Libia, Nazioni Unite sotto accusa

di Alessandro Pagano Dritto

(Twitter: @paganodritto)

 

Tripoli chiude alle Nazioni Unite: l’inviato Bernardino Leon persona non grata.

Questo novembre 2014 potrebbe diventare il mese in cui le Nazioni Unite hanno perso la Libia. Parlare di rottura totale

Tripoli, 11 novembre 2014. L'inviato delle Nazioni Unite in Libia Bernardino Leon - a sinistra - incontra il presidente del parlamento tripolino Nuri Abu Sahmain, il cui ruolo non è riconosciuto a livello internazionale. L'incontro non servirà a rasserenare i rapporti tra Tripoli e le Nazioni Unite e Leon rimarrà persona non grata. (Fonte: www.unsmil.unmissions.com)
Tripoli, 11 novembre 2014. L’inviato delle Nazioni Unite in Libia Bernardino Leon – a sinistra – incontra il presidente del parlamento tripolino Nuri Abu Sahmain, il cui ruolo non è riconosciuto a livello internazionale. L’incontro non servirà a rasserenare i rapporti tra Tripoli e le Nazioni Unite e Leon rimarrà persona non grata. (Fonte: www.unsmil.unmissions.com)

sarebbe probabilmente scandalistico e non del tutto vero, ma di certo l’armonia tra la United Nations Supporting Mission in Libya, (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL) e le sedi dei due governi libici non è ai suoi massimi storici. Se a Est, a Tobruk, il rapporto non è mai stato messo esplicitamente in discussione, a Ovest, cioè a Tripoli, il rappresentante delle Nazioni Unite Bernardino Leon è stato dichiarato persona non grata sin dai primi del mese. Pare, dalle dichiarazioni rilasciate da esponenti del governo occidentale, che la questione specifica sia stata una conferenza stampa tenuta nella Capitale il 28 ottobre, per la quale lo spagnolo non avrebbe disposto delle necessarie autorizzazioni. La causa più profonda però pare essere un’altra: in diverse occasioni e tramite diversi esponenti Tripoli ha accusato Leon di non essere imparziale, di fare le veci di Tobruk se non del Generale antiislamista Khalifa Hafter e di non considerare in alcun modo i propri esponenti per il proseguo del Dialogo Nazionale annunciato addirittura l’11 ottobre scorso ma mai realizzato.

Il risultato immediato del diverbio è stato l’incontro, l’11 novembre, tra il presidente del General National Council (Consiglio Generale Nazionale, GNC) Nuri Abu Sahmain e lo stesso Leon. La pagina Facebook del parlamento islamista dava un resoconto della riunione facendo intendere che un’intesa fosse stata trovata: «le parti coinvolte nel dialogo di Ghadames saranno cambiate e quelle nuove saranno annunciate dall’UNSMIL entro pochi giorni». Il comunicato dell’UNSMIL, invece, si limitava a indicare Sahmain col titolo di «signore» e a nominare – forse anche un po’ pretestuosamente – il Primo Ministro di Tobruk Abdallah al Thanni con il suo titolo politico ufficiale. Forse anche in virtù di questa reazione – delle comunicazioni dell’UNSMIL sul cambiamento delle parti nel dialogo non se n’è saputo più nulla – tra Tripoli e Leon è tornato un clima ben poco rilassato e lo spagnolo è ad oggi, nella Capitale e nel territorio controllato dalla Libya Dawn, persona non grata.

 

La posizione di Tobruk: in equilibrio tra la Corte Suprema libica e il consenso esterno.

Rimane alle Nazioni Unite il vincolo col governo orientale: difficilmente questo vi rinuncerà, dal momento che il riconoscimento internazionale e innanzi tutto quello dell’organismo sovranazionale costituisce gran parte della sua legittimità.

Il 6 novembre 2014, infatti, dichiarando nullo un emendamento costituzionale votato in marzo, la Corte Suprema libica dichiarava illegale l’esistenza delle autorità orientali e riconosceva – ma solo implicitamente – la legittimità di quelle occidentali. Per Tobruk la questione era di semplice soluzione: la Corte Suprema è ancora di stanza a Tripoli, agisce sotto la pressione militare della Libya Dawn e quindi non può emettere verdetti né liberi né tanto meno affidabili. Nell’arco del mese la sua reazione non si è fatta attendere ed è stata soprattutto militare: veniva ribadito l’inserimento della Operation Dignity nelle forze militari ufficiali di Tobruk e il Generale Khalifa Hafter veniva pienamente integrato nel Libyan National Army (Esercito Nazionale Libico, LNA): così dalla fine di ottobre si chiama infatti l’unione delle forze di Tobruk e delle milizie di Zintan, enclave orientalista nell’occidente islamista.

