Un italiano dell’Unicef a Teheran: “Basta demonizzare l’Iran”

di Giovanni Vigna

Classe 1980, mantovano, Matteo Valenza potrebbe essere definito, con un’espressione piuttosto gettonata, “un cervello in fuga”.  Ma, in realtà, il viaggio è una delle componenti fondamentali della sua mission. La carriera di cooperante l’ha infatti portato a lavorare prima per un’agenzia dell’Onu in Egitto, dove ha vissuto per tre anni, poi in Iran per l’Unicef. La notevole esperienza accumulata all’estero gli consente quindi di affrontare con disinvoltura temi complessi, mettendo in discussione diversi luoghi comuni relativi al Medio Oriente. Valenza ha accettato di rispondere a titolo personale ad alcune domande di Frontiere News, precisando che in questa intervista non parla per conto dell’Unicef.

Matteo, puoi descrivere il tuo percorso di studi e la tua carriera lavorativa?

Mi sono laureato nel 2003 in Economia a Bologna e l’anno dopo ho conseguito un master in metodi quantitativi per l’analisi economica, specializzandomi nelle metodiche che consentono di misurare l’impatto dei progetti di cooperazione internazionale. Ho cominciato a lavorare nel settore privato, come esperto di analisi di dati presso una società di consulenza a Londra. Nel 2009 ha avuto inizio la mia carriera nell’ambito della cooperazione internazionale in Africa e Medio Oriente: il primo incarico è stato con le Nazioni Unite in Lesotho, grazie ad una borsa di studio del Ministero degli Esteri.

Hai anche lavorato a lungo per l’Onu in Egitto. Di cosa ti occupavi?

Tra il 2010 e il 2013 ho lavorato al Cairo con l’Unido, l’agenzia che si occupa di sviluppo industriale sostenibile, coordinando diversi progetti per la promozione di piccole imprese nel campo dell’agroindustria e della lotta alla disoccupazione giovanile.

Perché hai deciso di cambiare e di lavorare per l’Unicef?

Generalmente il periodo medio di permanenza di un funzionario delle Nazioni Unite in un paese va dai tre ai cinque anni. Dopo oltre tre anni in Egitto il trasferimento era quindi “fisiologico”. A questo si sono aggiunti motivi personali e lo stress dovuto alla difficoltà di lavorare in una fase molto turbolenta, anche se interessantissima, della storia dell’Egitto. Vivere in prima persona la primavera araba è stato molto intenso. Con l’Unicef ora sto partecipando a un programma di formazione per futuri quadri intermedi e dirigenti, l’iniziativa Neti.

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In cosa consiste l’attività che svolgi in Iran?

Mi occupo di monitoraggio e valutazione dei progetti e gestisco anche diverse attività per migliorare le politiche sociali per l’infanzia: quest’anno, ad esempio, in cooperazione col Ministero per le politiche sociali, stiamo perfezionando le procedure per la misurazione del livello di povertà in Iran.

Come valuti questa esperienza professionale?

La giudico un’esperienza positiva e molto particolare. L’Iran è uno scenario decisamente non convenzionale. Durante l’amministrazione di Rouhani la cooperazione con il governo è tutto sommato in una fase di miglioramento.

Com’è la vita a Teheran? Quali sono gli aspetti più visibili e difficili da sopportare del regime? Quali aspetti invece hai apprezzato della vita in Iran?

Non è stato troppo difficile integrarsi a Teheran, una metropoli moderna a livello di infrastrutture e servizi, con una comunità internazionale e una classe media relativamente cosmopolita. Esistono ovviamente aspetti della Repubblica Islamica che per un europeo possono risultare un po’ estremi: il divieto assoluto di consumare alcol, la polizia morale che controlla che le donne portino il velo in modo “appropriato”, il divieto di condividere diversi spazi pubblici con persone del sesso opposto. Poi bisogna saper capire la differenza tra le politiche implementate da una certa amministrazione e le inclinazioni ed usi di un popolo. In Iran ho certamente apprezzato l’ospitalità e l’interesse verso l’Italia e l’Europa.

