Tra i minatori di carbone a Donetsk

di Federica Iezzi

Donetsk (Ucraina) – Con pochi soldi, poco cibo e poche medicine, la gente a Donetsk ha ancora paura di lasciare i rifugi sotterranei.

L’atteggiamento degli uomini di Aleksandr Zakharcenko, leader dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, nei confronti di tutti coloro che hanno voluto o potuto lasciare le loro case nella zona controllata dai ribelli, si è indurito.

Per l’ingresso nelle aree orientali ucraine, non controllate dal governo di Porošenko, nuove procedure di autorizzazione bloccano i movimenti degli sfollati e intralciano l’ingresso di aiuti umanitari.

Vanko, un lavoratore delle miniere di carbone del Donbass, ci dice che la percezione della gente sui negoziati di pace di Minsk sembra quella di forzare il reinserimento della regione di Donetsk nella repubblica Ucraina. E come? Rendendo la vita miserabile per uomini e donne che rimangono nelle zone ribelli, arrivando perfino ad utilizzare la carestia forzata.

“L’azione militare su Donetsk ha solo aggravato problemi già esistenti”, continua Vanko. “Strade ghiacciate per tutto l’inverno, negozi sbarrati, case fatiscenti ferite da esplosioni. Nessuna abitazione ha il telefono fisso e non esiste un gasdotto che serve la città”.


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Vanko ci racconta che ha dormito per mesi in uno scantinato umido, senza sentire mai l’aria fresca di Donetsk. La miniera di carbone dove lavorava è stata abbandonata e quando i lavoratori sono tornati, hanno trovato crolli e allagamenti. Distrutti circa quattro milioni di sterline di attrezzature. Oggi i minatori sono tornati a lavoro con turni estenuanti, l’ultimo salario risale a mesi fa.

Aneta ci racconta che tutti preferiscono rimanere a dormire nei seminterrati. “Non c’è niente da mangiare, non c’è niente da fare”. La gente dei sotterranei, come viene chiamata qui, non sarà conteggiata ufficialmente tra le oltre 5.000 persone che hanno perso la vita, nella guerra nell’Ucraina dell’est, ma l’esistenza per loro ha assunto un gusto amaro, ha raggiunto un peso inaccettabile.

Tra i minatori di carbone a Donetsk
foto: Al-Jazeera

Alla stazione degli autobus si parla di dove è possibile ottenere aiuti alimentari. “Fino a poche settimane fa era pericoloso anche uscire e mettersi in coda per avere la tua razione di cibo” ci dice Aneta, con le lacrime agli occhi, “non mi fido delle strade crivellate di Donetsk”.

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Molti anziani durante i combattimenti sono rimasti nelle loro case senza riscaldamento, mentre le temperature fuori scendevano regolarmente sotto i 22 gradi. Mortai e razzi non hanno risparmiato i loro muri e le loro porte. Non hanno potuto lasciare le loro case perché senza soldi e perché non avevano un posto in cui andare. Aspettano da mesi farmaci troppo costosi, che a Donetsk non entrano con i convogli di aiuti umanitari.

Oggi le persone anziane continuano a morire per polmoniti e altre infezioni, a causa della scarsità di medicine e della difficoltà di accesso alle cure mediche.

Colpiti duramente i quartieri periferici della città, come quello di Kievsky, dove vivevano i più poveri. Strade una volta trafficate sono oggi deserte, case totalmente distrutte dall’artiglieria oggi sono abbandonate.

La disoccupazione è incalcolabile nelle regioni ribelli di Donetsk e Luhansk. Le imprese hanno chiuso e gli imprenditori sono fuggiti. A questo si aggiunge la decisione del governo di Kiev di smettere di pagare le pensioni nelle aree controllate dai ribelli. Molti uomini sono tentati dalla promessa di uno stipendio con le milizie filorusse. “Kiev sembra aver dimenticato il suo popolo”, ci dicono.

Quando è ancora buio, piccoli gruppi di donne e bambini, nascosti sotto vecchi vestiti e sciarpe, si radunano davanti a cadenti magazzini da cui si distribuiscono prodotti alimentari e per l’igiene.

Ogni giorno gli sfollati si organizzano in una coda, tutti con grandi ombre scure sotto gli occhi. Aspettano pazientemente in silenzio. Scandiscono i loro nomi e si registrano, mentre chiacchierano tra di loro. I volontari delle Nazioni Unite chiedono alle mamme se i bambini hanno bisogno di assistenza particolare. La risposta delle donne è simile a quella data da Dasha, una ragazza magra e sfiorita di poco più di 25 anni “Mio figlio è rimasto troppi mesi in un rifugio sotterraneo, senza vedere mai il cielo e il sole, mentre le bombe distruggevano il nostro quartiere. È solo spaventato”.


