Nuhanovic e la causa agli olandesi: “Nello sterminio dei bosniaci complici dei serbi”

Hasan Nuhanović era là, quel maledetto luglio del ’95, dentro il campo dei caschi blu olandesi di stanza a Srebrenica. Vide i venticinquemila profughi bosniaci fuggire terrorizzati dalla città caduta in mano agli ultra-nazionalisti serbo bosniaci, ed implorare protezione ai soldati dell’Onu. E vide i caschi blu accogliere le prime 5 mila persone per chiudere poi i cancelli della base e abbandonare tutti gli altri alle efferate rappresaglie dell’esercito nazionalista guidato dal criminale di guerra Ratko Mladiić e dalle formazioni paramilitari “Lupi della Drina” e “Skorpijoni”. Intervista e foto di Riccardo Bottazzo

Hasan era uno dei traduttori in forza al comando dei caschi blu olandesi e partecipò di persona alle trattative in cui il generale Thomas Karremans comandante del Dutchbat decise di accettare le richieste dei serbi-bosniaci e di consegnare anche i profughi che aveva accolto dentro la caserma, fidandosi della parola di Mladic secondo cui “non sarebbe stato fatto loro alcun male”. Toccò a lui, Hasan Nuhanović, tradurre dall’olandese al bosniaco “uscite dalla base in gruppi da cinque e andate dai serbi che vi porteranno al sicuro”. Intanto, – come racconterà un dottore di Medici senza Frontiere – fuori dalla base riecheggiavano già gli spari e le urla delle esecuzioni sommarie. I fascisti serbi stupravano le donne e gli ammazzavano i figli davanti agli occhi. Tra i cinquemila che uscirono dalla base per andare incontro ai loro carnefici c’era anche il padre, la madre e il fratello di Hasan. Non li rivide più. I loro nomi oggi compaiono tra le 8372 steli bianche del memoriale di Potočari. Attorno al campo, un’ampio spazio verde è pronto per accogliere i corpi di altri 1300, forse 1500 o anche più, assassinati. Il recupero e il riconoscimento dei corpi è una impresa disperata perché, tre mesi dopo l’eccidio, i serbi riaprirono le fosse comuni con mezzi pesanti e straziarono i cadaveri e spargerli in fosse più piccole. Un tentativo crudele quanto inutile e stupido di nascondere un crimine contro l’umanità.

Oggi, Hasan Nuhanović non è poi così diverso da come appare in quel video, girato una quindicina di anni fa, che proiettano al memoriale di Potočari. Il filmato scorre sui volti terrorizzati di donne e bambini in fuga dal paese caduto in mano ai serbo-bosniaci. Scene di guerra, rastrellamenti, cadaveri abbandonati per strada. Con lo sguardo basso, cercando a fatica di mantenere un tono neutro, Hasan racconta i giorni del genocidio. Ma Hasan non si limita a raccontare la storia. Hasan vuole giustizia. Otto anni fa ha iniziato una causa penale al tribunale di Amsterdam accusando il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori. Il secondo grado di giudizio gli ha dato ragione e l’esercito olandese, che continua a protestarsi innocente, è stato costretto a fare ricorso al terzo grado, quello paragonabile alla nostra Cassazione. Tra un paio di anni, tempi forensi, avremo il giudizio definitivo. Nessuna speranza di ottenere pene detentiva ma un cospicuo risarcimento che Hasan devolverà ad una fondazione per aiutare i parenti delle vittime della strage di Srebrenica a intraprendere la medesima strada legale. Ho incontrato Hasan Nuhanović questa mattina, al centro giovani di Srebrenica in occasione della settimana della memoria organizzata dalla Fondazione Alex Langer nell’ambito del progetto Adopot Srebrenica.

Hasan, tu hai cominciato una causa in terra olandese, al tribunale olandese, contro l’esercito olandese. Come sta andando?

I tempi legali sono sempre molto lunghi. Il secondo grado di giudizio mi ha dato ragione. Speriamo che anche il terzo grado confermi la sentenza. Sarebbe un precedente importantissimo perché un tribunale stabilirebbe in via definitiva che anche un contingente militare che batte bandiera Onu non può esimersi dalle sue responsabilità richiamandosi ad una responsabilità superiore che per sua natura gode dell’immunità internazionale come le Nazioni Unite.

