Le mappe del mare che inghiotte

di Monica Ranieri

Una galassia di pallini rossi distribuita su una superficie fredda, per lo più grigia, in cui gli unici altri elementi visibili sono la differenza cromatica che segnala la separazione tra mare e terraferma, e le linee che definiscono invece i confini politici degli stati sulla cartina. Se cliccate su ciascun pallino rosso potrete leggere un breve racconto di ciò, che in quel punto, è accaduto. Non devo far altro che spostare il cursore, comodamente seduta alla mia scrivania, e sceglierne uno: “annegati dopo che la loro barca è affondata nel Mar Mediterraneo sulla rotta per l’Europa (Jan 8, 2007)”.

Il cursore aleggia sui segni che attendono di narrarmi solo alcuni degli incidenti mortali che dal 2000 hanno posto fine alle speranze di chi tentava via mare di raggiungere l’Europa, e mentre sono quasi imbambolata in questa esitazione istintivamente penso ad cosa ne avrebbe pensato Ulisse. Forse perché in un libro di Fatema Mernissi letto diversi anni fa l’avventuroso navigatore era rivendicato come personaggio chiave, e simbolo, del contatto tra le sponde del Mar Mediterraneo.

Cercando di rinfrescare la mia memoria e rintracciare qualche riferimento mi imbatto però in un sito internet che promuove crociere con in bella vista una suggestiva cartina antichizzata del Mar Mediterraneo. E la sovrapposizione tra quei pallini rossi e quello che sto leggendo è ancora più macabra della cartina di partenza: “Il mare più sicuro e più affascinante del mondo per le crociere in barca”.

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Neanche il più astuto esperto di marketing potrebbe dissuadermi ora dall’idea che è la mappa del Telegraph la migliore restituzione visiva, per quanto virtuale, di ciò che accade. E vedere le due mappe contrapposte l’una all’altra mi fa pensare a quello che scriveva Farinelli: “Ogni carta è un progetto sul mondo, il progetto di ogni carta è quello di trasformare –giocando d’anticipo, cioè precedendo- la faccia della terra a propria immagine e somiglianza”. Matvejevic invece scriveva che attraverso le mappe “seguiamo coste che sono ben note o scopriamo quelle che non lo sono. Molteplici questioni del mare e della terra tornano a porsi sulle carte: le forme dell’uno e dell’altro, le loro reciproche relazioni, il modo di evidenziarle e di rappresentarle”. Se associo queste parole alla mappa del Telegraph non posso che chiedermi se sia davvero questo il progetto che abbiamo in serbo per il mondo e chi o cosa ci sta spingendo a trasformare la faccia della terra, nello specifico quel bacino d’acqua tanto sicuro per le navi da crociera (eccetto che per la Concordia, si intende, ma questa è un’altra storia) in un affollato cimitero di pallini rossi.

Eppure continua ad avere ragione, e come potrebbe essere altrimenti, Braudel: “Cos’è il Mediterraneo? Molte cose allo stesso tempo. Non un paesaggio, ma molti paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma diverse civiltà sovrapposte le une alle altre. Il Mediterraneo è un crocevia antichissimo”. Sovrapposizioni e susseguirsi difficili da raccontare attraverso una restituzione visiva bidimensionale che essendo non oggettivazione assoluta ed immutabile ma prodotto storicamente e culturalmente determinato non si riveli riduttiva, suscettibile di strumentalizzazione, indice di relazioni asimmetriche di potere, simbolo di appropriazione egemonica dello spazio.

Calvino, guardando alla storia della cartografia, ci consiglierebbe di ridurre le nostre ambizioni: “Se nella carta romana era implicito l’orgoglio d’identificare la totalità del mondo con l’Impero, vediamo l’Europa diventare piccola in confronto al resto del Mondo nella carta di Fra Mauro, uno dei primi planisferi disegnato in base ai resoconti di Marco Polo e delle circumnavigazioni dell’Africa, e in cui l’inversione dei punti cardinali accentua il capovolgimento di prospettive. E’ come se rappresentare il mondo su una superficie limitata lo retrocedesse automaticamente a microcosmo, rimandando all’idea di un mondo più grande che lo contiene. Da tutti questi aspetti si rileva come una spinta soggettiva sia sempre presente in un’operazione che sembra basata sull’oggettività più neutra quale la cartografia. La cartografia come conoscenza dell’inesplorato procede di pari passo con la cartografia come conoscenza del proprio habitat”.

Se di Mediterraneo parliamo allora, quale mappa vogliamo sia rappresentativa della nostra conoscenza di questo mare che lambisce i luoghi in cui siamo nati, quelli che in cui andiamo in vacanza, e quelli in cui continuiamo a lasciar affondare chi esplora nuove possibilità e speranze di vita?