Con i bombardamenti aerei del 22 novembre 2014 iniziava quindi ufficialmente l’avanzata verso Tripoli. Il 24 novembre veniva colpito in particolare l’aeroporto di Mitiga, ex aeroporto militare nell’area nordorientale della città usato anche dai civili dopo la distruzione di quello a sud della stessa nel corso degli scontri estivi; il 25 novembre nuovi bombardamenti colpivano l’area dell’aeroporto e, pare, un campo dei miliziani della Libya Dawn nella città di Sebratha. Altro fronte rimaneva quello della città di Kikla, nei monti Nafusa a Ovest della Capitale, dove la situazione potrebbe essersi ormai affermata a favore delle milizie di Zintan – e quindi del LNA – ma gli avversari avrebbero già un piano per il contrattacco.

 

Khalifa Hafter: con l’estero pragmaticità e disillusione tra amici e presunti doppiogiochisti.

Il 28 novembre usciva sul Corriere della Sera un’intervista esclusiva al Generale Khalifa Hafter realizzata in Libia dagli

Il 28 novembre 2014 il Corriere della Sera pubblica un'intervista al Generale Khalifa Hafter, ormai pienamente integrato nelle forze militari di Tobruk. Il Generale espone tra l'altro il proprio pensiero riguardo i rapporti tra l'estero e il governo orientale, il supporto di alcuni paesi arabi e il comportamento - «una partita ambigua e doppia» - di Europa e Stati Uniti. (Fonte: www.corriere.it)
Il 28 novembre 2014 il Corriere della Sera pubblica un’intervista al Generale Khalifa Hafter, ormai pienamente integrato nelle forze militari di Tobruk. Il Generale espone tra l’altro il proprio pensiero riguardo i rapporti tra l’estero e il governo orientale, il supporto di alcuni paesi arabi e il comportamento – «una partita ambigua e doppia» – di Europa e Stati Uniti. (Fonte: www.corriere.it)

inviati Francesco Battistini e Gabriele Micallizzi. Il Generale forniva molti interessanti dettagli, fra i quali i tempi e gli obiettivi previsti dalla Operation Dignity: la battaglia di Bengasi dovrebbe concludersi il 15 dicembre, mentre per Tripoli il tempo sarebbe di «tre mesi, ma forse ne basteranno meno». Secondo il Generale, inoltre, Derna e Tripoli rappresenterebbero un problema minore rispetto a Bengasi, città nella quale Ansar al Sharia rappresenterebbe una forza molto meglio addestrata e difficile da respingere: ma, rassicura l’uomo d’armi, Ansar al Sharia «non ha grandi strateghi militari e ormai siamo in vantaggio: controlliamo l’80% della città».

Il 28 ottobre, nella sua conferenza a Tripoli, Bernardino Leon aveva evitato di esprimersi su Khalifa Hafter quando un giornalista gli aveva rivolto una domanda su di lui. Leon aveva dichiarato di non pronunciarsi su eventuali crimini commessi dalle truppe del Generale per rispetto al lavoro degli organismi competenti delle Nazioni Unite, che da qualche mese monitoravano la situazione sul terreno proprio per assicurare alla giustizia internazionale chi avesse commesso dei crimini; negava poi di essere a conoscenza di accuse di parzialità mossegli proprio in relazione ad Hafter e alle autorità di Tobruk. Forse potrebbe essere stata proprio questa risposta a far scattare la reazione del governo tripolino.

Intanto, se un report di Amnesty International questiona il comportamento di tutte le milizie in conflitto, la pagina Facebook Human Rights Solidarity, citata anche dal Libya Herald, ha più volte accusato le forze di Tobruk di crimini di guerra. Lo stesso periodico, non sospettabile di particolari simpatie islamiste ma autore, negli ultimi tempi, di interviste alle autorità della Libia occidentale, ha riportato per mezzo di un anonimo cittadino bengasino che «250 case appartenenti ai contestatori della Operation Dignity e del Libyan National Army sono state date alle fiamme e […] giovani uomini ritenuti sostenitori di Ansar al Sharia venivano ancora regolarmente uccisi nell’impunità dalle forze di controllo filogovernative».