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Quali sono le motivazioni a sostegno della colpevolezza dei caschi blu olandesi?

La linea dell’accusa sostiene che, pur essendo stati uccisi dalle forze serbe, il contingente olandese ha della responsabilità precise perché li ha consegnati ai serbo-bosniaci pur sapendo che il mandato che gli aveva assegnato l’Onu era quello difendere i civili ad ogni costo. Non potevano non sapere che i serbi avevano dichiarato che avrebbero passato per le armi ogni uomo di Srebrenica. Infatti la sentenza del giudice che mi dà ragione vale solo per mio padre e mio fratello. Per quanto riguarda mia madre, il tribunale ha sostenuto che il contingente Onu non può dirsi responsabile in quanto i serbi non avevano detto nulla riguardo alle donne. Anche se nei fatti sono state ammazzate lo stesso.

Come si sta difendendo l’esercito olandese?

Intanto bisogna dire che l’Olanda si è sempre rifiutata di confrontarsi con gli avvenimenti di Srebrenica. Ho dovuto iniziare io la causa perché altrimenti i militari non sarebbero mai stati incriminati (un governo di destra ha assegnato loro addirittura una medaglia al valor civile, immediatamente revocata dal successivo esecutivo, ndr). Spero che la sentenza aiuti a promuovere una discussione sul ruolo dei loro caschi blu nella guerra di Bosnia. Per quando riguarda la difesa, tendono a fare le vittime: ma come? noi ci siamo sacrificati per voi e questo è il vostro ringraziamento? All’inizio semplicemente negavano i fatti. Noi non abbiamo mai mandato fuori dalla base i profughi. Abbiamo fatto il possibile per difendere tutti. Poi, di fronte all’evidenza dei fatti, hanno sostenuto che loro non potevano sapere cosa avrebbero fatto i serbi ai prigionieri. Ma il mandato Onu era proprio quello di difenderli e di verificare che non fosse fatto loro alcun male! E poi non era possibile non udire dalla base gli echi degli spari delle esecuzioni sommarie! Durante l’operazione Oluja (che significa “Tempesta”ndr) l’esercito croato entra nella Krajina e conquista Knin, nella costa dalmata. Come è successo a Srebrenica, gli abitanti si sono rifugiati in una base di caschi blu. Ma qui c’erano i canadesi e le cose sono andate diversamente. Il capitano canadese ha detto ai croati che avrebbero dovuto passare sul suo cadavere prima di mettere le mani anche su un solo rifugiato e alla fine nessuno è stato ucciso. Certo, Ratko Mladic era un pazzo sanguinario. Magari avrebbe anche attaccato le forze Onu… ma la paura non può essere una giustificazione per un soldato.

Gli olandesi hanno anche sostenuto che non c’era spazio nella loro base per le 25 mila persona in fuga.

Hai visto anche tu la base. I 5 mila profughi che inizialmente sono stati accolti occupavano solo la rimessa dei mezzi. Tutti gli altri edifici erano vuoti. E poi c’era il campo attorno alla base. No. Lo spazio c’era. Anche le riprese aeree lo hanno dimostrato. Su questo punto i giudici non hanno avuto nessun dubbio. I soldati avrebbero potuto aiutare e difendere tutti i 25 mila rifugiati. Inoltre erano anche meglio armati dei sodati serbi e delle forze paramilitari che li accompagnavano. Avevano a disposizione anche l’aviazione. Ed invece hanno scelto di mandare a morire anche quelle 5mila persone che inizialmente avevano accolto.

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Come sei riuscito a dimostrare al tribunale che il comando olandese ha avuto delle corresponsabilità precise nel genocidio?

Non ho mai commesso l’errore di mettere la mia parola contro quella dei generali olandesi. Io so che mi hanno fatto tradurre alla mia gente: “Mettetevi in fila per cinque e andate dai serbi che non vi faranno del male”. Ma loro avrebbero negato tutto. No. Ci sono i fatti che parlano al posto mio. I documenti che registrano l’ingresso di 5 mila persone che poi non c’erano più. Le testimonianze dei Medici senza Frontiere che erano al campo e degli stessi soldati olandesi che oggi pingono quando visitano Potočari. I fatti sono incontestabili. Il problema piuttosto è il livello di responsabilità. Io sostengo che gli olandesi dovevano difendere la popolazione e non lo hanno fatto, quindi sono colpevoli.

