Ripensare i concetti di confine e frontiera

di Stefano Rota – Ass. Transglobal

Mercoledì 14, nella magica cornice della biblioteca di Sant’Agostino e di fronte a un folto e qualificato pubblico, Sandro Mezzadra e Brett Neilson hanno presentato il loro ultimo lavoro: Confini e Frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale. L’evento è stato organizzato dall’Istituto Svizzero, un’istituzione che svolge un importante ruolo nella promozione di attività culturali e artistiche di alto livello nel panorama romano.

Cos’è Confini e Frontiere? Innanzi tutto va detto che non è un testo di facile lettura: la ricchezza di temi, riferimenti e argomentazioni lo colloca certamente tra le opere di maggior rilievo di questi ultimi anni a livello internazionale (la versione originale è in inglese, Border as a method), per quanto concerne la definizione e ridefinizione di concetti con cui siamo abituati a confrontarci.

Mezzadra e Neilson ci portano a rileggere il ruolo del confine, come elemento costituente dello spazio globale, visto nella sua condizione costante di mobilità, attorno a cui si ridefiniscono continuamente soggettività, pratiche di lotta, strategie, ruoli e funzioni di entità nazionali e sovrannazionali. Un elemento epistemico del mondo globale, da cui non si può prescindere per capirne a fondo le tensioni che lo attraversano. I termini confini e frontiere non vanno interpretati come sinonimi: se il confine, per quanto precario e permeabile, è rappresentato da una linea, la frontiera, così come ci evocano i film a cui tutti siamo affezionati, è uno spazio, è la zona verso cui tendere, quella che consentirà di definire un nuovo confine.

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Basti pensare allo spazio europeo dei giorni nostri: i paesi dell’ENP, il programma europeo di vicinanza, e quelli inseriti nell’area IPA (i paesi di prossima adesione all’UE) costituiscono la frontiera esterna dell’Europa. Attraverso queste politiche, si accorcia psicologicamente, ma non solo, agli occhi dei migranti la distanza tra l’Europa e paesi di forte pressione migratoria come l’Afghanistan, il Medio Oriente e tutto il subcontinente indiano, per la frontiera orientale, e quelli dell’Africa sub sahariana, per la frontiera meridionale.  In questi paesi, si diluisce e diviene meno netta la cortina della “fortezza Europa” (ammesso che sia corretto parlare di fortezza). La descrizione di questi programmi consente di intendere più chiaramente come l’Europa si muova, in funzione della ridefinizione continua dei propri confini e frontiere. Per ritornare alle immagini sopra ricordate, si potrebbe dire che in questi paesi non è stata ancora avviata la costruzione della ferrovia, anche se si stanno creando gli avamposti necessari per una sua possibile realizzazione.

Andando oltre, il libro ci trascina (piacevolmente) all’interno di un processo di rivisitazione di un concetto che siamo abituati a considerare, influenzati dalle letture mainstream sul fenomeno migratorio,  come un percorso lineare, oggettivamente positivo e tendente a raggiungere uno status quanto meno desiderabile. Parlo del concetto di inclusione. Mezzadra e Neilson, andando anche oltre il concetto di esclusione differenziale, utilizzato da Castles e Miller in The age of Migration, utilizzano il concetto di inclusione differenziale. In cosa consiste questo tipo di inclusione? Riferendosi alla vasta letteratura postcoloniale, femminista e antirazzista sul tema dei modelli di inclusione, i due autori la descrivono come un processo segnato dal “tempo”, dalla sua frammentazione e dalla centralità di tale frammentazione nei processi di diversificazione sociale, culturale, economica, giuridica che le migrazioni portano all’interno delle ex metropoli colonizzatrici. “Il tempo omogeneo del progresso nazionale è stato frantumato da una serie di confini interni che costringono a ripensare la capacità delle narrazioni storiche collettive di sussumere pienamente le traiettorie meno ordinate e plurali di esperienze storiche singolari” (pag. 203).

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Tradotto in altri termini, il soggetto migrante vive una condizione in cui la propria identità, soggettività e cultura viene frantumata: ne vengono “eletti” a includibili alcuni aspetti e non altri. I “confini” tagliano queste identità, collocandone una parte dal lato di ciò che è o può essere incluso e un’altra parte dal lato opposto.

Le conseguenze e implicazioni di quanto, in modo molto sommario, è stato descritto qui sono molte e tutte molto ben descritte nell’ampio volume di Mezzadra e Neilson. Una per tutte, è inclusa nel titolo stesso, che, per ovvi motivi, non può essere trattato ora: la moltiplicazione del lavoro. Ma non si può non menzionare un altro concetto, molto presente nei pensieri e nelle pratiche di chi si occupa a vario titolo di migrazioni. Sto parlando del termine “traduzione”, un termine che, oggi più mai, si declina in una molteplicità di significati e valenze, soprattutto nelle pratiche di coloro che agiscono nella zona di confine, anzi, dei confini, che vengono quotidianamente definiti, vissuti, trasferiti, oltrepassati.

L’invito, quindi, è a leggere il libro, magari individuandone inizialmente le parti che sembrano possano essere di maggior interesse, lasciandosi trasportare dagli autori in un percorso, da cui difficilmente ne usciremo senza nuovi strumenti interpretativi e analitici della complessità del mondo globale, al cui interno il fenomeno migratorio e le soggettività in esso espresse, ne rappresentano senza dubbio un elemento costituente.


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