Russia ieri e oggi: quando i prigionieri di guerra diventano persone

Mosca, 1944. I russi hanno appena vinto la seconda guerra mondiale con un bilancio di oltre 20 milioni di connazionali morti. Il poeta Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, allora bambino, in questo brano tratto dalla sua “Autobiografia preoce” racconta il corteo dei prigionieri di guerra tedeschi lungo i viali della capitale sovietica, circondati dagli sguardi e le urla d’odio delle donne a cui i nazisti avevano portato via parenti e dignità. Una pratica, quella del pubblico ludibrio dei nemici, drammaticamente contemporanea. Qui però succede qualcosa. Ad un certo punto i nemici diventano “uomini”.

Nel 1944 tornammo a Mosca, mia madre ed io, e fu la prima volta nella mia vita che vidi dei nemici. Erano, se non ricordo male, 25 mila prigionieri tedeschi che dovevano attraversare le strade della città, in una lunghissima colonna. I marciapiedi erano gremiti di gente, tenuta indietro da soldati e da poliziotti. Una folla immensa. Tutte donne, donne russe con mani da uomini, deformate dalla fatica, con labbra che non conoscevano rossetto, spalle magre ossute, sulle quali tuttavia aveva gravato il maggior peso della guerra. Ad ognuna di esse, con ogni probabilità, i tedeschi avevano portato via o il padre o il marito, o il fratello o il figlio.

Finalmente comparvero. Davanti c’erano i generali: marciavano con il volto superbo, le mascelle rigide. Gli angoli delle loro labbra erano asciutti: portavano dipinto il disprezzo. In quel modo essi volevano riaffermare la loro aristocratica superiorità sulla plebe che li aveva vinti. Le mani delle donne operaie, al loro passaggio, si strinsero in pugno. All’improvviso successe una cosa straordinaria. Dietro i generali, vennero i soldati: magri, sporchi, la barba lunga, la testa bendata con fasce insanguinate, tenevano la testa bassa. Più nessuno urlò. Un silenzio di morte corse per la strada.

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“Lasciatemi passare” disse allora una donna con dei grandi stivaloni russi, mettendo una mano sulla spalla di un poliziotto. Avvicinatasi alla colonna dei prigionieri, la donna estrasse dal suo giubotto un pezzo di pane nero, gelosamente custodito dentro un fazzoletto, e lo porse a uno dei soldati tedeschi, uno di quelli che si trascinava con maggior fatica. Altre donne seguirono il suo esempio e gettarono pane, sigarette e altra roba ai soldati tedeschi. Questi, d’incanto, avevano cessato di essere nemici: adesso erano degli uomini, nient’altro che uomini.

Da Autobiografia precoce, Feltrinelli


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