In genere in Occidente l’Iran è percepito come una realtà molto lontana e anche come una minaccia, soprattutto per la possibilità che Teheran entri in possesso dell’arma nucleare. Che cosa pensi della recente intesa tra Stati Uniti e il governo iraniano sul tema del nucleare?

In Occidente la percezione del Medio Oriente è spesso distorta da un mix di preconcetti e ignoranza. La mia impressione è che l’Iran venga spesso “demonizzato” dalla scarsa precisione di certi organi di comunicazione. Il recente accordo rappresenta un passo positivo verso una distensione sul tema del nucleare e l’opinione pubblica iraniana ne ha accolto con grande entusiasmo l’annuncio, anche se un compromesso definitivo non è ancora stato raggiunto. L’auspicio è che le relazioni diplomatiche si normalizzino e che vengano rimosse le sanzioni che, a mio avviso, hanno finito per danneggiare in modo più severo i ceti meno abbienti. Speriamo comunque in una soluzione rapida ed efficace, che ora sembra alla portata dei negoziatori.

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Qual è l’atteggiamento degli iraniani nei confronti degli occidentali?

È molto difficile generalizzare, l’Iran è un paese con una popolazione enorme, una diaspora tra le più numerose al mondo e una grande eterogeneità a livello socioeconomico. Nonostante questa varietà, gli iraniani non sono certo diffidenti verso l’occidente: generalmente c’e’ grande curiosità verso l’estero, anche nelle zone rurali a maggioranza conservatrice.

A breve ti trasferirai in Giordania. Per quale motivo hai deciso di cambiare? Che cosa ti rimarrà dell’esperienza in Iran?

L’Unicef ha incrementato le operazioni in Giordania per far fronte alla crisi in Siria. Negli ultimi quattro anni l’assistenza umanitaria nei paesi confinanti con la Siria è aumentata di dodici volte. Fa parte del nostro lavoro capire dove si può essere più utili al mandato dell’organizzazione in un dato momento, e attualmente penso di essere più utile in Giordania che in Iran. Dell’esperienza in Iran conservo diversi insegnamenti sulla gestione di situazioni delicate con le controparti, amicizie che mi auguro durino a lungo, e le fotografie di un paese meraviglioso.

Spesso quando in Italia si sente parlare dei paesi arabi e musulmani si pensa a stati e popoli perennemente in guerra tra loro e con l’Occidente. In base alla tua esperienza diretta, pensi che i nostri organi di informazione siano affidabili oppure ritieni che vengano in qualche modo influenzati e manipolati dai governi e dalle lobby di potere?

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Le tensioni nella regione sono innegabili e durano da decenni, ma questo non significa che siano irrisolvibili. Il modo in cui vengono raccontate non è quasi mai obiettivo, e, soprattutto sui media tradizionali, influenzato da strumentalizzazioni politiche. Questo atteggiamento è dannosissimo perché finisce per creare circoli viziosi in virtù dei quali perpetuare lo status quo. Noam Chomsky e molti altri analisti di caratura internazionale sposano la tesi secondo cui i media occidentali sono influenzati da varie lobby. Sulla base della mia esperienza è difficile dissentire. In parallelo il problema della scarsa preparazione di alcuni giornalisti che si improvvisano esperti di Medio Oriente viene ulteriormente rafforzato dal fatto che l’opinione pubblica italiana in genere non ha una conoscenza pregressa delle complesse dinamiche della regione. Un terzo elemento e’ costituito della ricerca del sensazionalismo a tutti i costi: la paura del “diverso” fa vendere più copie, e viene quindi come nel caso della fuorviante immagine dell’Iran. Un modo più efficace per farsi un’idea oggettiva è prima di tutto studiare la storia della regione, e poi consultare regolarmente diversi media, come blog, profili di vari attivisti e giornalisti sui social network o sulle riviste specializzate.


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