The Enchanter: Nabokov and Happiness”, è stato pubblicato negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia, in Olanda, in Italia (col titolo “Un incantevole sogno di felicità. Nabokov, le farfalle, la gioia di vivere”), in Spagna e nel 2013 verrà pubblicato anche in Brasile e in Cina; in Italia Lila è nota al grande pubblico anche grazie al suo monologo sul “bacio proibito” andato in onda su La7 nella puntata de “Quello che (non) ho” del 15 maggio.

Sei nata a Parigi da genitori iraniani in esilio, ora vivi a New York. Che rapporto hai con l’Iran? Sei ancora in contatto con i tuoi parenti?

Non ho più parenti in Iran, sono tutti esiliati. Però ci sono amici, intellettuali e artisti che per creare hanno bisogno di essere là. Sappiamo ciò che succede ogni giorno in Iran, la situazione è molto complicata; ma è impossibile non rimanere legati al proprio Paese. Io vivo negli Stati Uniti da 14 anni ma la mia Patria rimarrà sempre l’Iran. Quando mi chiedono di dove sono dico che sono iraniana. Si tratta anche di un gesto di diplomazia culturale, in America hanno un’idea un po’ stravagante su chi siano effettivamente gli iraniani. Voglio mostrare che l’Iran ha un altro volto.

Il tuo monologo sul “bacio proibito”, trasmesso in occasione del programma Quello che (non) ho, è stato particolarmente apprezzato in Italia. Fino a che punto la teocrazia iraniana invade la sfera personale?

In Iran il bacio è proibito non solo in pubblico ma anche nel teatro o nel cinema; in questi contesti un uomo e una donna non possono neanche guardarsi negli occhi o avere un minimo contatto fisico. Il saluto per stretta di mano è ovviamente vietato. Tutto questo viene imposto quindi anche all’arte e alla cultura iraniana. Ma gli artisti iraniani trovano sempre un modo intelligente per superare queste imposizioni. Abbas Kiarostami (vincitore della Palma d’oro come miglior film al 50º Festival di Cannes con il suo capolavoro Il sapore della ciliegia) ne è un esempio. Lui non si lamenta del fatto che non può far vedere un bacio. La vera sensualità non è infatti la pornografia hollywoodiana ma il mistero, mistero che il cinema deve saper mantenere. Considerato il Fellini iraniano, Kiarostami è un puro esempio di neorealista persiano. Il suo realismo è nel non mostrare il bacio; con intelligenza e sensibilità artistica si può trasformare qualsiasi cosa in un punto di vista artistico. Un altro esempio è Tickets, diretto insieme a Ermanno Olmi e Ken Loach, opera eccezionale di estremo pudore; o anche ABC Africa, in cui il regista interpreta sé stesso. Kiarostami è molto noto perché vuole rimanere là dove opere sono censurate; l’Iran è il linguaggio del suo cuore. Come scrittrice mi sento portavoce di questo tipo di autenticità; ovviamente non posso considerarmi portavoce dell’Iran perché sono nata a Parigi.

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Il tuo primo libro, The Enchanter: Nabokov and Happiness, è la tua opera più conosciuta. Cosa ti lega allo scrittore e drammaturgo russo?

L’esperienza dell’esilio, il concetto della memoria. La sua visione del mondo da esule non è un clichè, non ripropone l’esilio col tradizionale dolore russo; l’esilio produce un “colpo di sincope” che lui non avrebbe lasciato per niente al mondo (a syncopal kick I would not have missed for worlds). Si è creato un mondo suo. In The Moment of Truth sostiene che non andrà più in Russia, non ne ha bisogno. Perché della Russia ha con sé tutti i “tesori” di cui ha bisogno: lingua, letteratura, memoria dell’infanzia e scrittura. Con questa consapevolezza riesce a trasformare la memoria dolorosa in un fatto gioioso – che è l’estasi della scrittura – e a non continuare a soffrire in una sclerosi della memoria. In Nabokov la memoria è la via d’accesso al proprio universo, lo strumento per crearsi un proprio mondo.

Lila al "South-Asia Rescue", una raccolta fondi per le vittime del terremoto che ha colpito il Sud-est asiatico (The Asia Society a New York - 28 novembre 2005)

Sei parte dell’International Rescue Committee e di Words Without Borders. Vuoi parlarci della tua esperienza nel sociale?

Sono nel Board of Overseers dell’International Rescue Committee, un’organizzazione fondata da Einstein durante la Seconda guerra mondiale per aiutare gli ebrei in Europa e mandarli in America. Ora lavora in più di 50 paesi, specialmente in Africa e Asia, aiutando in particolar modo i rifugiati. Nel 2005 ho organizzato insieme ad una collega un Fund raising con Hillary Clinton, per sostenere le popolazioni vittime del terremoto che ha colpito India e Pakistan. Abbiamo pensato che, soprattutto alla luce dei problemi politici tra i due paesi, fosse cosa buona fare qualcosa con entrambe le nazioni. In tre settimane abbiamo raccolto 500mila dollari; lo State Department ha stanziato (con una matching donation) fondi di uguale valore, facendoci raggiungere il milione di dollari raccolti. Nel volontariato la politica non c’entra e non deve entrarci. L’estetica e il linguaggio sono fondamentali nell’impegno sociale, e in questo la letteratura svolge un ruolo fondamentale. Lo dico senza orgoglio, so che è un qualcosa di molto utile nel suo piccolo. Per me l’immaginazione è la radice della compassione e dell’arte, questi due elementi vanno sempre insieme. Per anni i filosofi si sono chiesti quale fosse l’origine di questa forza liberatoria. Ne Il nome della rosa Umberto Eco, riprendendo Aristotele, parla del sorriso, del ridere. Io credo invece che sia proprio l’immaginazione a permetterci di capire estetica e bellezza e, quindi, di capirci tra di noi.

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Lila, ti saluto con un’ultima domanda. L’opera a cui stai lavorando attualmente è The Orlando Inventions. Puoi darci qualche anticipazione?

Con il mio primo libro ho avuto qualche problema nel cercare un editore. Io sono una iraniana nata all’estero da genitori in esilio; tutte le case editrici volevano che io scrivessi un racconto banale e commerciale sulla condizione della donna in Iran dal punto di vista di una donna iraniana. Non volevo farlo, perché io non vivo in Iran, faccio parte di un altro universo; sarebbe stato kitsch. Inoltre era parzialmente romanzo e parzialmente autobiografico. Anche per questo motivo è stato difficile, gli editori statunitensi tendono a metterti in scatole mentali: questo è un romanzo, quella è un’autobiografia… Con The Orlando Inventions invece ho deciso di affidarmi totalmente alla finzione. Questo romanzo, che copre 14 secoli (dall’8° sec. in Francia al 21° a New York) è un’esplorazione della natura dell’amore.

www.lazanganeh.com


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