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Non mancano per altro accuse, come detto, anche contro i misuratini; accuse che hanno di recente coinvolto il loro sistema carcerario.

Ed è stata proprio la città di Misurata, culla dell’islamista Libya Dawn, a chiedere che Khalifa Hafter venisse inquisito per i crimini che le sue truppe avrebbero commesso durante la battaglia di Bengasi. In realtà pare che il problema sia già stato affrontato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, se è vero quanto dice il sito What’s in Blue, vicino al Consiglio stesso e che riporta in dettaglio la cronaca delle sue diverse riunioni: e cioè che una bozza britannica che esprimeva preoccupazioni sul personaggio del Generale e sul suo operato sarebbe stata diffusa il 22 ottobre ma pochi giorni dopo bocciata per intervento della Russia. La Russia – prosegue il sito, del quale qui è proposta una traduzione – si sarebbe preoccupata di non «nominare e mettere in cattiva luce Hafter, dal momento che questo [modo di agire] avrebbe potuto intaccare il processo politico. Qualsiasi trattativa su un nuovo comunicato stampa dopo il vertice [del 4 novembre] potrebbe facilmente andare incontro a simili argomentazioni nel caso ci fosse una rinnovata spinta a includere espressioni in merito alle azioni di Hafter».

Sempre nell’intervista al Corriere della Sera Hafter ha toccato punti di interesse riguardo alla sua persona, la Operation DignityKarama nell’articolo – e ai suoi obiettivi. Ha innanzi tutto fatto luce sui rapporti della sua operazione con l’estero: sostenitori attivi sarebbero Egitto, Algeria, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita che contribuirebbero però esclusivamente con l’invio di munizioni e armi, per altro datate. Sarebbe invece da escludere qualsiasi supporto economico straniero, in particolare quello statunitense di cui si vocifera tra gli osservatori delle faccende libiche, così come l’invio di personale. Haftar non chiede che queste cose si realizzino, ma piuttosto che anche altri Paesi oltre quelli citati, e in particolare l’Europa, supportino la sua lotta contro il terrorismo islamista inviando esclusivamente forniture belliche. Su di sè ha invece fatto intendere che la battaglia militare potrebbe poi proseguire come battaglia politica «se sarà necessario».

Dall’intervista esce l’immagine di un Generale caparbio ma disilluso: «Washington sta giocando una partita ambigua e doppia – dice – come gli europei…». Hafter pare quindi non aspettarsi niente da queste due realtà, Stati Uniti ed Europa, che accusa di combutta occulta con i Fratelli Musulmani  e quindi con Tripoli. Nel frattempo chiarisce tra le righe che non disdegnerebbe aiuti da nessuno nel caso in cui venissero e a domanda risponde: se mai fosse – ma Hafter non crede che avverrà mai – nemmeno da Israele. Il motto è quello antico e semplice per cui «il nemico del mio nemico è mio amico».

Per pura curiosità si aggiungerà qui che secondo Hafter un nome alternativo pensato per la Operation Dignity era quello di Omar al Mukhtar, l’eroe della resistenza antiitaliana impiccato nel 1931. Dopo una consultazione coi suoi uomini fu però scelto quello oggi utilizzato, pensato proprio dal Generale, perché «quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò Mukhtar».

 

19 novembre 2014: le Nazioni Unite includono Ansar al Sharia in Libia nella lista dei gruppi terroristici.

Ai primi di novembre era stato ancora l’articolo già citato del sito What’s in Blue ad anticipare la possibilità che Ansar al

Il 19 novembre 2014 le Nazioni Unite, pare su spinta soprattutto di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dichiarano gruppi terroristici sia Ansar al Sharia a Bengasi che Ansar al Sharia a Derna: su di loro grava l'accusa di aver allestito campi di addestramento per miliziani destinati a combattere in Iraq, Siria e Mali. Il volto più noto di Ansar al Sharia a Bengasi - Mohamed al Zahawi, qui in foto - non è stato inserito nella lista dei gruppi terroristici come singolo individuo e nemmeno si è fatta menzione delle milizie che combattono a fianco del gruppo nel BRSC. (Fonte: www.libyaherald.com)
Il 19 novembre 2014 le Nazioni Unite, pare su spinta soprattutto di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, dichiarano gruppi terroristici sia Ansar al Sharia a Bengasi che Ansar al Sharia a Derna: su di loro grava l’accusa di aver allestito campi di addestramento per miliziani destinati a combattere in Iraq, Siria e Mali. Il volto più noto di Ansar al Sharia a Bengasi – Mohamed al Zahawi, qui in foto – non è stato inserito nella lista dei gruppi terroristici come singolo individuo e nemmeno si è fatta menzione delle milizie che combattono a fianco del gruppo nel BRSC. (Fonte: www.libyaherald.com)

