Cooperazione Ue-Corno d’Africa, “Non frontiere, ma ponti”

foto di Monica Ranieri

Un’Europa che non alza muri ma costruisce ponti. È questo il messaggio che è stato lanciato venerdì 28 novembre a Roma, con una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati per presentare la campagna “Giustizia per i nuovi desaparecidos”. Il progetto ha l’obbiettivo di denunciare le continue morti e sparizioni di migranti nell’area mediterranea, ricostruire la verità, sanzionare i responsabili e rendere giustizia a vittime e familiari. Tutto questo in occasione del Processo di Khartoum (EU-Horn of Africa Migration Route Initiative – HoAMRI) la cui Conferenza Ministeriale di lancio si è tenuta nello stesso giorno in grande segreto presso l’NH Midas Hotel.

Davanti a Palazzo Montecitorio, anche una manifestazione organizzata da “Italians for Darfur” per denunciare lo stupro di massa di 210 donne in Darfur e per attirare l’attenzione dei ministri Gentiloni e Alfano presenti alla Conferenza Ministeriale. I dimostranti hanno chiesto di fare pressioni su “Khartoum” affinché autorizzi un’inchiesta internazionale indipendente sulla vicenda degli stupri di massa.

Il flash-mob di "spose" a Montecitorio per la libertà di movimento - Non frontiere, ma ponti per il Processo di Khartoum. Presentata anche la campagna “Giustizia per i nuovi desaparecidos”
foto di Monica Ranieri

NOI STIAMO CON LA SPOSA

In compresenza con i sudanesi, anche un flash-mob di spose, arrivate tutte in fila e inseritesi al centro della manifestazione con cartelli che dicevano: “No frontiere ma ponti”. Hanno voluto richiamare l’attenzione, con vestiti bianchi e fiori rossi, non sulla purezza delle donne, come qualcuno ha mal interpretato, ma sul tema dei rifugiati e delle morti nel Mediterraneo, temi centrali del film documentario Io sto con la sposa e motivo per il quale le ragazze vestivano abiti bianchi. Le “spose”, tra le quali c’era anche Chiara Denaro, una delle protagoniste del film, hanno poi partecipato alla conferenza stampa ed hanno chiesto ai presenti di riflettere sulle morti del Mediterraneo e sulle leggi sbagliate che il sistema politico europeo continua a proteggere. È il caso di Dublino II, che impone a un migrante di fare richiesta di asilo nel primo paese europeo nel quale fa ingresso. Questi, che sono in genere paesi di transito, non possono assicurare la protezione a tutti i migranti in arrivo ed è giusto che le leggi vengano cambiate per permettere a un rifugiato di avere, insieme alla cittadinanza, gli stessi diritti di cui gode un cittadino europeo e dunque viaggiare in un’Europa senza muri e frontiere.

PROCESSO DI KHARTOUM E COOPERAZIONE

Per la Campagna “Giustizia per i nuovi desaparecidos” parla alla conferenza Enrico Calamai, portavoce del progetto, che vuole sollecitare la creazione di un tribunale internazionale d’opinione come primo passo per dimostrare che stragi come quella del Mediterraneo “sono scientemente provocate o lasciate accadere”. Secondo Calamai e la campagna che egli rappresenta, la strategia applicata è quella della Desaparición, una modalità di sterminio di massa gestita nell’ombra del sistema mediatico, in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza o possa dire di non sapere. Evitare che partano, che arrivino, che si sappia di loro e di scenari lontani dalle nostre oasi di benessere, realtà inesistenti e inconcepibili sullo scenario mediatico mondiale.

Il processo di Khartoum vuole ripartire dalla cooperazione, spiega Tsegehans Weldeslassie del Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”. Cooperazione significa sostegno e assistenza, ma con chi stiamo cooperando nel caso dell’Eritrea e dei paesi del Corno d’Africa? Con un presidente non eletto, con un dittatore al potere da 23 anni, con qualcuno che ha causato la morte di migliaia di giovani ed ha cancellato tutti i diritti di libertà del popolo eritreo. Collaborare con tutto questo significa supportare tutto questo e dunque esserne complici.

CAMPI PROFUGHI E DIRITTI UMANI

Questo processo si sta facendo con dei dittatori”, ribadisce Enrico Drudi dell’Agenzia Habeshia, e mirando ad una nuova politica migratoria sembra aprire un corridoio legale per sottrarre i profughi dalle mani degli scafisti. Tuttavia, spiega Drudi, perché questi presupposti vengano realizzati si deve lavorare su tre punti fondamentali: che tutte le ambasciate siano aperte alle richieste di asilo, che vengano create condizioni di vita accettabili nei paesi di transito e infine che venga creato un sistema unico di accoglienza europeo.