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Dasha ci racconta che il piccolo Yaroslav, nella casa sotterranea, come la chiamava lui, piangeva perchè era sempre buio. “Avevamo bisogno di medicine, cibo, coperte. Ma quello che arrivava era solo il frastuono dei carri armati, attutito dalla neve”. Questo è il mondo di Yaroslav, il luogo in cui si trova a dover imparare a parlare e camminare.

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Nei sotterranei la gente si riscaldava con il carbone delle miniere di Donetsk. Non era sicuro utilizzare legna da ardere presa nei boschi, a causa della presenza di esplosivi.

L’UNICEF ha stimato che più di 1000 bambini hanno vissuto per più di cinque mesi nei bunker di epoca sovietica di Donetsk. Ricreati parchi giochi, dietro i muri di cemento e le spesse porte di metallo, mentre il tonfo dei colpi di mortaio sostituiva il suono delle campanelle della scuola. Circa 5,2 milioni di persone vivono attualmente nelle zone di conflitto in Ucraina. 1,7 milioni dei quali sono bambini. 1.382.000 i rifugiati interni, 900.000 i rifugiati nei Paesi vicini.

Tra i letti di fortuna, vicino a Yaroslav, dormono Michael e Kostia, due fratelli di cinque anni. “A volte piace loro disegnare. Automobili, squadra di calcio preferita, persone, pianeti”, ci racconta la loro madre.

Appesi alle pareti, tuttavia, ci sono solo le immagini di carri armati, combattenti, pezzi di artiglieria e sistemi missilistici.

Le bambine si concentrano sui loro libri da colorare. Yuliya, sei anni, sfoggia la sua nuova magliettina rossa e ci dice “Voglio essere una pittrice quando sarò grande”.

Tra i minatori di carbone a Donetsk
foto: Al-Jazeera

La nonna di Yuliya ci dice che la bambina aveva iniziato la scuola nello scorso ottobre e la sua insegnante durante i bombardamenti la chiamava al telefono per continuare le lezioni. “Mi piacciono tutte le materie a scuola, ma le mie preferite sono il disegno e la matematica” ci dice entusiasta la piccola.

La maestra ha raccontato a Yuliya che la loro scuola nel quartiere di Petrovka, a Donetsk, è stata abbandonata. Le finestre sono state distrutte dal fuoco dell’artiglieria. Ora sono state sostituite con plastica. All’inizio del conflitto i bambini potevano andare a scuola per due giorni alla settimana.

La nonna di Yuliya ci dice che ha vissuto per settimane in un angusto rifugio sotterraneo, a dieci metri di profondità, costruito ai tempi di Stalin, insieme ad altri 26 adulti e 11 bambini. Una singola stufa per scaldarsi. Ci racconta che prima del cessate il fuoco, pesanti bombardamenti accompagnavano la notte. Iniziavano alle 23 e continuavano fino alle 5 della mattina dopo. “A volte eravamo impauriti dal silenzio”. I bambini ormai riconoscevano la differenza tra un colpo di mortaio e il rumore della botola che puntualmente batteva chiudendosi sulle loro teste.

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I bambini più grandi sapevano addirittura distinguere i rumori dei lanciarazzi Smerch, dai più piccoli BM-27 Uragan e dai più grandi missili OTR-21 Tochka.

Rimangono ancora tutti nei rifugi antiaerei. “Ogni volta che usciamo, rischiamo di essere uccisi da una granata” dicono i giovani genitori. “E’ come essere in prigione”.

Le donne cucinano a volte al di fuori del rifugio su un fuoco da campo, dopo aver steso la biancheria su corde tese tra gli alberi. L’acqua è fredda e quando c’è l’elettricità viene scaldata nei bollitori. Spesso nei rifugi si usano lampade e candele.

Le famiglie con pochi risparmi, hanno aspettato in fila e lottato per stiparsi nei popolari autobus che li avrebbero allontanati da bombe e distruzione.

Molti sono fuggiti nella stazioni ferroviarie. Nelle sale d’attesa affollate, la gente è rimasta in coda per giorni per ottenere biglietti del treno gratuiti per Kiev.

Donetsk oggi sembra una città fantasma, eppure è tutt’altro che vuota. Entrando negli scantinati sotto le macerie delle case, nelle affollate stanze piene di letti, vivono rannicchiate sotto le coperte ancora centinaia di persone. Dipendono da aiuti umanitari. Raccolgono l’acqua dalle pozzanghere sporche. Mangiano e dormono in spazi segnati da secchi traboccanti di acqua piovana.

Una città di circa un milione di abitanti, ora vive per poche migliaia di anime.

foto: Al-Jazeera


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