Il mare di sabbia

di Stefano Rota

La terza intervista che viene pubblicata nel blog Transglobal ha coinvolto tre giovani nigeriani richiedenti asilo. Vi si delinea quello che, a mio parere, rappresenta un nuovo periodo delle migrazioni verso l’Italia, che ha nel “profugo” il suo soggetto centrale e predominante. Le due precedenti interviste pubblicate in questo blog, Vedevo tutto bianco e Nel ventre del drago, hanno provato a descrivere, nei termini oggettivamente – e soggettivamente – limitati che un’intervista può concedere, rispettivamente il primo e il secondo periodo. Con l’intervista che segue, quindi, si intende provare a chiudere il cerchio, il cui tratteggio è cominciato la scorsa primavera, dando voce a chi ha seguito quelle rotte che, partendo dall’Africa sub sahariana, attraversano il mare di sabbia che la separa dal Mediterraneo.

Alla fine di questa intervista, provo a fare una breve e certamente superficiale ricostruzione storica del fenomeno migratorio in Italia, cercando di descrivere le migrazioni verso l’Italia sulla base di una suddivisione in tre fasi principali, a ciascuna delle quali, come già detto, corrispondono le interviste pubblicate.

Il fermare il racconto sulla costa libica ha un duplice motivo: il primo, e forse meno importante, sta nel non voler aggiungere una voce in più alla già affollata, ma giustificatissima, serie di resoconti delle drammatiche condizioni della traversata del Mediterraneo. Il secondo motivo risiede invece nel significato che assume per molti migranti africani il raggiungimento della Libia, non solo nei termini che possono, volutamente, trasparire dal titolo di questo resoconto (chi può dire quanti morti ha inghiottito il Sahara, con le sue condizioni climatiche, i suoi mezzi di trasporto che definire “carrette” offenderebbe le barche così chiamate per l’attraversamento del Mediterraneo, ma soprattutto con i suoi lager, guardiani armati e predatori?), ma, come si vedrà, per le aspettative e la progettualità che sta molto spesso (e del tutto ignorata da questo lato del Mediterraneo) alla base dei movimenti migratori trans-sahariani.

NAWAO!

Vorrei chiedervi se potete abbozzare una descrizione delle ragioni che sono state alla base della vostra decisione di partire dalla Nigeria, ben sapendo che, in quanto richiedenti asilo, non tutto può essere detto.

A.: In effetti, una parte di queste motivazioni costituiscono un segreto nostro, che, per varie ragioni, preferiamo tenerci per noi.

E.: Nawao! [A. ride. Chiedo cosa significhi] E’ un’espressione in slang nigeriano che serve a manifestare una brutta sensazione, un brutto ricordo, o cose simili.

A.: Ok. Posso riassumerle in modo molto breve. Una situazione di merda. In Nigeria, se non hai i soldi, se non conosci qualcuno di importante, non puoi fare niente, assolutamente niente. Noi tutti, al di là delle differenze, avevamo dei progetti, alcuni legati a esperienze lavorative o formative, altri a esigenze familiari. Io, personalmente, sono partito per questo motivo: non avevo nessuna speranza di realizzare il mio progetto.

E.: Oltre a questo, io ho un motivo molto particolare. Nella nostra tradizione, quando muore un re locale, devono essere uccise diverse persone per essere seppellite con lui e per accompagnarlo. Mio padre era incaricato di questo e io ero uno dei predestinati. I ragazzi venivano rapiti quando si recavano al fiume, cosa che poteva accadere tutti i giorni. Mia madre mi ha spinto a scappare: questo ha creato un forte conflitto tra i miei genitori e in generale nella mia famiglia, perché mi ha aiutato mia sorella a raggiungere la Libia.

M.: Per me la ragione è più di carattere religioso. Sono nato in un’area cristiana, ma mio padre non è cristiano, è musulmano. Voleva che diventassi musulmano anch’io, ma io non volevo. Lui aveva un potere enorme su di me: poteva farmi qualunque cosa in ogni momento pur di raggiungere il suo obiettivo. Per me, partire ha significato riscattare la mia vita.

Come è avvenuta la partenza dalla Nigeria?