Di tutto questo il processo di Khartoum non fa parola e si limita a citare la creazione di campi profughi nei paesi interessati dai flussi migratori, che avrebbero invece solo il risultato di ghettizzare, soprattutto quando le autorità legali non collaborano, come nel caso del campo profughi di Shakarab in Sudan. Il rischio di sparizioni di massa è in questi luoghi molto alto: i rifugiati vengono rapiti per chiedere il riscatto alle famiglie, subiscono torture ed oppressioni, e vengono minacciati di essere inseriti nel traffico clandestino degli organi. Tutto questo non potrà cambiare con il Processo di Khartoum se si continuerà a lasciare da parte le questioni legate ai diritti umani, e se si continuerà a collaborare con dittatori come quello del Sudan, che ha accumulato un ordine di cattura internazionale per reati contro l’umanità e crimini di guerra, oppure con la dittatura militare dell’Eritrea che ha attribuito proprio in questi giorni la responsabilità dell’immigrazione proprio al commissariato dell’Onu per i rifugiati.

LA REALTÀ ERITREA

In Eritrea in particolar modo la situazione politica è quella di un regime militare de facto. “Immaginate un paese” diceSefaf Siid Negash, del Coordinamento Eritrea Democratica, “nel quale non ci sono elezioni dal 1993, in cui c’è il sistema del partito unico e non esiste un’opposizione, non esiste libertà di stampa, di opinione e di culto (tante religioni sono fuorilegge) e non esiste un giornale indipendente”. Poi c’è il servizio militare senza scadenza, almeno 10.000 prigionieri politici nelle carceri e solo un tribunale militare. In questo contesto e con queste prospettive, un giovane è costretto a fuggire se vuole costruirsi una vita. Tuttavia tentare la fuga non è semplice in un paese in cui esiste una legge che permette ai militari al confine di sparare ed uccidere indiscriminatamente.

Non si può risolvere il problema dell’immigrazione dall’Eritrea, supportando economicamente quella che è la sua principale causa: la dittatura. Questo non è possibile, ribadisce Negash e non è giusto che “soldi europei vengano spesi per aiutare i dittatori a prolungare la loro vita”. I punti fondamentali per una collaborazione che dia dei risultati concreti sono per Negash in primo luogo l’implementazione della costituzione del 1997, mai attuata, gli aiuti ai giovani per sollecitare la fine del servizio militare illimitato, la libertà di culto ed espressione e la infine liberazione dei prigionieri politici. Se l’Italia e l’Europa riusciranno ad ottenere tutto questo staranno davvero ottenendo risultati positivi, se invece continueranno ad interloquire con i dittatori senza chiedere queste cose in cambio saranno complici di un genocidio.

CURARE LA CAUSA DELLA MALATTIA E NON I SINTOMI

Bisogna contrastare un’emergenza, conclude Erasmo Palazzotto, Presidente del Comitato Africa della Commissione Affari Esteri. Se vogliamo combattere questo fenomeno (che non significa contrastare i migranti, ma combattere le cause dell’immigrazione), dobbiamo rinunciare all’ipocrisia che sta alla base del processo di Khartoum. Dobbiamo aprire sì un dialogo con i paesi coinvolti nel processo migratorio, ma creando delle condizioni. “Se si parla di lotta al traffico di esseri umani non si può non parlare del rispetto dei diritti umani. Si deve cambiare il paradigma altrimenti l’Europa riuscirà solo a contenere il flusso migratorio attraverso ghetti e campi profughi in cui non sono garantiti diritti umani”, continua Palazzotto.

Quello che rischiamo con il Processo di Khartoum è ripetere l’esperienza dell’accordo di Berlusconi con Gheddafi. Dobbiamo riprendere in mano la civiltà e mettere insieme misure emergenziali e strutturali insieme. Come ricorda Palazzotto in conclusione, abbiamo bisogno prima di tutto di aggredire le cause dell’immigrazione e porre delle condizioni per aprire un dialogo anche rispetto ai regimi sanguinari con cui abbiamo rapporti; dobbiamo contrastare il traffico di esseri umani al confine tra Eritrea e Sudan; al contempo però si devono garantire vie di accesso legali, per i rifugiati in arrivo e in transito; infine dobbiamo cambiare la nostra legislazione sul diritto di asilo, come ricorda anche il film Io sto con la sposa. L’Europa che accoglie i rifugiati politici, deve anche permettere loro in quanto cittadini europei di spostarsi e muoversi in tutta la Comunità, abbattendo le frontiere e costruendo invece dei ponti.

di I.T.


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