Le nuove Berlino, dieci muri che non intendono crollare

Il 9 novembre del 1989 festeggiavamo la caduta del muro di Berlino, speranzosi in un mondo che sarebbe dovuto diventare più “vicino”. Ancora oggi tanti altri muri rendono di fatto il pianeta lo scenario di separazioni sanguinarie, decise a tavolino dai potenti. Il muro è chiusura, isolamento, cecità, buio. Spesso però, tra mattoni e cemento nascono piccoli spiragli. Frontiere vi racconta dieci muri che non intendono cadere. Malgrado le pressioni “ostinate e contrarie” dei popoli.

Belfast, i muri che dividono ma piacciono ai turisti (di Valentina Ersilia Matrascia). Si chiamano Peace Lines, gli ultimi muri d’Europa. Separano cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord. Secondo un rapporto pubblicato dal Progetto Interface Belfast, attualmente sono 99 in tutta la città di Belfast. Le prime risalgono ai primi anni dei Troubles –  i conflitti tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’90 – e rappresentano allo stesso tempo un segno ancora vivo del conflitto di matrice religiosa che da anni dilania il paese europeo e un’attrattiva turistica. Un terzo delle Peace Lines sono datate però agli anni successivi all’IRA, molte sono quasi ai giorni nostri. Risale infatti agli inizi del 2012 l’annuncio del Fondo internazionale per l’Irlanda (organizzazione indipendente con lo scopo di promuovere la riconciliazione nell’Irlanda del Nord) l’annuncio del finanziamento, ammontante a 2 milioni di sterline, di un progetto per la riduzione delle Peace Lines di Belfast “per la costruzione di fiducia tra le comunità”.  Decorate da murales, spesso dedicati ai caduti delle due fazioni, queste mura, lunghe fino a 4 km e alte fino a 8 metri, sono realizzate in metallo, cemento e reticolati di filo spinato e un cancello nel centro che nelle ore notturne viene chiuso ed impedisce il passaggio da una parte all’altra.  In alcuni casi i cancelli sono opportunamente sorvegliati dalla polizia. Nonostante il nome queste mura non rappresentano uno strumento di pace, anzi se possibile aumentano ancora di più la separazione e il non dialogo tra le due comunità. Se il primo muro fu, infatti, eretto nel 1969 a Belfast per dividere i cattolici di Falls Road dai protestanti di Shankill Roads a Cupar Street in conseguenza degli incendi e degli scontri verificatesi nella parte Ovest della città, l’edificazione dell’ultimo muro risale al 16 settembre dello scorso anno. A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino non solo le Peace Lines non sono cadute ma continuano a crescere.

Foto di Valerio Polici

Buenos Aires, la strada come muro invisibile che “scansa” i poveri (di Valerio Polici). Probabilmente la più europea tra tutte le città sudamericane – soprattutto in termini architettonici – porta ancora con sé i retaggi del terribile collasso che undici anni fa ha messo a dura prova l’intero paese. Così, nel tentativo di un definitivo slancio economico, convivono spesso dimensioni così diametralmente opposte, a distanza di pochi metri, difficili da dimenticare. E’ il caso della Villa31 a Retiro. Questa villa (termine argentino per definire una favela) dai confini indefinibili, crescendo a vista d’ occhio ad un ritmo quotidiano si è estesa fino ai piedi di Puerto Madero, quartiere simbolo per eccellenza di quei contrasti che caratterizzano la città: prezzi inaccessibili persino per molti europei, un tram esclusivo (ha solo quattro fermate) e un corpo di polizia speciale con telecamere a circuito chiuso in ogni dove, che sorveglia attentamente ogni angolo di questa “realtà parallela”. Basta attraversare una strada, ed eccoti catapultato nella miseria della Villa31. Di recente, il sindaco Macri, sta discutendo con la giunta, una proposta di legge per eliminarla.

Ceuta e Melilla, un muro di filo spinato per allontanare l’Africa, in Marocco (di Ilaria Bortot). Un muro composto da barriere parallele di tre metri, costato trenta milioni di euro dati dalla Comunità Europea nel 1999. Un muro per dividere queste due città spagnole dal Marocco: cavi sul terreno e sensori elettronico, illuminato e con le telecamere. Creata per ostacolare e impedire l’immigrazione illegale e il contrabbando, questa barriera in realtà ha causato almeno quattromila morti. Disperati tentativi di attraversare lo Stretto di Gibilterra per entrare illegalmente in Spagna. Il Marocco si è opposto alla sua costruzione già nel 1975, quando aveva anche tentato di annettere Ceuta. La risposta sono stati quei tre pannelli di filo spinato.