Ecco che siamo arrivati al punto. Perché gli olandesi si sono comportati così?

Bisognerebbe chiederlo a loro. Di sicuro la caduta di Srebrenica e la consegna di tutti i profughi ai serbo-bosniaci per loro è stata una benedizione. Il mandato ordinava loro di rimanere a presidiare la zona sino a che ci fosse stato anche un solo civile da difendere. La sera stessa che hanno mandato i profughi a farsi massacrare hanno telefonato al comando di Sarajevo dicendo che davano inizio alle operazioni di rientro. Da qualsiasi parte la vuoi guardare, questa è un modo di agire immorale, inumano e illegale. Non parlo solo della cacciata dei profughi ma anche della giustificazione bugiarda che dai al tuo comando: non è rimasto più nessuno da difendere quindi noi torniamo a casa. Ma non ci sono più perché li avete mandati voi al macello! La sera stessa i telegiornali li hanno immortalati a Zagabria, mentre festeggiavano quella che per loro era la fine della guerra. E il generale Karremans, tutto sorridente, si scambiava “doni di pace” con Mladic. Devi considerare che è anche una questione di mentalità. Un contingente spagnolo o francese non si sarebbe mai comportato così. Non perché siano più buoni o più bravi, ma per una questione di dignità. Non si sarebbero permessi una vergogna di questo livello.

Cosa intendi per mentalità?

Intendo che tra i soldati del contingente olandese, parlo a tutti i livelli, serpeggiava un razzismo neanche tanto nascosto. Non solo nei confronti dei musulmani ma anche dei serbi. Popoli slavi dagli istinti primitivi e tribali, ci consideravamo. Certo questo non posso dimostrarlo e non sono neppure cose che si possono mandare a processo. Ma spiegano comunque certi atteggiamenti di superiorità e di menefreghismo nei confronti di coloro che dovevano proteggere. Dovevano rappresentare parte della soluzione del problema ed invece si sono dimostrati parte del problema. Ripeto, se invece degli olandesi ci fossero stati altri… Gli olandesi si comportavano come se la cosa non li riguardasse, come se fossero semplici osservatori intoccabili e dotati di immunità in una guerra di gentaglia primitiva e sanguinaria.

La religione ha giocato un ruolo importante nel conflitto?

No. Ha giocato un ruolo importante casomai nell’escalation del conflitto. Quella nata dal disfacimento della Jugoslavia è stata una guerra di conquista territoriale e basta. La prima guerra è stata in Slovenia, la seconda Croazia. Tutti paesi cristiani. Quando è arrivata in Bosnia la religione ha giocato un ruolo solo per i politici che cercavano di manipolare la realtà dei fatti per ottenere consensi nazionali o internazionali. Ma gli stessi musulmani bosniaci non si ritenevano neppure una comunità. Se i serbo-bosniaci attaccavano un villaggio dicevano “a noi non succederà. Con i serbi di qui siamo sempre andati d’accordo”.

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Come è la Bosnia oggi?

Nessuno parla di quello che è successo durante la guerra. Non ci sono neppure tentativi di comunicazione tra le parti. Ognuno fa la sua vita e segue aspettative radicalmente diverse. I musulmani sperano di ritornare nei luoghi da cui sono stati cacciati e di ridiventare maggioranza. I serbo-bosniaci sperano che i profughi restino dove sono e che le terre che oggi occupano si stacchino dalla Bosnia ed entrino nella Serbia. Entrambe le aspettative sono assurde ed irrealizzabili. I musulmani oggi occupano il 30% del territorio. In uno spazio così piccolo non potranno mai diventare maggioranza nel Paese. Ma anche il passaggio territoriale di mezza Bosnia alla Serbia è una prospettiva irrealizzabile. Eppure, da una parte e dall’altra, politici che tra loro non si parlano continuano a promettere alla loro gente questi orizzonti irraggiungibili. Cosa succederà quando tutti capiranno che né una cosa né l’altra potrà accadere sino a che esisteranno o i serbi di Bosnia o i musulmani di Bosnia?


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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