Carcere femminile di Herat: storie di detenzione e speranza

 

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di Ilaria Bortot

Il mio secondo giorno ad Herat ha in programma la visita al carcere femminile. Ad accompagnarmi, oltre i ragazzi della scorta, c’è il colonnello Gionti, responsabile del Provincial Reconstruction Team – CIMIC Detachment (PRT) di Herat.

LA STRUTTURA E IL PROGETTO: Il PRT è l’unità militare che gestisce i progetti di sviluppo nella provincia di Herat coordinandosi con il Ministero degli Affari Esteri, le autorità locali e le altre Organizzazioni Internazionali presenti. L’attività del Provincial Reconstruction Team ha una grande valenza dal punto di vista dello sviluppo dell’economia locale e del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Tutto quello che viene costruito, realizzato e pensato viene fatto al fine di incoraggiare l’economia e lo stato sociale della provincia di Herat, soprattutto ora che si è nella fase critica della transizione. Tutti i lavori condotti dal PRT vengono appaltati alle ditte afghane, che utilizzano a loro volta manodopera locale, incentivando così la crescita dell’economia come vuole il motto che sta alla base di questa nuova fase: “Afghan First”.

Il carcere femminile è uno di questi progetti: inaugurato nel 2009, la struttura è dotata di una piccola biblioteca, una lavanderia, dei laboratori – dove le detenute imparano un mestiere o una lingua, un asilo nido, una cucina spaziosa e 12 camerate. La nuova struttura è andata a sostituirne una vecchia e fatiscente dove era impensabile creare quello che si vede oggi qui.

Appena arriviamo mi accoglie la polizia afghana: sono loro a mantenere l’ordine. Solitamente le guardie carcerarie sono donne, direttrice inclusa. Oggi però, visto che è giorno di visita, hanno chiesto “rinforzi”.

LA VISITA: Appena varco la soglia ad accogliermi c’è un vociare di donne e bambini. Seduti, davanti a me, mille colori di veli e di burqa sollevati: azzurro, arancione, rosa, blu. I colori colpiscono forte la mia vista, le donne sedute a gambe incrociate aspettano il loro turno per poter visitare le sorelle, le madri che sono detenute lì mentre i bambini gattonano sul pavimento freddo.

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La direttrice delle guardie mi accoglie, mi ringrazia per essere lì, ringrazia il PRT, tutto quello che il contingente italiano ha fatto per la loro struttura e inizia a camminare veloce per mostrarmi orgogliosa il “suo” carcere. Prima su tutto l’infermeria, dove nascono bambini e vengono fatte tutte le analisi necessarie ad ogni detenuta. Sul muro le scritte di quante sono e quali vaccini hanno fatto. Sono circa 120 le detenute presenti oggi nel carcere, una sola è malta di Hiv. Un dato rincuorante, mi spiega la direttrice tramite l’interprete.

Poco più avanti, in una stanza tutta colorata, c’è l’asilo nido. Nel carcere è permesso alle madri tenere i bambini con loro fino ai sei anni di età: qui possono studiare, giocare, stare con i loro coetanei. Seduti al centro della stanza tre di loro mi guardano incuriositi e, forse, un po’ spaventati. Ne arrivano altri e tutti insieme intonano una canzone per me: parla di mamme, del dono della vita, di speranza.
Tutti i giochi che ci sono nella stanza sono in ordine: macchinine, peluche, bambole… Se non fosse che so perfettamente dove sono, sembrerebbe un asilo in piena regola.

Andando avanti arriviamo alla cucina, spaziosa e organizzata su due turni: qui ognuno può cucinare quello che vuole, per sé e per il suo bambino. Chiedo di visitare i bagni ma mi viene negato. Poco dopo arriviamo a quello che è il fiore all’occhiello del carcere femminile: i laboratori. Qui, infatti, è possibile seguire dei corsi per imparare un mestiere: parrucchiere, sarte e tessitrici di tappeti sono quelli che vanno per la maggiore. Ma ci sono anche corsi di alfabetizzazione, di lingua inglese, di religione. Tutto quello che può diventare utile una volta che faranno ritorno alla vita “reale”, quella fuori dal carcere.

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I MOTIVI DELLA DETENZIONE: Chiedo alla direttrice il motivo per cui queste donne sono qui. “Omicidio e adulterio: nella parte sinistra dei dormitori stanno le adultere, nella destra le assassine”. Pena massima? “Vent’anni. Ma i condoni vengono fatti spesso… E’ facile che si passi da dieci a cinque anni”.
Rifletto sulle motivazioni: adulterio e omicidio. Le donne che sono incarcerate qui molto spesso hanno solo deciso di ribellarsi alle botte di mariti violenti e storditi dall’oppio. Oppure hanno avuto il coraggio di dire no al matrimonio combinato, imposto dalla famiglia, scegliendo di stare insieme a qualcun altro, diventato così “prostitute” per la legge.

I LABORATORI: Quando entriamo nella sartoria, una signora più anziana sta insegnando a una giovane detenuta come cucire gli abiti che poi verranno venduti nei mercatini che si tengono un paio di volte all’anno alla base di Camp Arena. Mani esperte e veloci si muovono su una macchina da cucire Singer che definire antica è un complimento. Eppure la velocità e la bravura della sarta mi restano impresse: sotto ai miei occhi viene confezionata una maglietta bellissima. Poco dopo, la direttrice mi regala una pashmina e un abito tradizionale cucito da loro: colori e perline che sembrano quasi suggerire speranza.
Parte del ricavato delle vendite resta direttamente alle detenute: in questo modo possono continuare ad aiutare la famiglia a casa, mantenere i propri bambini e riuscire a mettere qualcosa da parte per il dopo, per quando la detenzione sarà finita e la libertà sarà di nuovo parte della loro vita. Le camerate ordinate, pulite. Le lenzuola tese e i letti abbastanza grandi per far spazio ai bambini che dormono con le madri. La televisione, i ventilatori accesi.

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Non si fa fatica a credere che il carcere diventi un luogo di salvezza per queste donne spesso costrette a vivere in condizioni pessime, a sopportare umiliazioni e mariti violenti in una società che non prevede alcun diritto per loro.
Certo, non sarà tutto perfetto. Sicuramente qualcosa non mi è stato mostrato, non so se le donne sono davvero così contente del loro “rifugio” e se il pasto caldo che hanno qui e qualcosa che le rincuora davvero. Eppure, la possibilità di un’educazione che fuori da quelle mura viene spesso a loro negata mi lascia ben sperare.
In fondo, anche noi, abbiamo qualcosa da imparare da loro.
GIORNO 3: intervista alla direttrice del Dowa


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