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Coree: un popolo, due mondi (di Emiliano Rossano). Definito come il confine più armato e sorvegliato del mondo, quello che divide la Corea del Nord e la Corea del Sud dal 1953 è di fatto una linea che divide un popolo che le stesse origini, lingue e tradizioni. Terminata la guerra di Corea, nella penisola si instaurarono due regimi opposti ed ostili: al nord un governo di tipo marxista, appoggiato dalle Cina, mentre al sud una dittatura di destra appoggiata dagli Stati Uniti. La guerra fu dura e caratterizzata da alterne vicende, ma si concluse con un nulla di fatto e la divisione della penisola coreana tra due nazioni, che a tutt’oggi esistono e dove non si intravedono spiragli di un’unione pacifica e definitiva. Il confine corre, grosso modo, lungo il 38° parallelo nord, ed è stato ribattezzato dagli americani come DMT (demilitarized zone) ed è sorvegliato 24 ore su 24 da militari di entrambi i paesi, più alcune unità di militari americani nel Sud: è caratterizzato da torrette di guardia, muri, filo spinato e tutto quello che serve per scoraggiare l’attraversamento del confine; confine che dal 1953 ha visto il tentativo di attraversamento di decine e decine di nordcoreani dal nord verso il sud, con i mezzi più svariati, compresi tunnel sottoterra o attraversamenti a nuoto via mare, tentativi che nella stragrande maggioranza dei casi hanno sortito solo morti ed uccisioni da parte dei soldati.  Allo stato attuale delle cose, i due paesi sono ancora molto distanti dal trovare un accordo, con il regime nordcoreano che vanta uno degli eserciti più armati al mondo e che prova ancora un profondo rancore verso i fratelli del sud,verso il Giappone ( ex potenza dominatrice fino al 1945 ) e soprattutto verso gli Stati Uniti.

La green line cipriota, un muro occupato (di Joshua Evangelista). Unficyp. Una sigla fredda, che quasi rimanda ai romanzi di Asimov. Invece è la forza speciale dell’Onu che dal 1974 presidia la Linea verde. Che a sua volta non è un rotocalco della Rai ma una terra di nessuno che divide in due l’isola di Cipro. Una linea tracciata con una matita verde dal generale inglese Peter Young per separare i quartieri turchi e greci della capitale, Nicosia. Un’area di 350 kmq, lunga 180 km e teatro di infinita violenza da parte delle forze armate di entrambi gli schieramenti. Sulla scia di rivolte arabe e indignados, il 15 ottobre 2011 attivisti greco-ciprioti e turchi diedero insieme il via a “Occupy buffer zone”, un movimento dal significato simbolico molto profondo che puntava il dito contro le grandi forze internazionali, accusate di essere interessate a mantenere lo status quo disgregato e ree di aver creato un paradigma geopolitico fallace. Obiettivo dichiarato la riunificazione dell’Isola e l’impegno per creare un clima di solidarietà condiviso. L’occupazione, che a più riprese ha subito la repressione della polizia (gli attivisti hanno denunciato anche stupri) è riuscita a sopravvivere fino a giugno 2012.

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Confine Usa-Messico, una vergogna a stelle e strisce (di Paola Totaro). Una barriera in lamiera metallica sagomata, alta dai due a i quattro metri. Questo è il muro che divide gli Stati Uniti dal Messico. Nato nel 1994, attraversa la frontiera da Tijuana a San Diego. La finalità della costruzione è quella di impedire agli immigrati clandestini messicani di varcare il confine con gli Stati Uniti. Il muro, lungo 3140 km non è continuo ed è stato eretto nelle zone dove in passato maggiori sono stati gli attraversamenti illegali, le zone urbane, che comprendono tra le altre San Diego, in California e El Paso in Texas. Il risultato è che coloro i quali vogliono varcare il confine illegalmente, sono costretti a farlo attraversando il Deserto di Sonora, oppure valicando il Monte Baboquivari, in Arizona. Circa 80 km di zone impervie prima di raggiungere la prima strada che si trova nella riserva indiana Tohono O’odham. Nonostante la barriera sia dotata di grande illuminazione, sensori elettronici per la visione notturna, torrette di guardia e filo spinato, oltre ad una vigilanza permanente sul posto, moltissimi sono ancora i messicani che tentano di attraversarla, anche a rischio della vita. Secondo dati ufficiali dal 1998 al 2004, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone. Per fronteggiare l’attraversamento clandestino la Border Patrol impiega moltissime pattuglie. Con loro collaborava anche Jeff Hall, il neonazista statunitense ucciso dal figlio di 10 anni con alcuni colpi di pistola alla testa.

Grecia-Turchia, per uccidere l’Europa soffocandola (di Joshua Evangelista). Mentre a piazza Syntagma ci si esercita per la rivoluzione, il governo greco intende erigere un muro per “mantenere la pace sociale”. E’ il paradosso della Grecia, che promette la costruzione di un’enorme barriera contro i migranti asiatici e mediorientali in transito dalla Turchia. Di fatti è un modo per allontanare ancora di più la potenza mediterranea dall’entrata nell’Ue. A Bruxelles restano guardinghi, limitandosi a dire che un altro muro non è una priorità. Eppure il ministro Chrisochoidis quando può mostra con orgoglio il “progettino”: una barriera alta tre metri che blocchi i flussi per una striscia di terra lunga dodici chilometri e mezzo. Al resto penserebbe il fiume Evros. Secondo il ministro – che afferma che nel 2011 sono stati 130.000 gli immigrati irregolari arrivati via terra – il muro sarebbe una “soluzione temporanea” che ha un’importanza “sostanziale e simbolica”. Già, il simbolo di un’Europa che vuole implodere in se stessa.

