Perché dobbiamo aiutare i siriani

testo e foto di Mariangela Sglavo

Agli inizi dell’agosto 2014, insieme ad altri collaboratori, preparavo una campagna online di raccolta fondi a sostegno della popolazione civile in Siria, vittima di una guerra terrificante che dura ormai da quasi quattro anni. La missione comprendeva il trasporto di beni quali articoli medici e ortopedici, coperte, vestiti e scarpe per bambini da Berlino al confine turco-siriano e la loro consegna all’interno della Siria in collaborazione con una ONG operante in loco.

Tra le prime persone che avevo contattato c’era Vanessa Marzullo. Ci eravamo già scritte diverse volte in quanto operanti entrambe nel settore umanitario, ma non mi aveva risposto tempestivamente come era solita fare. Qualche giorno dopo, la notizia del suo rapimento assieme a Greta Ramelli. Proprio questo era stato il segnale che operare in Siria fosse diventato troppo pericoloso rispetto a qualche mese precedente. Abbiamo quindi deciso di fermarci al confine.  Sono andata avanti nel mio progetto, pensando spesso a Vanessa e Greta e tenendo sempre presente quanto accaduto con un nodo in gola.

Per tutto il mese di ottobre 2014 sono rimasta nella provincia di Antakya, Turchia. Ho visitato numerose famiglie siriane scappate dalla guerra a Reyhanli e nella zona che conduce a Bab al-Hawa. Vivono in scantinati, case dismesse, a volte in tende, a volte niente. Le grandi ONG dicono di prendersene cura, ma queste persone (ogni famiglia con un numero in media di 3-4 bambini ciascuna) di aiuti mi hanno detto di non riceverne affatto. È confrontandosi con la dura realtà dell’esperienza in loco che alcuni operatori umanitari decidono di agire in maniera indipendente, andando ad affiancare e ad accrescere il lavoro di grandi organizzazioni internazionali. Gli aiuti che i siriani ricevono da loro purtroppo non sono abbastanza. Né al confine siriano, figurarsi all’interno della Siria. Il lavoro delle grandi ONG che sembrano agire, mi spiace dirlo, da veri neocolonizzatori, spesso non si spinge che alle zone poco oltre il confine turco siriano. Visto che si è parlato tanto di cifre in questi giorni, eccone alcune altre: il conflitto ha causato più di 200.000 morti, 3.800.000 rifugiati scappati dalla Siria più 7.000.000 circa in territorio siriano, per un totale di ben oltre 10 milioni di sfollati, così riporta l’ONU. 215.000 è il numero dei detenuti nelle carceri siriane. Vivi, se quella possa essere considerata vita. 80.000 sono le persone scomparse nel nulla, riporta il Syrian Network for Human Rights (SN4HR).

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Mentre ci occupiamo dei radicalisti islamici in Europa, in Siria come in Iraq, non dimentichiamoci dei crimini contro l’umanità commessi non solo dall’Isis e da altri gruppi radicali, ma anche dal dittatore al-Assad, già da prima dello scoppio della Rivoluzione siriana. Da non dimenticare: quest’ultima nasce nel marzo del 2011 come movimento inizialmente pacifico contro la dittatura degli Assad, al potere dal lontano 1970. In risposta alle manifestazioni di massa, l’esercito del regime reagisce violentemente, sparando sui civili. È così che molti militari decidono di disertare, dando vita nel luglio del 2011 all’Esercito Siriano Libero, allora scevro di alleanze con gruppi islamisti. Il presidente Bashar ha decimato il suo stesso popolo e continua a farlo giorno dopo giorno sotto gli occhi di tutti. Ogni volta che sentiamo di “civili morti in seguito a bombardamenti aerei”, ricordiamoci che il cielo siriano appartiene solo al regime.

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foto di Mariangela Sglavo

Detto questo, per operare in territorio le organizzazioni non governative, piccole o grandi che siano, i giornalisti e gli operatori umanitari hanno necessariamente bisogno della protezione di uno dei gruppi che controllano all’interno. La scelta diventa piuttosto complicata dal momento in cui ciascuno dei gruppi in questione è coinvolto in una guerra atroce quindi, oltre che vittima, anche artefice di delitti. Bisogna stare alla “regola del gioco” se si vuole riuscire a raggiungere i civili; parlo anche di donne e bambini, inermi e vittime di quotidiana sofferenza.

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È più giusto aiutare persone che sono sotto il controllo dell’Esercito Siriano Libero, o di gruppi islamisti? E quelli invece ancora sotto la dittatura di Assad? Mi rimane difficile rispondere a questa domanda; le missioni umanitarie non prescindono dall’appartenenza religiosa o politica, ma dalla gravità della situazione in cui è necessario intervenire.

Quella in cui giace la Siria dal 2011 ad oggi si è tragicamente complicata e, di conseguenza, diventata ancor più drammaticamente pericolosa. I rischi che si corrono ad operare in loco sono incalcolabili. La morte, la fame, la disperazione di un intero popolo rendono le persone imprevedibili, anche quelle più fidate. Sembra un’assurdità eppure, nonostante manchi praticamente tutto, è veramente difficile aiutare.

Vanessa e Greta sono finalmente libere. Mi chiedo: fosse successo a me qualcosa di spiacevole, è così che i miei connazionali avrebbero reagito? Fiumi di odio e pioggia di insulti. Che popolo è mai questo e di quale tempesta è egli stesso vittima? Forse le reazioni sarebbero state le stesse anche qui in Germania. Eppure durante la campagna di raccolta fondi i giornalisti hanno fatto a gara per parlare del nostro progetto, i berlinesi ci hanno sostenuto sia moralmente che materialmente e tante sono state le e-mail di solidarietà e le telefonate di congratulazioni che abbiamo ricevuto. Gli sciacalli dell’informazione, o meglio della disinformazione, stanno confondendo l’intero popolo italiano, che naviga ora senza direzione in balia di altri terroristi quali l’islamofobia o il neofascismo senza esserne cosciente.

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Ricomponiamoci quindi. Cogliamo l’occasione per parlare di Siria in tema di diritti umani e per ricordare che, mentre noi stiamo qui a blaterare e a dare adito a chiacchiere di paese sui social network come fossimo al bar, ci sono persone che stanno morendo, molte addirittura di freddo, ad oggi anno 2015.

Chi non sa niente di Islam, chi non ha mai messo piede in terra islamica (e non parlo dei weekend in Marocco, delle crociere in Egitto o delle spiagge indonesiane), chi la Siria non sa nemmeno dove sia collocata sulla cartina geografica, tantomeno ne conosce la complessa composizione etnica e religiosa, dovrebbe evitare di commentare e trarre conclusioni senza ragion di causa, dando la possibilità  ad operatori umanitari, giornalisti ed esperti in materia di focalizzarsi sul proprio lavoro.

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foto di Mariangela Sglavo

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