Sharia venisse inclusa nella lista dei gruppi terroristici il 19 novembre 2014. E così è successo, con la specificazione che si trattava allo stesso modo della compagine di Bengasi e di quella di Derna: entrambe venivano accusate di addestrare combattenti da inviare in Iraq, Siria e Mali. Attività, queste, che sarebbero state documentate da un’indagine francese della quale la la Agence France Press dichiara di essere entrata in possesso: proprio Francia, Regno Unito e Stati Uniti sembrerebbero essere stati i maggiori propulsori della decisione del 19 novembre.

La decisione del Consiglio di Sicurezza pare non risolvere, per il momento, alcune delicate questioni: sono stati inclusi i gruppi, ma non le singole individualità, come si dice esplicitamente a proposito di uno dei leader più noti del gruppo bengasino, Mohammed Zahawi.  E tutto da risolvere rimane anche il nodo del rapporto tra Ansar al Sharia e le altre milizie islamiste presenti nel gruppo di cui lei stessa fa parte, il Benghazi Revolutionaries Shura Council (Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, BRSC), sulle quali il Consiglio non si è espresso.

La versione dei rapporti tra i diversi gruppi islamisti che il Generale Hafter propone, sempre nella sua intervista, è questa: «Tripoli è un’assemblea illegale e islamista che vuole portare indietro la storia. Ma la vera minaccia sono i fondamentalisti che cercano d’imporre ovunque la loro volontà. Tripoli s’affida a loro, lasciano che combattano contro di noi a Bengasi. Ansar al Sharia usa la spada in tutto il mondo arabo ed è appena finita nella lista ONU del terrorismo».

In pratica, secondo Hafter, Tripoli utilizzerebbe le milizie islamiste bengasine per opporsi indirettamente alla sua operazione militare. Esistono in proposito alcune dichiarazioni rilasciate alla giornalista Maryline Dumas, Libya Herald, dal Ministro degli Esteri di Tripoli Mohamed al Ghirani: risalgono all’8 novembre, quindi sono antecedenti il verdetto del Consiglio di Sicurezza del 19. Al Ghirani sostiene di non poter stabilire a priori se Ansar al Sharia sia o no classificabile come un gruppo terrorista, ma lascia aperti in tal senso alcuni spiragli. Dice: «Se Ansar al Sharia agisce come un gruppo terrorista, noi la combatteremo. Possiamo chiedere una commissione indipendente che verifichi se Ansar al Sharia è un gruppo terrorista oppure no. Fino a ora non ci sono prove. Io sono un uomo di legge, non posso accusare nessuno senza prove. Quello che è vero è che Ansar al Sharia ha combattuto e combatte insieme ai rivoluzionari». Dove per «rivoluzionari» si intendono quei miliziani che, dopo aver puntato le armi contro Gheddafi nel 2011, ora si oppongono al successo di Hafter, ritenendo per altro che i suoi ranghi siano composti anche da gheddafisti riciclati. Dice infatti a proposito lo stesso al Ghirani: «ex ufficiali del regime di Gheddafi e le due milizie Qaaqaa e Sawaiq hanno aiutato la House of Rapresentatives (Casa dei Rappresentanti, HOR) nel suo Colpo [di Stato]». E il 25 novembre, anche lui intervistato dal Libya Herald, gli fa eco il portavoce del dipartimento delle relazioni con i media stranieri Jamal Zubia: «Hafter è un criminale. Ha ucciso migliaia di persone. Sta continuando a vendicare Gheddafi, usando mercenari e ciò che resta delle forze di Gheddafi».

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Quando al Ghirani parla dei miliziani islamisti di Bengasi, usa l’espressione «our fighters», «i nostri combattenti».

 

12 novembre 2014, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Corte Penale Internazionale ammette di non riuscire a indagare.

