“Alhamdulilah”, storie di fuga e di rifugiati

di Alessandro Pagano Dritto

Dal 17 febbraio al 23 ottobre 2011 otto mesi di guerra civile ponevano fine, in Libia, alla quarantennale guida del Colonnello Muammar Gheddafi. Vinceva la guerra il fronte variegato dei ribelli, il cui rappresentante ufficiale era il Consiglio Nazionale Transitorio (National Transitional Council, NTC).

Otto mesi di guerra civile, quelli, che oltre ad un altissimo numero di morti provocarono anche un numero elevato di rifugiati; nei paesi africani limitrofi ma anche, attraversato il Mediterraneo, in Europa. E il lembo più vicino di Europa per molti furono allora l’Italia, la Sicilia, l’isola di Lampedusa.

Già il 12 febbraio 2011, sull’onda degli eventi tunisini che di poco precedettero quelli libici, il governo italiano dichiarò uno Stato di emergenza nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa. La conclusione era stata inizialmente prevista per il 31 dicembre 2011, ma il 6 ottobre di quello stesso anno venne spostata di un anno esatto: 31 dicembre 2012.

L’esile libro della giornalista Valentina Tortelli, Alhamdulilah. Grazie a Dio. Storie di uomini e donne raccolti dal mare (Asterisk edizioni, Roma, 2013, pp. 96, Creative Commons), si propone di raccontare, attraverso appunto le loro vicende personali, alcune delle storie dei migranti che in quei due anni o poco meno raggiunsero l’Italia dalla Libia attraversando il Mediterraneo: sono undici storie, in alcuni casi individuali e in altri invece di coppia, raccolte nel Centro di Accoglienza Richiedenti Asilo (CARA) di Falerna Marina, in provincia di Catanzaro.

La stessa autrice dice di sé: «Io non sono un esperto di immigrazione. Non sono un operatore sociale. Non sono un membro della Commissione territoriale per il riconoscimento dello Status di Rifugiato. Io scrivo. E ho trascritto le storie di alcuni fra questi ragazzi, con tutta la loro carica aliena» (p. 88)

Il transito attraverso il Mediterraneo, pur passati gli eventi eccezionali del 2011, non si è mai concluso del tutto, e l’ultimo affondamento che si è imposto con un certo rilievo all’opinione pubblica è avvenuto solo nella prima metà di maggio. In quegli stessi giorni l’emittente Al Jazeera produceva un’inchiesta sulla condizione dei migranti stranieri in Libia, mostrando le condizioni in cui vengono tenuti.

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L’opera di cui qui si scrive può essere allora utile per smontare alcuni stereotipi molto diffusi sui migranti provenienti dal paese nordafricano.

Del primo si è appena accennato: una buona parte dei migranti provenienti dalla Libia non è libica. Come non lo sono tutti quelli ascoltati da Valentina Tortelli. Si tratta invece spesso di persone provenienti da paesi sub sahariani che, scappati dai loro luoghi d’origine, hanno raggiunto il paese nordafricano per condurvi una vita da lavoratori stipendiati. Certo, in molte di queste testimonianze i migranti denunciano una certa ostilità della società civile nei loro confronti. Ostilità che si fa drammatica almeno in un caso: quello di Kamate, 26enne del Burkina Faso a Sebha dal 2008, che – così testimonia – riuscì per un soffio a non essere travolto da una macchina e, ferito, dovette aspettare cinque ore prima di essere visitato al locale ospedale. Alla fine si occupò di lui, racconta, un medico non libico che ne ebbe pietà. Osman, dal Gambia, sintetizza così, con rassegnato pragmatismo, la sua esperienza libica: «Quando ero in Libia, non avevo nessun problema nonostante il fatto che lì non hai diritti se sei un nero. Continuavo a vivere bene, perché se stai attento e non causi problemi, puoi lavorare tranquillamente» (cit.; p. 66).

