“Il mio inferno nelle carceri di Assad”

Davanti a un piatto di ottimo riso e a una tazza di tè caldo un membro dell’opposizione siriana ci ha raccontato la sua storia: dalla protesta civile, alle torture subite in carcere, alle armi, alla fuga dal suo Paese. Molti suoi famigliari sono rimasti in Siria, per cui per motivi di sicurezza abbiamo deciso di omettere alcuni dettagli che potrebbero ricondurre a lui.

Intervista di Valerio Evangelista – ottobre 2012

Quando hai lasciato la Siria?
Il regime mi dà la caccia da luglio. Ho lasciato la mia città e sono andato a Damasco, dove è più facile trovare un nascondiglio. Lì ho passato circa due settimane, fino a quando sono riuscito a fuggire dal Paese. Per due mesi sono stato in una nazione confinante, come clandestino, per poi partire per l’Europa.

In Siria eri un dissidente. Cosa vuol dire opporsi al governo di Assad?
Già da prima dell’inizio della rivoluzione ero parte dell’opposizione al regime, le manifestazioni di piazza erano totalmente vietate. In una delle manifestazioni a cui ho partecipato un uomo accanto a me mi ha chiesto come mi chiamassi. Temendo che fosse un doppiogiochista che avrebbe fatto il mio nome agli uomini di Assad, non ho detto nulla. Ma lui insisteva: “Sento che morirò in questa manifestazione: tu sei l’ultima persona che vedrò prima di morire. Non voglio morire senza conoscere il tuo nome”. Con profondo scetticismo gli ho detto il mio nome. Dopo due o forse tre minuti il proiettile di un cecchino ha centrato in pieno la sua testa. Il suo cervello è schizzato ovunque.

Molti oppositori scelgono la via della dissidenza digitale…
Ora che il Paese è nella situazione in cui si trova, usare il web è più che mai fondamentale. Per mantenere i ponti con altri dissidenti ma anche, e soprattutto, per informare il resto del mondo su quello che accade davvero. So di diversi gruppi di informazione “alternativa” che dipingono Assad come un santo solo in chiave anti-americana e per difendere una fantomatica sovranità nazionale, e che sostengono che i “terroristi” – come li chiamano loro – sono tutti pagati dall’America, da Israele e da non so chi altro. Bashar ha detto che i principi del Golfo pagano 40 dollari a ciascun manifestante. Allora hanno un debito con me, perché per le ultime due manifestazioni non ho preso neanche un centesimo! Potrei citarli in giudizio!

Credi che possa effettivamente esserci un rischio di infiltrazioni estere nelle file dei ribelli?
Certo. I servizi segreti di altri paesi ci hanno provato, continueranno a provarci e in alcuni “ranghi” sono anche riusciti nel loro intento. Ma da qui a dire che tutti i rivoluzionari sono marionette nelle mani della Cia ce ne passa. Anche perché se l’America avesse voluto conquistare la Siria lo avrebbe già fatto. In realtà i paesi occidentali vogliono solo che le due fazioni – il governo e i suoi fedelissimi da una parte, i resistenti dall’altra – si combattano fino a quando il Paese non venga distrutto. Infatti le potenze straniere danno armi a entrambi; agli oppositori del regime quando sembra che questi stiano per avere la peggio, alle forze di Assad invece quando i ribelli liberano qualche roccaforte. Ciò che realmente vuole gran parte dell’Occidente è dividere la Siria in tre parti: una per la minoranza alawita, un’altra per i sunniti e un’altra ancora per i curdi.