“Presentare il Mediterraneo come la vedo io: un luogo di movimento intorno ad una grande superficie blu. Non ho disegnato i confini che ci dividono, ma le migliaia di strade che ci collegano”

MAPPA

Nel 2011 il cartografo contemporaneo Sabine Réthoré ha dato avvio al progetto “Mediterraneo senza Frontiere” partendo proprio dal riposizionamento dei luoghi intorno al Mediterraneo su una mappa insolita, disegnata seguendo criteri che scardinano la nostra addomesticata visione dell’ambiente di cui pretendiamo essere padroni. “Mediterraneo senza frontiere” nasce dalla constatazione che in Francia mappe del Mediterraneo non erano neanche più in commercio:“Come si può capire un territorio se non se ne ha una rappresentazione?”. L’idea era quella di creare un documento da visualizzare, diffondere e condividere in tutto il bacino del Mediterraneo per proporne un’altra immagine, al di fuori dei tradizionali schemi di mappatura, per riscoprirlo da zero. La cartografia di Réthoré si svincola dai classici rapporti che legano la disciplina nel suo costituirsi storico all’esercizio e all’imposizione di rapporti di forza e di potere, per basarsi su nuovi punti di riferimento, considerando che la rappresentazione visiva dello spazio non è un dato naturale ed assoluto come “una lunga tradizione di rappresentazioni etnocentriche del mondo vorrebbe farci credere. La rinascita della cartografia nel secolo scorso aveva già suggerito questo: per esempio che la situazione dei poli, Nord in alto e in basso Sud, è frutto di una convenzione ereditata dai greci che conferisce al mondo occidentale una posizione centrale .

Per quanto riguarda l’Africa, perché per una strana proiezione su molti mappamondi appare più piccola di quella che è realmente? Molte altre configurazioni possono essere immaginate, altre scale potrebbero essere sperimentate, le mappe potrebbero essere organizzate diversamente per dare una visione diversa del mondo. La mia cartografia è precisa, è solo il mio punto di vista che è differente. Oriento i poli da Est ad Ovest, per seguire il corso del sole e dare a ciascuno, una volta al giorno, uno zenith. Il soggetto del mio lavoro è anche la trasformazione politica. Le mie mappe sfidano l’ordine stabilito della cartografia storica, mettono in discussione le nostre certezze sul pianeta”. Invero, sfidare la rappresentazione ideologica e strumentale dell’ambiente, e quindi dei cardini delle società che producono quella rappresentazione, attraverso la decostruzione delle mappe non è operazione nuova. La critica alla cartografia tradizionale proposta da Brian Harley individua nella storia delle mappe l’esercizio di una disciplina dello spazio che si caratterizza essenzialmente per i suoi legami con il potere e con l’ordine sociale: “Le carte sono un mezzo per immaginare, articolare e strutturare il mondo degli uomini, verso il quale sono polarizzate, promosse, ed esercitano influenza su particolari insiemi di relazioni sociali”.

La mappa di Réthoré è il risultato di due semplici operazioni: l’inclinazione di 90 gradi rispetto alla convenzione imperialista implicita di porre il nord in alto ed un ritiro di tutte le frontiere nazionali. In questo modo i territori appaiono più vicini gli uni agli altri rispetto a quando li consideriamo su una mappa geopolitica. Semplici operazioni che però sono sufficienti ad infondere una sensazione di spaesamento: riconosciamo che in qualche modo quello è lo spazio che abbiamo sempre pensato e in cui siamo abituati a collocarci, ma in questa veste sembra quasi non appartenerci più. Perché il modo in cui decidiamo di raccontare questo spazio finisce con l’influenzarne la nostra visione, e nel momento in cui la rappresentazione dello spazio e dei sui confini diventa parte del nostro senso di sicurezza e di identità un’alterazione in questo sistema di rappresentazione non può che provocare smarrimento. Ma dallo smarrimento nasce poi la consapevolezza di dover ridefinire la propria visione, o quanto meno di interrogarsi sulla legittimità di convinzioni che si basano su rappresentazioni di cui possiamo mettere a nudo la relatività. E sulla legittimità di muri e di abissi.

Lo scrittore architetto e cartografo Léopold Lambert, autore della rivista The Funambolist, recensendo il lavoro di Réthoré, riflette sul costituirsi dell’abisso del mare quale sostegno e difesa della Fortezza Europa. L’Abisso (“Le Gouffre”): cosi Édouard Glissant e Patrick Chamoiseau rinominarono l’Oceano Atlantico dove migliaia di corpi di africani erano gettati dale navi durante la tratta degli schiavi: “In these abysses, there are cemeteries of the slave ships. Rapacities, violated borders, banners fell and picked up from the Western world. And who constelate the thick mat of the sons of Africa from whom a commerce emerged, those are out of nomenclature, no one knows their amount. (Édouard Glissant and Patrick Chamoiseau,L’intraitable beauté du monde: Adresse à Barrack Obama, Paris: Galaade, 2009)”. E un altro abisso è il deserto dell’Arizona dove migranti dall’America Latina perdono la vita per disidratazione o assassinate dai guardiani di un’altra Fortezza.


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