Il 12 novembre 2014 la prosecutruice della Corte Penale Internazionale dell’Aia Fatou Bensouda ha aggiornato il Consiglio

Il 12 novembre 2014 la prosecutrice delle Nazioni Unite Fatou Bensouda, rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza, ammette la difficoltà di indagare in Libia e segna almeno due grandi fallimenti: la situazione degli abitanti di Tawergha, ancora lontani dalla loro città, e l'interrotta detenzione di Saif al Islam Gheddafi, da tempo richiesto. Colpevoli della situazione sia i conflitti sul terreno che le scarse risorse destinate, a dire della stessa Bensouda, al suo ufficio. (Fonte: www.hrw.org)
Il 12 novembre 2014 la prosecutrice delle Nazioni Unite Fatou Bensouda, rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza, ammette la difficoltà di indagare in Libia e segna almeno due grandi fallimenti: la situazione degli abitanti di Tawergha, ancora lontani dalla loro città, e l’interrotta detenzione di Saif al Islam Gheddafi, da tempo richiesto. Colpevoli della situazione sia i conflitti sul terreno che le scarse risorse destinate, a dire della stessa Bensouda, al suo ufficio. (Fonte: www.hrw.org)

di Sicurezza delle Nazioni Unite sullo stato delle indagini in Libia e non ha detto, per chi spera che la giustizia sui crimini di guerra commessi in quello scenario venga attuata, nulla di buono. Bensouda ha detto che il gruppo di collaboratori libici lavora in modo ammirevole e l’ha anche recentemente aggiornata sui loro risultati, ma la tensione interna e il conflitto, anche bellico, che interessa diverse aree del paese – anche nel Fezzan continuano gli scontri tra Tebu e Tuareg riflettendo in parte quelli settentrionali tra Libya Dawn e Operation Dignity – non permette il corretto svolgimento delle indagini. Bensouda accusa le Nazioni Unite di non dare al suo ufficio i mezzi economici sufficienti per portare avanti la propria attività e sottolinea in particolare tre fallimenti nei confronti della Libia: la consegna del figlio e delfino di Gheddafi Saif al Islam, detenuto dalle milizie di Zintan dalla fine del 2011 e in passato richiesto dalla Corte Penale Internazionale per timore dell’impossibilità che fosse giudicato da un equo processo nel Paese nordafricano; il ritorno degli abitanti della cittadina di Tawergha nelle proprie case dopo l’espulsione coatta subita ad opera delle milizie misuratine nell’anno della guerra contro Gheddafi. Nel primo caso la Corte potrebbe reagire pretendendo di nuovo anche l’ex capo dell’intelligence gheddafiana Abdallah Senussi, il cui processo in Libia era stato in un primo momento ritenuto possibile, il secondo invece dovrebbe conoscere un ulteriore passo avanti quando, fra alcuni mesi, rappresentanti delle città di Misurata e di Tawergha spiegheranno le proprie ragioni a New York.

Dice la prosecutrice in quello che potrebbe essere il passo chiave del suo discorso: «La comunità internazionale potrebbe cercare con maggiore energia soluzioni che aiutino concretamente a ricreare la stabilità e a rafforzare la responsabilità dei crimini previsti dallo Statuto di Roma in Libia. Da parte sua, il governo libico è incoraggiato a cercare questa assistenza in modo più mirato. […] Per rispondere al meglio a questa assistenza critica, deve essere esaminata la possibilità di formare un gruppo di contatto internazionale sulle questioni della giustizia attraverso il quale possa essere dato supporto materiale, legale e di altro tipo».

E conclude: «Per essere sicuri, noi non dobbiamo perdere la Libia, ma la Libia non deve perdere se stessa».

 

Conclusioni. La Libia e l’estero, il quadro e alcune possibili reazioni.

Il 10 settembre 2014, introducendo a Milano una riunione informale dei ministri europei suoi diretti colleghi, la Ministra italiana della Difesa Roberta Pinotti scongiurava, a proposito della Libia, che si potesse prima o poi assistere a una frammentazione dell’impegno estero per la sua riconciliazione nazionale. Diceva infatti: «È importante sostenere gli sforzi delle Nazioni Unite nel facilitare un cessate il fuoco tra le brigate di Misurata e Zintan. Tuttavia, si dovrà cercare di evitare una proliferazione di iniziative di mediazione». L’Italia tutt’oggi non perde occasione per ribadire «il pieno e convinto sostegno» al rappresentante delle Nazioni Unite Bernardino Leon e al suo progetto di Dialogo Nazionale, seppure arenatosi dopo la presentazione di una seconda tappa mai avvenuta l’11 ottobre scorso; e, dopo la recente chiusura dell’ambasciata maltese a Tripoli, Roma diventa l’unica Capitale occidentale ancora direttamente presente con una propria ambasciata sul territorio libico.