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Torniamo a te: eri parte attiva dell’opposizione pacifica ad Assad, ma a un certo punto è successo qualcosa…
Il governo di Assad mi teneva d’occhio per due motivi: ero un dissidente e sono stato membro – per due anni – di un gruppo di opposizione di sinistra. Quando le prime rivolte siriane stavano prendendo piede ma la rivoluzione non era estesa come ora, ho partecipato a un corteo di protesta contro la repressione. Una manifestazione che tutto poteva essere fuorché pericolosa o violenta. Individuato dagli agenti, sono stato prelevato e portato in un carcere per due giorni. Non c’erano accuse nei miei confronti, era un arresto frutto dello stato d’emergenza in cui il Paese giaceva da quasi cinquant’anni. Un anno dopo mi hanno arrestato durante un’altra manifestazione pacifica. Questa volta sono stato incarcerato per più tempo.

Quali erano le accuse?
Avrei messo a repentaglio la sicurezza nazionale con “attività politiche non lecite”, o qualcosa del genere. Ovviamente hanno colto l’occasione per chiudere la bocca a una voce critica. Appena arrestato il mio carceriere mi ha chiesto, con un coltello puntato verso di me, di fare il nome di altri dissidenti. Ovviamente non ho detto nulla. Lui ha iniziato a picchiarmi pesantemente. Ma non avrei fatto alcun nome, per nessun motivo al mondo. Lui continuava a picchiarmi, io continuavo a tacere. “Sei sicuro di non voler… confessare?” Mentre stava pronunciando la parola “confessare” ha conficcato la lama sul fianco sinistro. Il dolore era molto forte, ma non potevo certo dargli la soddisfazione di essere riuscito a piegarmi. Ho iniziato a ridere fragorosamente dicendo che poteva anche dimenticarsi di avere i nomi.

E poi? Sei stato lasciato là, sanguinante?
Mi hanno rimesso in cella. Per far rimarginare la ferita ho stretto forte i lembi di carne per tre giorni e tre notti. Non ho dormito per niente, altrimenti la mano avrebbe lasciato la presa e la ferita si sarebbe riaperta. Con il rischio altissimo di prendermi infezioni. Meglio non dormire tre notti piuttosto che… dormire per sempre! Ovviamente ho curato la ferita come potevo, come puoi vedere la cicatrice non è netta e precisa (si scopre il fianco e mi mostra la ferita rimarginata, ndr). Poi mi hanno bendato e legato i polsi. Sono rimasto, per altri tre giorni, bendato, appeso ai polsi (a mala pena riuscivo a toccare il pavimento con la punta dei piedi) e in mutande. Solo durante il pranzo mi slegavano, ma a causa della posizione mantenuta per così tante ore non riuscivo proprio a utilizzare le mani. Avvicinavo la bocca al cibo e provavo a mordere.

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Chi erano i tuoi compagni di cella?
Nella prima parte della mia detenzione sono stato insieme ad altri prigionieri politici, persone con cui mi sono trovato bene; alcuni di loro sarebbero poi diventati miei compagni d’armi. Cantavamo insieme canti di libertà e di resistenza, parlavamo delle nostre vite prima della rivoluzione e condividevamo sogni e speranze. Dopo 25 giorni, terminata l’investigazione su di me ed essendo io un accusato in attesa di giudizio, mi hanno trasferito insieme a prigionieri comuni, in un’altra prigione. Dormivo con alcuni eroinomani: davvero un’esperienza orrenda. Erano in crisi d’astinenza e ho avuto molta paura. Sono stato là per una settimana.

Quanto tempo sei rimasto in carcere?
Circa un mese. Qualche giorno prima di essere rilasciato una guardia, che aveva spulciato il dossier su di me, mi ha urlato: “Sappiamo che sei stato su alcune televisioni straniere! Sei un nemico della nazione siriana!” e mi ha picchiato duramente. L’ultimo “regalino” dei miei aguzzini. Una volta uscito sono andato dai miei genitori, perché per tutto il tempo della mia detenzione sono stati all’oscuro di ogni cosa. Non sapevano come stessi, dove mi trovassi o se fossi ancora vivo. Ma non potevo stare là a lungo. Così sono stato accolto da alcuni attivisti a Damasco che mi hanno offerto cibo e protezione. Sono stati davvero gentili con me, addirittura quando chiedevo dell’alcol me ne procuravano senza problemi. Mi hanno nascosto per due settimane, poi i combattimenti si sono intensificati e poiché mancavano combattenti ho deciso di prendere le armi contro le forze di Assad.

