L’Europa non ha bisogno di vignette ma di misure

di Simone Guidi

In queste ore le bacheche virtuali di mezzo mondo sono invase dalla lotta tra le matite e i fucili, dalle vignette e dall’indignazione. Una retorica spesso semplificatoria, che infiamma la rete e i media, ma che purtroppo non ci viene in soccorso per comprendere quanto avvenuto, a contenere il trauma di un assalto in piena regola, progettato e attuato nel santuario della democrazia europea e dei suoi diritti, e soprattutto ordito secondo una trama che sembra progettata con accuratezza, e probabilmente non in completa autonomia.

Emerge, già nelle medesime ore in cui il terrorismo tiene letteralmente sotto scacco Parigi, la vicinanza di Cherif e Said Kouachi con nuclei jihadisti che orbitano intorno allo Stato Islamico; fatti che portano alla luce, una volta di più, quella rete ipercomplessa e densa di corpi oscuri, un vero e proprio network del terrore, fatto spesso di relazioni e alleanze trasversali tra realtà eterogenee, che intesse le articolazioni del terrorismo internazionale. Una rete, aggiungiamo, le cui connessioni concrete non sono state tracciate per tempo dall’intelligence francese, ma che – al di là delle responsabilità contingenti del caso – non divengono definitivamente chiare neppure dopo l’accaduto.

Il terrorismo è un tessuto per certi versi impenetrabile, in continuo mutamento, di fronte al quale la satira è – inutile chiudere gli occhi – assolutamente impotente, e al cui avanzare, qualunque ne sia l’origine, l’Europa non può permettersi di rispondere con la retorica. Innanzitutto per il compito che ha, oggi più che mai, di tramutare il vecchio continente nel territorio di una sfida nuova, quella di una globalità in grado di mantenere, integrandole in una struttura dinamica, le differenze.

Ora, questo, a me sembra, è, per generale che sia, il punto. Nell’agiografia momentanea delle vittime – che dimentica peraltro quanto scorretta e bassa, per quanto lecita, fosse in alcuni casi la satira di Charlie Hebdo – quel che non si dice è che la satira e la dissacrazione possono esprimere la libertà di una cultura e di un popolo da idoli di varia sorta, ma mai realizzarla positivamente. La libertà, non soltanto di una comunità, è una condizione che si raggiunge nel darsi una norma, nel rispettarla e nel farla rispettare, e negli ultimi vent’anni l’occidente si è avvitato in una drammatica crisi della governamentalità, di cui i fatti di Charlie Hebdo – e non solo – sono la punta dell’iceberg.

Quanto accaduto tra il 7 e il 9 gennaio appare d’altro canto il risultato di una clamorosa impasse, ancor prima dell’effetto di una violenta incursione che, senza questo presupposto, non avrebbe trovato forse lo stesso esito. Per una serie di vicissitudini politico-culturali, che nel Novecento hanno mortalmente indebolito e corrotto le giunture che connettevano, nel vecchio mondo, pensiero e azione, una buona parte delle democrazie europee si è scoperta incapace di normare in base a principî propri e saldi i processi di integrazione, stabilendo per essa delle condizioni chiare.

Delle condizioni non identitarie, ma semplicemente europee: contingenti, forse, ma funzionanti; dei dispositivi gestionali di una questione epocale, probabilmente la più importante del secolo in cui viviamo, e che non può essere sottovalutata. In essa, infatti, sta già affondando le radici l’assetto geopolitico di un domani che può volgere alla cooperazione e a una convivenza normale tra i popoli, o precipitare nell’incubo di un conflitto senza territorio e confini, come quello del terrorismo.

Potrà apparire una posizione forte – e probabilmente lo è – ma un’Europa che ha saputo abbattere i suoi muri, ha oggi la necessità di riscoprire dei confini, anche morali, di distrarsi dall’attenzione per i limiti altrui e porre dei suoi confini, pur facendo di questi delle strutture dinamiche, aperte, non occlusive, funzionali a una politica dell’accoglienza, della solidarietà e di una crescita globale. Ma l’accoglienza, in ogni sua forma, ha bisogno di strutture salde, di principî, di luoghi, di una cultura che a testa alta sappia dialogare e anche dire no, per delle sue ragioni, di cui non deve dar conto.

Il terrorismo di matrice islamica – di cui qui in particolare discutiamo, ma che non rappresenta l’unica forma di terrorismo e di criminalità da combattere e normare – trova la sua forza in un sistema di credenze, quello del fondamentalismo religioso, che si impone negli individui per la sua univocità estrema, la sua forza e la sua radicalità.

Ad esso non è plausibile contrapporre un’Europa avvitata in una costante contraddizione: un continente che partire dall’avvento di una struttura-mondo globale, che ha avuto come conseguenza la decostruzione di quelle forme di imperialismo nelle quali per secoli si è attribuita – anche in terra altrui – lo statuto di cosmo autonomo, tenta ogni giorno di recuperare la sua totalità nelle discussioni di principio, nelle dispute sugli universali dell’identità e della differenza.

Si tratta di dibattiti che rimpiangono un’unità infranta, e che non colgono la contingenza e la fattualità, storica con cui si dovrebbero realmente confrontare, la cui inefficienza l’Europa è stata mascherata esportando con le armi, in altre aree, quel governo che non è in grado di esercitare all’interno. Una sorta di immunitarismo alla rovescia, che devolve implicitamente ad altri la capacità del sistema di mantenersi stabile; un’eterostasi che camuffa con la trame della politica estera la vaghezza di quella interna, ed è il contrario di qualsiasi libertà.