Le parole della Ministra Pinotti sembrano oggi, a distanza di quasi tre mesi da quando furono pronunciate, descrivere un’avvenuta verità. Le Nazioni Unite sembrano aver perso il controllo della Libia: dell’Ovest, che critica Leon e ne chiede le dimissioni, quanto dell’Est, che seppure formalmente legato all’organismo sovranazionale, con tutta evidenza non ne rispetta le richieste. Un recente comunicato dell’UNSMIL parla di un colloquio telefonico tra lo stesso Leon e il Primo Ministro orientale Abdallah al Thanni: quest’ultimo avrebbe abbozzato non meglio specificate «condizioni per il successo del dialogo». D’altronde il Generale Hafter, ora ufficialmente parte delle forze armate di Tobruk, ha delineato un panorama di amici molto chiaro anche se aperto a qualsiasi nuova entrata: seppur non citando esplicitamente le Nazioni Unite, l’uomo d’armi accusa di doppiogiochismo tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa, nei quali mostra quindi di non riporre grande fiducia, mentre annovera alcuni paesi arabi nel conto dei fornitori di armi e munizioni: Egitto, appunto, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Arabia Saudita.

Anche Tripoli, come Hafter, lancia accuse di doppiezza: sempre il Ministro degli Esteri Mohamed al Ghirani, parlando

Mohamed al Ghirani, Ministro degli Esteri del governo internazionalmente non riconosciuto di Tripoli, ha rilasciato dichiarazioni sia al Libya Herald che alla Reuters. A quest'ultima ha detto che le Nazioni Unite usano «doppi standard» nel valutare i terroristi che agiscono in Libia: accanto ad Ansar al Sharia, Tripoli vorrebbe vedere etichettato come tale anche il Generale Khalifa Hafter. (Fonte: www.libyaherald.com, foto di Maryline Dumas)
Mohamed al Ghirani, Ministro degli Esteri del governo internazionalmente non riconosciuto di Tripoli, ha rilasciato dichiarazioni sia al Libya Herald che alla Reuters. A quest’ultima ha detto che le Nazioni Unite usano «doppi standard» nel valutare i terroristi che agiscono in Libia: accanto ad Ansar al Sharia, Tripoli vorrebbe vedere etichettato come tale anche il Generale Khalifa Hafter. (Fonte: www.libyaherald.com, foto di Maryline Dumas)

questa volta alla Reuters, ha accusato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di usare «doppi standard» – questa l’espressione usata dall’agenzia – per aver incluso nella lista dei gruppi e delle individualità terroriste Ansar al Sharia ma non il Generale antiislamista. Segno forse che la vicenda del gruppo ha avuto l’effetto di rinfocolare i sospetti di parzialità che Tripoli già nutriva verso i cosiddetti paesi occidentali.

Dal punto di vista delle Nazioni Unite la figura di Khalifa Hafter sembra essere particolarmente spinosa. Se prima vi poteva forse essere uno spiraglio per condannare – nel caso di provata colpevolezza – il militare, adesso che Tobruk lo ha pienamente integrato con tutta la sua Operation Dignity, una sua eventuale condanna sarebbe forse difficile da spiegare: come ammettere di aver a lungo sostenuto e ritenuto legittimo un governo il cui nome più noto fosse stato condannato per crimini di guerra? E, in questa stessa situazione, essersi posti come garanti della soluzione politica e diplomatica e del rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini libici? Tutto questo potrebbe costare alle Nazioni Unite un futuro imbarazzo, lo stesso che oggi potrebbe spiegarne la reticenza nei confronti del Generale. Non mostrandosi troppo sollecite a indagare la posizione di Hafter, le Nazioni Unite potrebbero allontanarsi sempre più da Tripoli e quindi mettere a rischio il proprio progetto di Dialogo onnicomprensivo; indagando potrebbero invece dover affrontare l’opposizione o il fastidio di Tobruk che dal canto suo dimostra di non essere certo incline a slegarsi dal militare. Ma il risultato, in quest’ultimo caso, sarebbe lo stesso di prima: mettere a rischio l’onnicomprensività del Dialogo Nazionale.

