Le donne saharawi in un documentario da sostenere con il crowfunding

Simona Ghizzoni

di Teodora Malavenda

Emanuela (Zuccalà) e Simona (Ghizzoni) sono amiche. Ma prima ancora di essere amiche, sono due professioniste. La prima è una giornalista, la seconda una fotografa. Entrambe hanno a cuore i temi che gravitano attorno all’universo femminile. E così già da tempo collaborano, ciascuna con i propri strumenti, alla realizzazione di progetti che raccontano gli abusi contro le donne. Just to let you know that i’m alive (Solo per farti sapere che sono viva) è il titolo del loro ultimo lavoro. Un documentario sulla violenza contro le donne saharawi e sull’impatto della guerra sulle loro vite. A finanziare gli spostamenti e le riprese è stata la Fondazione americana The Aftermath Project, grazie a un prestigioso special grant vinto da Simona nel 2011. L’avventura ha avuto inizio lo scorso gennaio. Un viaggio nel deserto lungo due mesi: prima nel Sahara occidentale poi nei campi profughi nel sud dell’Algeria. Un viaggio alla ricerca di voci e di sguardi che riportassero in vita frammenti di storia di un popolo al limite dell’esistenza.
Incontriamo Emanuela di fronte ad un buon caffè per farci raccontare questo progetto.

Il popolo Saharawi da oltre trent’anni è vittima della repressone marocchina. Facciamo il punto della situazione.
I Saharawi sono originari del Sahara Occidentale, terra annessa al Marocco nel 1975. Da allora gli indipendentisti, riuniti nel movimento di liberazione del Fronte Polisario, hanno avviato una guerra le cui conseguenze sono visibili ancora oggi. Circa 200 mila sono profughi nel sud dell’Algeria attorno alla città militare di Tindouf dove vivono grazie agli aiuti internazionali. Nel Sahara Occidentale invece, gli indipendentisti rimasti sotto l’occupazione marocchina sono stati vittime di sparizioni forzate, tortura, prigioni segrete e fosse comuni. Secondo Noam Chomsky e altri intellettuali, l’inizio della primavera araba è stato Gdeim Izik, un accampamento di tende fuori dalla città di El Ayun (Sahara Occidentale) con il quale i Saharawi chiedevano al governo marocchino più diritti e democrazia.

Immagino non sia stato semplice lavorare in quei luoghi…
Siamo partite con una carica fortissima e sapevamo già che non sarebbe stato un viaggio di piacere. Nel Sahara occidentale abbiamo sperimentato sulla nostra pelle l’ossessivo controllo marocchino e adesso capisco perché i giornalisti evitano quella zona. La polizia ti sta alle calcagna per tutto il tempo della tua permanenza, per limitare la circolazione di notizie. Era davvero una situazione molto tesa.

Questa è una delle storie presenti su Ripartire, il libro di Frontiere News – in collaborazione con Amnesty – disponibile su carta (5 euro) e in formato elettronico (2 euro). Ordina la tua copia, contribuirai alla difesa dei diritti umani nel mondo!

E invece dei campi profughi algerini cosa mi dici?
Lì manca acqua e cibo. Fa molto freddo, gli aiuti umanitari scarseggiano e dopo il rapimento di Rossella Urru è stato imposto il coprifuco e l’obbligo di coordinare gli spostamenti con il governo Saharawii che mette a disposizione una scorta armata. Insomma anche qui una situazione antipatica.

Instaurare dei rapporti di fiducia, in un contesto come quello che descrivi, sembra impossibile. Invece voi avete fatto un buon lavoro.
Con queste donne abbiamo cercato, e in molti casi ci siamo riuscite, di creare una forte intimità. Abbiamo condiviso il tempo, il rito del tè, le paure, le speranze. Gli abbiamo chiesto di scrivere i loro pensieri su un diario, di tirare fuori le vecchie fotografie che rappresentavano momenti essenziali della loro tragedia personale e così abbiamo costruito una piccola storia per ognuna.

E poi una volta tornate in Italia?
Abbiamo rivisto il materiale anche se già sapevamo sarebbe stato di qualità. Sui saharawi esistono foto, libri e video ma poche cose sono fatte bene e soprattutto non esiste nulla con il taglio femminile che noi abbiamo cercato di attribuirgli.
Subito dopo è iniziata la fase più difficile: quella del reperimento fondi per completare la produzione del documentario. Abbiamo ricevuto promesse e proposte di sponsorizzazione, ma la condizione era che il materiale venisse “revisionato” da terzi. E allora abbiamo pensato di sperimentare una nuova forma di condivisione in rete, già diffusa negli Stati Uniti ma ancora poco nota da noi: il crowdfunding, una raccolta fondi attraverso internet.

Spieghiamo meglio di cosa si tratta.
I lettori possono finanziare direttamente il progetto con una donazione libera a partire da 10dollari, e ricevere in cambio una serie di “grazie” concreti: dal DVD del documentario a piccole stampe di Simona Ghizzoni; da seminari one-to-one sul giornalismo d’inchiesta e la fotografia di reportage a stampe in grande formato a edizione limitata, fino a comparire come produttori del video. I fondi raccolti serviranno per il montaggio, l’editing audio, una colonna sonora originale, diritti per il materiale di repertorio, le consulenze per la traduzione (le interviste saranno in francese, inglese e arabo). Ci siamo affidate al sito www.emphas.is, specializzato in progetti multimediali di qualità, rigorosamente selezionati da un board di esperti di fotografia. Siamo online dal 24 settembre, per 60 giorni.

Per vedere l’anteprima del documentario ed effettuare una donazione:
http://www.emphas.is/web/guest/discoverprojects?projectID=761

 


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