Parlare dell’Islam, nel caso specifico, come dell’Altro con l’iniziale maiuscola è un enorme errore strategico e financo morale. L’Islam è un altro, e questo determina dei suoi diritti, ma anche una sua specifica configurazione che ci consente di assegnarli, in Europa, delle responsabilità. Assegnargli delle responsabilità, si faccia attenzione, in senso positivo: ovvero prendersi attivamente in carico il suo inserimento all’interno di strutture, norme e confini che facciano da infrastruttura per un dialogo che altrimenti viene spostato su un piano, quello delle coscienze individuali, dove ogni governamentalità risulta impotente e il fondamentalismo non può che dilagare.

L’integrazione concreta e pacifica tra culture richiede non matite ma l’istituzione di mezzi, di infrastrutture culturalizzate e culturalizzanti nel senso della pacificazione, che si sovrappongano (ma non, ovviamente, sostituiscano) a strade, piazze, città, luoghi di culto, dove questa integrazione avviene altrimenti in modo caotico e non regolamentato, importando anche germinai di violenza come quelli che hanno partorito Charlie Hebdo e i fatti seguenti.

La pacificazione e lo sradicamento del fondamentalismo sono necessità che non vanno semplicemente discusse, avvitandosi in discussioni sterili sulla natura amorevole o aggressiva dell’Islam, ma richieste con forza, individuandone le responsabilità. Si tratta, quindi, di non cadere certo nell’islamofobia, ma neppure di difendere a priori, in nome di un pluralismo astratto, una cultura, quella islamica, che come quasi ogni altra può essere utilizzata anche per alimentare una filosofia del terrore. Giusto distinguere Islam e terrorismo, ma altrettanto giusto è chiedere che l’Islam stesso – almeno in Europa – non soltanto si dissoci, ma si strutturi attivamente in comunità ordinate che possano conciliarsi con quelle già governamentalizzate di cui disponiamo, e che vanno predisposte, da parte nostra, per questo uso.

Prima di tutto, quindi, comprendere che al contrario della cristianità, perlomeno quella cattolica, l’Islam non possiede una sua struttura verticale complessiva, e si presenta in una forma pulviscolare che, unitamente a una serie di riferimenti bellici, che certo non facciamo difficoltà a reperire – tra le altre cose – nel suo testo sacro, pone delle condizioni ideali per la diffusione di certe idee.

Il punto non è, quindi, di capire se l’Islam possieda o no una sua cultura della tolleranza – perché questa è una questione per certi versi irrisolvibile nella cui irrisolutezza il terrore non può che sguazzare, costituendo luoghi e spazi apparentemente identici a quelli di una normale pratica cultuale che tuttavia covano e perpetrano un odioso crimine – ma piuttosto richiedere che l’Islam, come qualsiasi altra confessione, pratichi una cultura tollerante senza esitazione alcuna e individuando, segnalandoli esso stesso, casi opposti.

Ciò che va immediatamente fatto, e che proprio la riunione parigina tra rappresentati europei di domenica prossima potrebbe già discutere, è quindi dare dalla nostra gli strumenti perché questa adeguazione avvenga, e richiedere che venga fatta attraverso alcuni provvedimenti, come:

  • l’ampliamento della proposta e del confronto religioso nelle scuole;
  • l’istituzione di luoghi di culto adeguati e normabili sotto vari aspetti;
  • incentivare la frequentazione reciproca e interconfessionale dei reciproci luoghi di culto, aprire quindi le moschee ai cristiani, le chiese ai musulmani, ecc., richiedendo anche l’apporto delle comunità e delle gerarchie religiose delle varie comunità;
  • promuovere una cultura pacifica nelle altre confessioni, specialmente il cristianesimo, ancora egemone in Europa, al fine di fornire una posizione alternativa chiara da contrapporre alla violenza e al fanatismo che catturano, nelle situazioni sociali più disagiate, giovani che divengono le prime vittime del terrorismo;
  • combattere senza esitazione l’istituzione di luoghi di culto abusivi e non regolamentati;
  • promuovere costanemente non solo la diffusione della cultura islamica, ma anche un suo costante dibattito, che la metta in relazione con le altre sul territorio Europeo;
  • promuovere il dibattito costante sul tema della violenza e della libertà della donna, allo scopo di incentivare un continuo flusso di posizioni chiare e dichiarazioni univoche su queste questioni;
  • richiedere ai media, con mezzi politici, un focus maggiore sulla questione Islam, allo scopo di rendere nota all’intera cittadinanza non soltanto la sua cultura ma anche la sua struttura funzionale, i suoi esponenti principali, le sue diramazioni sul territorio;
  • strutturare a livello europeo e poi nazionale una rete degli imam, composta anche da associazioni come quelle già esistenti, che preveda percorsi di formazione omogenei e una responsabilizzazione per i loro compiti sul territorio;
  • chiedere con forza alle comunità religiose islamiche di proporre un loro modello di regolamentazione conciliabile con le esigenze europee di sicurezza e di abbattimento del terrorismo e del jihadismo autoctono;
  • operare un filtraggio solidale, accogliente ma attento dei flussi migratori, impedendo la penetrazione di tutti coloro che si sono macchiati di crimini terroristici;
  • operare l’immediata e irrevocabile espulsione di coloro che, allorché non cittadini dello stato in cui si trovano, si macchiano di crimini o tentativi di crimine terroristico;
  • promuovere e finanziare a livello europeo, in modo capillare e intenso, l’integrazione culturale a livello delle cosiddette seconde generazioni, adibendo appositi organismi e finanziando organismi già esistenti per un lavoro costante sui vari territori nazionali;
  • rafforzare, per i giovani, non soltanto scambi a livello europeo, ma anche a livello intercontinentale, nell’ottica della generazione Erasmus che ha in parte fondato una comunità europea.

Insomma, si tratta di porre le basi per un Islam che, in Europa, sia un Islam europeo. Siamo in grado di cogliere questa sfida?


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