Diario di un’emigrata in Australia, ultimo capitolo: “La fine del Working Holiday Visa”

foto: Stefano Marai, Federation Square nel cuore di Melbourne

di Eleonora Dutto (qui le altre puntate)

Il mio ultimo mese australiano sta per iniziare: è tempo di conclusioni. Le mie ultime due chance per rimanere in Australia non sono state così convincenti da intraprendere. Richiedere il visto per studenti, per qualsiasi corso o università, significa scegliere un percorso impegnativo dal punto di vista economico, anche se fattibile: qui lavorando si possono considerare anche spese elevate, ma il rapporto costo-opportunità di questa scelta non è allettante per me.

L’opzione del visto attraverso uno sponsor, ovvero un’azienda disposta ad assumermi per 2 anni e garantire per me, è un percorso burocraticamente macchinoso. I due posti di lavoro che ho avuto in questa periodo a Melbourne, in una caffetteria e in un ristorante, sarebbero disposti a concedermi il loro supporto, le due modalità per ottenerlo sarebbero: dimostrare, con una documentazione, tre anni di esperienza in questi settori oppure presentare un titolo di studio attinente al lavoro. La mia laurea non ha nulla a che fare con questi lavori, sommando però le esperienze che ho avuto in Italia nella ristorazione e nel commercio supero i tre anni tranquillamente.

Ma in sostanza, nonostante le qualità di vita, non mi sono innamorata a tal punto dell’Australia da accettare di rimanere ad ogni costo, anche quello di fare un lavoro che non mi interessa.

E allora perche non ho provato a cercare uno sponsor in un impiego più attinente con i miei studi, quindi più stimolante? Forse perché il mio livello di inglese intermedio non mi ha dato abbastanza fiducia da presentarmi in un ufficio, oppure perché cambiando per due volte città in cui ho vissuto durante quest’anno non ho avuto tempo per entrare in contatto con l’ambiente che mi interessava, o semplicemente perché in fondo, strada facendo, non è nata in me la voglia costruire qui la mia vita.

Ho scelto di affrontare quest’anno di Working Holiday Visa australiano perché in Italia avevo vissuto un momento di delusione personale e lavorativa e avevo bisogno di ritrovare un po’ di energia. Prima di partire, a chi mi chiedeva se avevo intenzione di tornare o di restare, rispondevo che non ne avevo piani: partivo per un anno all’avanscoperta e con la mente aperta a tutte le soluzioni.

E quindi ho deciso di rientrare in Italia: per restare? Di nuovo nessun piano, ma intanto torno arricchita da un’esperienza di vita profondamente formativa per tante ragioni. Con la fine di maggio lascerò Melbourne per vivere il mio ultimo mese australiano alla scoperta del cuore dell’Australia: attraverso il monte Uluru, Darwin e la barriera corallina, fino a tornare al punto di partenza, Sydney e riprendere il volo per casa.

L’intento di questo diario è stato quello di riportare una testimonianza diretta da uno dei paesi in cui la mia generazione sta migrando in massa. Non c’è stata mai la pretesa di insegnare nulla: per ogni storia che vi ho riportato, e per la mia, potrete incontrare una storia uguale e contraria. Nulla si può generalizzare, al limite si possono trovare dati oggettivi: anche con opportunità ridotte rispetto a qualche anno fa, è obiettivamente un paese dove ancora si può trovare un lavoro con cui vivere dignitosamente. Costruirsi una nuova vita australiana dipende poi dall’ambizione soggettiva, dalle proprie capacità, dalla propria intraprendenza e tenacia. Per il resto, non esistono paesi dei balocchi di per sé.

Il mio percorso mi ha portato a concludere che nessun uomo è un’isola, neanche grande e ricca come l’Australia. Auguro buona fortuna a chiunque stia per intraprendere la sua avventura nel Down Under!

Ringraziamenti

Ringrazio profondamente la redazione di Frontierenews che ha accettato la mia collaborazione e ha dato pazientemente spazio a questo diario.
Ringrazio gli amici e i familiari che hanno superato il limite della distanza facendomi sentire la loro costante vicinanza.
Ringrazio anche chi non è riuscito a farlo perché mi ha dato l’opportunità di capire il significato della mancanza.


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