Burundi, vietato parlare delle proteste

di Valeria Alfieri – Phd in Scienze Politiche Università La Sorbona

Le manifestazioni sono riprese con una ancora più grande partecipazione popolare, nonostante la volontà del governo di seminare il terrore attraverso un uso più sfacciato della violenza contro i giovani manifestanti, violenza che il governo cerca di legittimare adducendo come pretesto il tentativo di colpo di stato dello scorso 13 maggio. Dall’inizio delle proteste i manifestanti sono stati chiamati insorti, golpisti, e al Shabaab. Domenica scorsa, il Presidente Nkurunziza ha inaugurato la sua prima apparizione pubblica dopo il golpe parlando di una minaccia imminente di al Shabaab nel paese, notizia che al Shabaab non ha tardato a smentire qui, mentre molti si chiedevano a chi dare credito: a un regime criminale o ad un gruppo terrorista? Una successione di dichiarazioni tragi-comica. È evidente che si trattava di un tentativo ridicolo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vicende interne del paese nonché di una giustificazione preventiva al dispiegamento di armi pesanti che avrebbe avuto luogo l’indomani nei principali quartieri teatro delle manifestazioni. Il giorno seguente, infatti, lunedi 18 maggio, un enorme dispiegamento di poliziotti e soldati equipaggiati di artiglieria pesante ha fatto irruzione in alcuni quartieri, intimando ai giornalisti della stampa internazionale di tenersi alla larga, arrivando persino a minacciarli, come è avvenuto oggi, mercoledi 20 maggio, in questi termini “andatevene da qua o vi fucileremo con i manifestanti. Se non ve ne andate vi interriamo” (fonte: Sonya Rolley, Rfi).

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La situazione dei media privati burundesi rimane quella dell’impossibilità di diffondere le informazioni. Nonostante le dichiarazioni del portavoce del Presidente, Willy Nyamitwe, il quale affermava il 17 maggio che “il governo non ha nessuna obiezione alla riapertura dei media”, l’accesso alle sedi di tutte le radio private (o meglio a ciò che resta di esse dopo essere state bruciate e saccheggiate la notte successiva al tentato golpe) continua ad essere negato dalle autorità, adducendo come scusa la necessità di approfondire le inchieste. Ieri, 20 maggio, il Presidente Nkurunziza lancia un comunicato in cui dichiara: “Mettiamo in guardia i media burundesi e stranieri che tenteranno di diffondere incitazioni all’odio ed alla divisione tra i burundesi, a discreditare il Burundi o ad incoraggiare movimenti d’insurrezione, soprattutto durante la campagne elettorale. Nessun burundese vorrebbe rivivere le tensioni dovute alle divisioni etniche o di altra natura. Il sangue versato in passato ci è servito da lezione”. Nkurunziza parla ancora di campagna elettorale, come se nulla accade in queste ore a Bujumbura, e lancia una chiara minaccia ai giornalisti burundesi e stranieri, nonché un pericoloso monito a non far rivivere le tensioni etniche del passato. In realtà, dopo alcune esitazioni iniziali, attualmente la stampa internazionale sembra concordare nel dire che c’è ben poco di etnico nella crisi attuale anzi, il discorso etnico è stato più volte utilizzato dal partito al potere per sottolineare come le proteste siano essenzialmente “tutsi” perché avvengono soprattutto nei quartieri considerati a “maggioranza tutsi”.

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In realtà, le manifestazioni sono politiche, ed i partiti d’opposizione sono etnicamente misti. Inoltre, molti membri del Fnl, che sono in maggioranza hutu e che vivono in quartieri più periferici, come Bujumbura rurale, scendono ogni giorno in città per rinforzare le manifestazioni dei quartieri urbani. Ciò spiega perché le manifestazioni nel quartiere Musaga, il bastione della protesta, siano socialmente ed etnicamente miste. Stesso ragionamento può essere fatto per quanto riguarda i golpisti. Il post-golpe è stato caratterizzato da una caccia ai gradi alti dell’esercito di etnia tutsi, che essi siano o meno stati implicati nel colpo di stato. Secondo alcuni fonti, ad esempio, il Generale Kazungu, arrestato anche lui come presunto golpista, in realtà non era al corrente degli avvenimenti. Una sorta analoga sarebbe toccata al ministro della difesa Pontien Gaciyubwenge, un tutsi (la cui posizione verso i golpisti è stata molto ambigua), se non fosse riuscito a fuggire dopo l’ultimo rimpasto governativo di qualche giorno fa che lo vedeva rimpiazzato da un civile, poco amato sembrerebbe dalle forze armate. Insomma, le varie strategie che il partito al governo tenta di mettere in piedi non fanno altro che spingere il paese sull’orlo del baratro. Media messi a tacere, giornalisti (anche stranieri) minacciati, strumentalizzazioni dell’etnicità, ed un uso sempre più massiccio della violenza. Non c’è da stupirsi se i giovani manifestanti decidano di passare da azioni di protesta pacifiche a veri e propri atti di guerriglia, e di rispondere alla violenza con la violenza. La situazione è tremendamente pericolosa e urgono interventi più duri per costringere Nkurunziza a mollare la presa.


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