Di cosa ti occupavi precisamente?
I miei commilitoni ed io facevamo solo in modo che gli uomini del regime non entrassero nel quartiere per fare un arresto di massa. In diverse occasioni sono stato coinvolto in scontri con le forze di Assad. E – lo dico in anticipo perché so che la domanda verrebbe spontanea – non ho ucciso nessuno. Ho sparato spesso contro i carri armati, ma non ho ucciso nessuno. Non di proposito, almeno; se l’ho fatto, non ne sono a conoscenza. Quando sparavo non miravo alle persone.

Poi hai lasciato le armi…
Tutti, nel quartiere, hanno lasciato le armi in quel momento, perché le forze di Assad hanno smesso di provare a prenderne possesso. Poi ho lasciato la Siria, quindi non so se le persone con cui ho combattuto hanno effettivamente ripreso le armi o meno. Non so neanche se sono ancora tutte vive.

Cosa ti ha spinto a lasciare il tuo Paese?
Gli scagnozzi della Papera (come emerso da rivelazioni di alcuni hacker, la First Lady siriana è solita chiamare il marito Batta, che in arabo significa papera; da allora gli oppositori hanno iniziato a chiamare Assad in questo modo, per deriderlo, ndr) per poco non sono riusciti a prendermi. Quando sono venuti a cercarmi sotto casa non ho aspettato un secondo e sono fuggito dal retro. Spero di poter tornare il più presto possibile in una Siria libera. Una Siria democratica. Una Siria civile.

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Quale pensi possa essere una soluzione valida per uscire dalla crisi siriana?
Un’idea potrebbe essere quella di giungere a un compromesso tra la resistenza e il regime e di formare un governo di transizione in cui – tolto Assad – uomini della resistenza, membri dell’attuale governo e persone dalla società civile guidino il Paese, per sei mesi, verso delle libere elezioni. Ma ovviamente questa è solo un’idea teorica e utopica, non potrà mai essere attuata. Perché gli uomini di Assad sono esattamente come lui, urlano slogan come “Assad, oppure bruceremo il Paese”, “Assad o nessun’altro”. Alcuni di loro hanno indetto dei dibattiti “democratici”, in cui hanno partecipato anche esponenti dell’opposizione, per tentare di trovare un minimo punto d’incontro. Quando gli oppositori hanno pronunciato la parola “libertà”, sono stati arrestati.

Immagino tu abbia molti volti che vorresti rivedere, mani che vorresti stringere e persone che vorresti riabbracciare. Sei riuscito a mantenere i contatti con i tuoi cari?
Riesco a sentire spesso la mia famiglia. Soprattutto mia sorella, a cui sono estremamente legato. Il filo con il mio Paese non è stato mai reciso. Non ho però una donna che mi aspetta, in Siria. La mia prima e unica ragazza mi è stata tolta.

Ti va di parlarne?
La sua famiglia appartiene a una determinata fazione, a differenza mia. Per tutto il tempo in cui siamo stati insieme, la sua famiglia ha dato per scontato che anche io vi appartenessi. Ma non importa quanto noi abbiamo provato a rimandare il problema, era sempre là e continuava a essere sempre più presente. La situazione non poteva essere trascinata all’infinito. Infatti un giorno hanno scoperto tutto e ci hanno obbligati a interrompere la relazione. Suo padre mi ha picchiato brutalmente con un bastone e ha costretto la mia ex a sposare un suo cugino. Dopo alcuni anni di totale silenzio, abbiamo ripreso – per un po’ – a sentirci segretamente. Ci siamo amati profondamente.


Profilo dell'autore

Valerio Evangelista
Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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