Le vicende di tutti questi migranti possono essere riassunte con queste tre semplici tappe: fuga, esodo, arrivo in Libia. In pochi tra questi – secondo stereotipo – avrebbero lasciato la Libia se non vi fossero stati fisicamente costretti dalla guerra. E anche in guerra, uno solo degli intervistati – Issak, nigeriano – ammette di essersi imbarcato volontariamente per l’Italia, mentre gli altri sostengono di essere stati spinti a forza dai soldati lealisti dopo il rifiuto di prendere le armi per loro: nessuno in realtà spiega esattamente il perché di questi imbarchi coatti, che in alcuni casi sono avvenuti dopo un più o meno breve periodo di detenzione, lavori forzati e torture, dopo la sottrazione degli effetti personali. Per molti però, si legge, Tripoli – conquistata dai ribelli il 20 agosto 2011 – fu una prima meta interna di spostamento in area lealista e da lì, o dalle immediate vicinanze, questi hanno preso il mare. Così hanno scritto, in una lettera pubblica, i profughi di Falerna Marina: «In quei giorni siamo stati rastrellati nelle nostre case e nelle nostre strade, messi in dei barconi senza sapere dove eravamo diretti, prima di imbarcarci ci è stato requisito ogni nostro avere, cellulari, memory card, soldi. I soldati di Gheddafi ci chiedevano di prendere le armi per loro, i ribelli ci accusavano di essere dei mercenari e invece non eravamo né l’uno né l’altro: solo delle persone, essere umani, padri famiglia che lavoravano onestamente in Libia. Noi non volevamo andare via dalla Libia, siamo stati deportati. Se qualcuno ce lo avesse chiesto, avremmo certamente risposto: non vogliamo partire» (cit.; p. 19).

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Un terzo stereotipo che il libro aiuta a incrinare è quello del rifugiato che arriva e rimane in Italia per fuggire dalla povertà. Non è per forza così. Commentando la scarsa conoscenza che alcuni tra i migranti hanno della burocrazia necessaria per poter rimanere in Italia, spiega infatti a Valentina Tortelli Tonino Barberio, avvocato del foro di Lamezia Terme e legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI): «Magari si concentrano di più sul motivo economico della propria fuga che non dà, di per sé, nessun aiuto al fine dell’ottenimento della protezione, e tralasciano invece alcuni aspetti delicati o particolari come le violenze subite (anche sessuali) che rientrano nei parametri stabiliti dalla Convenzione di Ginevra per il rilascio della protezione internazionale» (cit.; p. 79). In effetti la stessa suddivisione del libro in tre capitoli è da questo punto di vista eloquente. I capitoli sono infatti intitolati: «Storie di razza», «Storie di religione», «Storie di nazionalità», manca un eventuale «Storie di povertà». Vi si parla di conflitti per il possesso della terra, di scontri tra etnie, di discordie religiose che costringono una persona ad allontanarsi dal proprio paese: a volte c’è anche l’eterna suggestione di una storia d’amore resa impossibile dai familiari per i più vari motivi, ma quasi sempre, anche in questi ultimi casi, c’è di mezzo anche un tentato attacco alla propria persona. Non è quindi la povertà ad essere il discrimine per ottenere protezione e rimanere in Italia, come si può essere indotti a ritenere, quanto invece l’incolumità personale. E proprio per questo – aggiunge l’avvocato – c’è la necessità sempre più pressante, in virtù dei recenti eventi, di non considerare più solo il paese d’origine, ma anche quello di provenienza: in questo caso una Libia dove l’incolumità personale del migrante non può essere garantita.

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Dopo i tre capitoli e i rispettivi sottocapitoli che raccontano le storie dei migranti intervistati, Valentina Tortelli propone con intelligenza due interviste – quella già citata all’avvocato Tonino Barberio e quella al «capo del villaggio» Carmine Sciarrillo, responsabile del Centro di Accoglienza Residence degli Ulivi di Falerna Marina – e la Guida alla procedura per il riconoscimento dello status di protezione internazionale curata dal Ministero dell’Interno. Tre elementi utili al lettore che, dopo la lettura emotiva, forse meglio dire emozionale, delle undici vicende personali, può inquadrare la questione anche da un punto di vista più razionalmente normativo e giuridico, molto più di quanto questa recensione possa fare nel suo breve spazio.

Un libro utile, insomma, questo della Tortelli, a inquadrare emotivamente e razionalmente una questione solo apparentemente circoscritta al biennio eccezionale 2011-2012, ma in realtà sempre presente nella storia contemporanea di due paesi, l’Italia e la Libia, separati da pochi chilometri di Mar Mediterraneo.

 


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

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