“Radici”, sette generazioni afro-americane tra Islam, schiavitù e identità

Radici” è un romanzo del giornalista afroamericano Alex Haley, pubblicato per la prima volta nel 1976. Il libro, da cui sono state tratte due serie televisive, è diventato rapidamente un best-seller a dispetto delle accuse di plagio, stimolando l’interesse degli Americani per la propria genealogia. In esso l’autore ripercorre la storia del ramo materno della propria famiglia per sette generazioni, concentrandosi per circa un terzo della narrazione sulle vicende di Kunta Kinte, suo antenato musulmano originario del Gambia, catturato e portato in America come schiavo nel 1767. Le vicende – secondo quanto egli riporta nelle ultime pagine – si basano sui racconti orali tramandati da sua nonna Cynthia; ogni notizia sarebbe stata poi suffragata con documenti d’archivio riguardanti la tratta degli schiavi, recuperati fra Africa, Europa e America.

Nonostante nel suo lavoro di ricerca e riscoperta, mosso da motivazioni nostalgico-sentimentali, l’autore abbia approfondito gli aspetti quasi esclusivamente antropologici ed etnografici della cultura mandinka, le descrizioni da lui tracciate dei riti ancestrali della popolazione offrono involontariamente al lettore un dettagliato spaccato dell’islam africano passato e presente. Le peripezie che subisce Kunta Kinte nel Nuovo Continente coinvolgono anche la pratica della sua religione; una religione che si reinventa, si perde e, a volte, riemerge.

Il nome di Allah appare nel romanzo sin dalla prima pagina, con il richiamo alla preghiera, officiata cinque volte al giorno come l’ortoprassi prescrive. Quest’ultima, tuttavia, si fonde immediatamente con i costumi e le tradizioni tribali dell’Africa Occidentale, in uno stile volutamente evocativo: nel momento in cui bisogna scegliere il nome per Kunta, primogenito di una gloriosa stirpe, il rito della tasmiya ed il taglio della ciocca di capelli riportati nella sunna vengono accompagnati da tamburi, pietanze simboliche e formulari africani. Nel villaggio di Juffure vige la separazione fra i sessi, un uomo può prendere più mogli, ma accanto ai tappeti da preghiera si trovano talismani ed amuleti, ed ai sacrifici ad Allah vengono alternate millenarie danze della pioggia. I credenti non consumano carne di maiale né tabacco o birra dei mercanti pagani, ma i corpi dei defunti, sebbene avvolti in tessuti di cotone bianchi, non vengono orientati verso la Mecca al momento della sepoltura; in effetti, non vi è alcun accenno alla qibla. Kunta, così come gli altri, si reca in moschea e poi corre al grande baobab da cui penzolano auspici in arabo contro gli spiriti maligni. La “lingua sacra” gli viene insegnata sin da bambino; l’educazione che riceve è quella canonica da kuttāb: apprendere i versetti del Corano e la dottrina è fondamentale per essere considerato uomo nella sua società, dove i ragazzi salutano gli anziani con “Pace!”, il corrispettivo di salām. La circoncisione (ḫiṭān nella tradizione islamica), indicata col nome di “operazione kasas boyo”, è il sigillo del passaggio all’età adulta. Il matrimonio si basa sulla verginità della sposa, ed è il risultato di una contrattazione con il padre di quest’ultima. Il ripudio è assolutamente contemplato, nella sua forma triplice, e secondo tutte le norme note.

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È questa la realtà da cui Kunta Kinte viene sradicato, per essere deportato in una terra di infedeli; kafir, come vengono definiti nel libro. Ma se all’inizio della sua vita da schiavo il solo essere incatenato ad un pagano nella stiva della nave lo sconvolge, dopo decenni trascorsi nella sua piantagione, arriverà a sposare una cristiana -nera come lui, sebbene non africana- e ad accettare per sua figlia un’educazione non musulmana, conservando per sé le proprie abitudini religiose, fra cui le cinque preghiere giornaliere e l’astinenza dal maiale. Non le insegnerà i versetti del Corano, che per lei “sarebbero una filastrocca”, e neppure a scrivere in arabo, perché “non è bene per le bambine”. Quelle che di generazione in generazione verranno trasmesse saranno invece poche parole in africano; parole attraverso le quali Haley riuscirà a risalire non senza svariate difficoltà alle proprie origini, restando affascinato dalla forza della memoria orale dei griot della sua gente, inesaurita nei secoli, che lo accoglierà come “un figlio perduto da lungo tempo e ringrazierà Allah.

Per l’autore la saga dei propri antenati è stata concepita per essere “simbolicamentela saga di tutti gli americani di pelle scura che, senza eccezione, sono i discendenti di qualcuno come Kuntaed egli è certamente riuscito nel suo intento: le vicende personali dei personaggi si intrecciano infatti con l’epopea dello schiavismo, la lotta dei neri – di ogni provenienza e credo – per la propria emancipazione e le battaglie degli ormai afroamericani per il riconoscimento dei propri diritti, offrendo un altro punto di vista della storia moderna e contemporanea; una storia che non è stata scritta dai vincitori.


Profilo dell'autore

Annamaria Bianco
Giornalista pubblicista dal 2012 e dallo stesso anno vagabonda fra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Traduttrice, anche. Il cuore come il porto della sua Napoli, scrive per lo più di interculturalità e mondo arabo-islamico.

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