Jidar al-fasl al-‘unsuri, il muro dell’apartheid in Cisgiordania. (di Valerio Evangelista). “La costruzione del muro – e del regime che ne consegue – sono contrari al diritto internazionale”. Con queste chiare e inequivocabili parole la Corte Internazionale di Giustizia ha condannato, il 9 luglio 2004, la barriera che di fatto isola la Cisgiordania. Lungo più di 700 km (alcuni tratti sono ancora in costruzione) e realizzato dopo la seconda Intifada per contrastare gli attacchi suicidi contro i cittadini israeliani, il “muro dell’apartheid” influisce direttamente sulla vita dei palestinesi residenti nella West Bank: dalla perdita di territorio (è infatti costruito principalmente su terra abitata o coltivata dai palestinesi o di loro proprietà) alla restrizione di libertà (emblematico il caso di Qalqilya, una cittadina di 45mila abitanti interamente circondata dal muro, che può essere raggiunta solo tramite un checkpoint militare), dalle ripercussioni sulla sanità (l’associazione dei Fisici Israeliani per i Diritti Umani ha riscontrato che in alcuni villaggi vicino Gerusalemme, quali ad esempio Abu Dis o al-Eizariya, il tempo medio che un’ambulanza impiega per raggiungere l’ospedale più vicino è aumentato dai 10 ai 110 minuti), a quelle sull’economia (l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha constatato che migliaia di agricoltori palestinesi hanno i campi oltre il muro e che per coltivarli o vendere le merci nei mercati devono ottenere permessi speciali che richiedono una burocrazia estenuante). Il diritto internazionale e le principali Ong si sono schierate contro questa barriera, ma non sono i soli ad averlo fatto: parte dei coloni (i cui frequentissimi atti di violenza sono stati recentemente definiti “atti di terrorismo” dalle Nazioni Unite) sono contrari al muro di separazione, vedendo in esso una rinuncia a prendere possesso all’intera Terra Promessa, la Eretz Yisrael Ha-Shlema che va dal fiume Nilo al fiume Eufrate.

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Sahara Occidentale, un muro contro l’autodeterminazione dei popoli del deserto (di Alex Bizzarri). Il Sahara Occidentale, rivendicato come territorio marocchino a partire dagli anni ’50, diviene oggetto di contese e di lotte armate sin dai primi anni ’70 tra gli Spagnoli e il neonato Fronte Popolare di Liberazione “Polisario”. Col ritiro degli Spagnoli viene proclamata Repubblica Democratica Araba Saharawi ma immediatamente il Marocco invade il Paese e ne prende il controllo. Dagli anni ’80 il Marocco mette sotto controllo il territorio con muri difensivi e inizia una colonizzazione di popolamento. In questi ultimi anni nei Territori occupati del Sahara Occidentale è in corso una resistenza popolare, nonviolenta, per protestare contro la violazione sistematica dei diritti fondamentali. I saharawi chiedono la fine dell’occupazione della propria patria da parte del Marocco e la possibilità di scegliere, con un referendum di autodeterminazione, il proprio futuro, come stabilito dalle Nazioni Unite. La risposta delle autorità marocchine contro i manifestanti è stata violentissima, e una repressione anche più forte si è abbattuta sulla popolazione dei Territori occupati. Non si contano più i feriti, i maltrattamenti, gli arresti arbitrari, i casi di tortura. Particolarmente presi di mira sono gli attivisti dei diritti umani, quasi tutti arrestati. Amnesty International è intervenuta per chiedere al Marocco di rispettare i diritti umani e processare le persone responsabili di tali violazioni.

Wagah, il villaggio che separa due nazioni (di Emilio Garofalo).Un muro come valico di frontiera. Una grande inferriata, con una mezza luna scolpita. Siamo a Wagah, piccolo villaggio tra India e Pakistan, nel solo punto, sulla linea di confine tra i due Stati, in cui si può varcare la linea che li separa. Il muro è lungo migliaia di chilometri, e la porta di Wagah, ogni sera, saluta l’ammaino delle bandiere nazionali dei due paesi. Dopo la cerimonia, il muro viene chiuso, separando le migliaia di persone che, ogni giorno, vi si accalcano per assistere alla chiusura della frontiera. Ma anche per salutare i propri cari. Gli amici, i conoscenti, quelli che un tempo erano vicini. Quelli che, ogni sera, restano soli a loro volta, dall’altra parte.

 


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