Il Guatemala tra crisi dell’agrobusiness e rivendicazioni degli indigeni

di Andrea Rinaldi

UN ALTRO SGOMBERO, PUNTA DI UN ICEBERG – Il 25 maggio scorso, nel comune di Panzòs (valle di Polochic) nella zona centro-nord del Guatemala, un’impresa del Gruppo Pellas ha tentato un violento sgombero contro oltre 90 famiglie indigene. Il Comitato d’Unità Contadina e il comitato delle famiglie colpite hanno denunciato la presenza di un centinaio di paramilitari, riconducibili all’azienda produttrice di canna da zucchero, che hanno sparato e intimidito la popolazione locale provocando il ferimento di 5 persone, di cui una in condizioni gravissime. Non è la prima volta che il Guatemala è protagonista di simili violazioni dei diritti umani, anzi, dalla fine della guerra civile nel 1996, con la fase di stabilizzazione democratica, si ripetono continuamente episodi del genere.

LA MANCATA RICOSTRUZIONE SOCIALE – La fine della decennale guerra civile non ha provocato il termine delle violenze, gli accordi di pace non hanno risolto la situazione di instabilità e insicurezza, e neppure pacificato il Paese. Difatti si è passati da un’alternanza di giunte militari a una nuova fase democratica segnata da conflitti sociali e forte repressione della protesta. Ma anche una criminalità molto diffusa e un tasso di povertà altissimo, diffuso sopratutto tra la popolazione contadina che è soprattutto indigena, in particolare di etnia k’iche.

AGRICOLTURA –  Il settore agricolo è ancora il protagonista dell’arretrata economia guatemalteca, che dipende molto dagli investimenti esteri e dalla presenza di multinazionali, in minima parte impegnate nella produzione industriale. L’esportazione di materie prime rappresenta quindi la percentuale più ampia del P.I.L, sopratutto verso gli Stati Uniti, da cui comprano invece prodotti ad alto contenuto tecnologico.

 Proprio la popolazione rurale, che dovrebbe essere il traino dell’economia, risulta la più povera e soprattutto malnutrita. Un paradosso diffuso, provocato sopratutto dalla quasi totale assenza di politiche sociali e dall’altissima concentrazione della terra in mano di pochi attori che praticano monocolture che non garantiscono la sicurezza e l’autonomia alimentare della popolazione.

 Il modello imperante, sostenuto anche dal governo di Otto Pérez Molina – ex generale accusato di violazione di diritti umani – è quello dominante dell’agroindustria.

I LIMITI DELL’AGROINDUSTRIA – Un modello in forte crisi, vista l’incapacità di garantire la sicurezza alimentare per l’oltre miliardo di affamati presenti nel pianeta, come invece era stato promesso dai suoi sostenitori. I suoi evidenti limiti sono venuti fuori nel 2008, quando negli Stati Uniti scoppiava la bolla dei mutui subprime. Nello stesso periodo i prezzi dei beni alimentari principali (frumento, grano e mais) sono saliti a livelli record per poi ridiscendere pochissimo tempo dopo, mettendo il luce la bolla speculativa dei futures su certi beni. L’oscillazione dei prezzi – che nei prossimi 10 anni porterà ad un aumento del 20% del prezzo del frumento – è stato in particolare scatenata dalla forte crisi ambientale ed energetica congiunta alla massiccia speculazione finanziaria. La crisi ha messo in luce la centralità economica della terra come risorsa da cui trarre un guadagno provocando una nuova corsa all’accaparramento. Investitori, prima meramente finanziari, come le grandi banche, hanno cominciato a interessarsi nuovamente all’agricoltura e alla produzione di generi alimentari.

SGOMBERI, ESPROPRI E VIOLENZE – Le comunità locali di Africa e America Latina vedono, ancora di più ora, espropriare la loro terra da compagnie private sostenute dai grandi organismi internazionali come il FMI e con il beneplacito dei governi locali che vedono il progresso con l’arrivo delle multinazionali. Negli ultimi anni, il ‘piccolo’ Guatemala ha visto centinaia di richieste per le concessioni terriere, in particolare per l’estrazione di oro e nickel, ma anche per la costruzione di centrali idroelettriche, per le monocolture di biocarburanti e generi alimentari come la canna da zucchero e il caffè.

I movimenti contadini hanno denunciato innumerevoli casi di sgombero brutale delle terre, senza possibilità di consulta previa per la costruzione di grandi opere, e senza che i diritti dei contadini vengano garantiti. La piccola proprietà contadina viene spesso sostituita da estese monocolture, la manodopera viene riassorbita ma violando i diritti dei lavoratori e la coltura intensiva e chimica provoca un forte impatto ambientale di inquinamento del suolo e dell’ecosistema.

Le compagnie come il Gruppo Pellas, che agisce localmente con l’impresa Chabil Utzaj, negano qualsiasi coinvolgimento, anche se è chiara la stretta correlazione tra violenze e interessi privati. Il Comitato di Unità Contadina denuncia questi militari come sicari delle imprese agricole che, come testimoniano molti video reperibili sul web, praticano gli sgomberi incendiando interi villaggi e senza farsi scrupoli nell’uso delle armi.

Il comitato denuncia anche la responsabilità del governo immobile di fronte alle violenze, che in diversi anni hanno portato allo sgombero di quasi 1000 famiglie nella sola valle di Polochic. In particolare viene ribadita la necessità che l’esecutivo di Molina prenda posizione e che le proteste dei cittadini non vengano criminalizzate con la proclamazione dello stato d’assedio – come accaduto il 1 maggio scorso in diverse regioni del Paese – o represse nella violenza militare, che da decenni è l’unica risposta alle rivendicazioni sociali.


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