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Se le Nazioni Unite sembrano dunque perdere terreno, potrebbero acquistarne d’altro canto le iniziative diplomatiche dei singoli paesi: queste hanno interessato negli ultimi tempi anche e soprattutto il Sudan, desideroso di riallacciare i rapporti con Tobruk dopo le passate accuse di supporto al fronte islamista. Proprio dal Sudan è arrivata la più recente proposta di ospitare un dialogo nazionale per i primi di dicembre, proposta che si aggiunge all’elenco di dichiarazioni e iniziative simili di parte algerina ed egiziana.

Nemmeno Tripoli, che continua ad essere esclusa da rapporti ufficiali con buona parte dei paesi esteri, è rimasta del tutto isolata dalle visite diplomatiche: l’iniziativa più importante in tal senso potrebbe essere stata quella della Turchia – considerata non a caso da alcuni di orientamento filotripolino – che ha mandato nella Capitale libica un proprio uomo di fiducia, l’inviato Emrullah Isler. La Turchia ha anche riconosciuto, poco dopo le Nazioni Unite, il carattere terroristico di Ansar al Sharia e condannato i bombardamenti di Tripoli.

Rimane poi da chiarire, su entrambi i fronti, la questione delle influenze occulte. Per il fronte islamista queste potrebbero corrispondere al nome anche del Qatar: non che sia questa un’ipotesi di questi giorni, ma proprio in questi giorni  è stata riproposta da un articolo apparso sul periodico francese Marianne. Lo firma Roumania Ougartchinska, che vi racconta l’omicidio, avvenuto in maggio a Bengasi, del colonnello Ibrahim al Senoussi Akila: secondo la giornalista l’uomo era il capo dei servizi segreti libici – allora c’era ancora un solo governo – nominato nel marzo 2012 dal National Transitional Council (Consiglio Nazionale Transitorio, NTC). Rincorso e freddato nella sua stessa automobile – come accadeva negli anni di piombo italiani, suggerisce l’autrice del pezzo – l’uomo sarebbe stato ucciso perché in possesso di informazioni utili a evidenziare il legame tra alcuni gruppi islamisti, Turchia e Qatar. Naturalmente tutto rimane da dimostrare e bisogna ricordare che le stesse accuse, seppur con nomi diversi, vengono mosse da Tripoli all’indirizzo di Tobruk: le dichiarazioni lasciate da Hafter al Corriere della Sera confermerebbero la parte attiva di supporto che alcuni di questi paesi stanno avendo nello scenario bellico libico.

In questa situazione non mancano nuove proposte per un domani, magari quanto più vicino possibile; proposte che vengono anche da parte occidentale. Se il New York Times ospita un pezzo dello studioso Dirk Wandervalle in cui si suggerisce per la Libia una missione sul modello afghano guidata dall’Unione Europea, in ambito europeo sembra invece essere stato abbozzato un piano in quattro punti. Li rende noti in un suo articolo l’analista italiano Mattia Toaldo, che rielabora una discussione tenutasi il 6 novembre a Roma dal Gruppo di Lavoro sulla Libia del Consiglio europeo degli Affari Esteri.

I punti, redatti con un costante richiamo alle posizioni di Bernardino Leon e quindi delle Nazioni Unite, sono i seguenti:

1. Un nuovo percorso politico da stilare da capo anche grazie a un incontro di «volenterosi» libici ospitati in Europa.

2. Uno stretto controllo internazionale sui pagamenti nell’ambito del commercio petrolifero che garantisca la neutralità delle istituzioni libiche.

3. L’isolamento di tutte le istituzioni parallele a quelle legittime, in qualsiasi parte del Paese, affinché si eviti la divisione dello stesso.

4. L’incoraggiamento dei cessate il fuoco locali possibili, quanti più possibili.

L’ultimo punto di quella che, ricordiamo, è solo una proposta e non un piano già adottato, si conclude con queste parole, che chi scrive traduce come segue dall’inglese: «L’esistenza di un percorso politico offrirebbe un quadro più positivo ma non sarà abbastanza per pacificare il Paese, né ci si potrà aspettare che i rappresentanti politici «conducano» un cessate il fuoco delle milizie, incluso di quello che è noto col nome di Libyan Army. Qualsiasi forma di international peacekeeping [missione di pace internazionale] dovrebbe avere come prerogativa l’esistenza di un governo di unità nazionale».


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

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