A.: Tutti seguono lo stesso percorso. Si raggiunge con vari mezzi Zindar, in Niger. Il tragitto, di solito, avviene sul tetto di autobus o su camion stracarichi, con il rischio di cadere giù ogni momento, se non ti tieni molto forte. Da Lagos a Zindar è un viaggio di tre giorni. Già questo tragitto è quasi tutto nel deserto.

M.: Da Zindar il viaggio prosegue verso la Libia. Si raggiunge Sabha in una settimana, sempre nelle stesse condizioni, passando da Tigirin e Qatrun. Lungo questo percorso, non c’è una strada: solo una pista nel deserto. I mezzi di trasporto sono aperti, devi legarti a qualcosa per non correre il rischio di cadere. E molti, infatti, cadono.

RAPIMENTI E AL-ZANZANA

E.: In Sabha ci sono molti rapimenti, oltre che il rischio continuo che ti sparino in mezzo alla strada, senza nessun motivo, quasi come fosse un divertimento. Tre che erano con noi sono morti così. Arrivano da te, armati, ti chiedono soldi e cellulare: a quel punto possono ucciderti o rapirti, per costringerti a chiedere alla tua famiglia i soldi per il riscatto. Tutti girano armati, anche i bambini: chiunque può ucciderti, così, all’improvviso.

A.: Da Sabha a Tripoli è la parte più rischiosa del viaggio: ci sono soldati lungo la strada che fermano i mezzi. Se ti prendono ti portano in prigione [usa il termine arabo per prigione, o più precisamente cella, al-zanzana, a sottolineare la frequenza con cui ricorre nelle conversazioni tra i migranti. I termini che vengono mantenuti in una lingua diversa da quella del racconto hanno sempre un portato specifico, che può essere positivo o negativo, quasi a sottolinearne l’intraducibilità in un’altra lingua, data dall’associazione del luogo a determinate condizioni del luogo stesso.]: quello è il rischio maggiore. Ti picchiano continuamente, ti lasciano sotto il sole. Le condizioni in zanzana sono spaventose: sono affollatissime, senza finestre, con un buco nel pavimento come toilette. Noi non ci siamo stati in zanzana, ma io sono stato rapito in Sabha. Mi hanno tenuto tre mesi in una casa in costruzione! Mi hanno costretto a telefonare a casa dei miei, dicendogli che se non facevano arrivare i soldi, io ero morto. Sono riuscito a scappare, ma è stato una specie di miracolo che sono vivo, perché se provi a scappare e ti prendono, ti uccidono subito.

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E.: Se ti prendono e ti portano in zanzana, molto probabilmente per te è finita. Puoi starci anche oltre un anno. Se sei con la moglie e con le figlie, è quasi certo che verranno violentate. Oltre ai maltrattamenti e le violenze, si prendono anche malattie e nessuno ti cura. E’ come stare su una barca nel Mediterraneo, ma non per tre giorni, per un anno, o di più. Capisci di cosa sto parlando?

M.: Non saprei dire quanti, tra quelli che partono dalla Nigeria, muoiono nel viaggio, di omicidio, in zanzana. Io stesso ne conosco alcuni della zona da dove vengo che sono partiti e di cui non si sa più niente.

LAVORARE IN LIBIA. PARTIRE O MORIRE

Mi potreste raccontare del periodo che siete stati Libia, fino al momento della vostra partenza per l’Italia?

A.: Tutti dicevano in Nigeria che in Libia c’è tanto lavoro. E’ vero, solo che non ti pagano. Ti chiamano per costruire una casa, lavori per dieci-quindici giorni e poi ti dicono, minacciandoti, Imsh, Imsh [Vai, vai], senza darti niente. A quel punto sai che non puoi né protestare, né rivolgerti a qualcuno, perché lì non sei nessuno. Questo accade ovunque: a Sabha, a Brak, a Tripoli, ovunque. Se non te ne andavi, ti sparavano.

E.: Io ho vissuto così sei mesi a Sabha, un giorno ti pagavano e dieci no. Tieni presente che a Sabha fa un caldo infernale [si trova nel sud della Libia].

M.: Non è proprio corretto dire che nessuno ti pagava per il lavoro. Alcuni pagavano, ma sono una piccola minoranza. Diciamo che l’80% non pagava. Tra questi c’erano sia i white libians [i libici di origine araba] sia i black libians [i libici di origine africana, in buona parte provenienti dal Sudan, Chad e dal Corno d’Africa, presenti soprattutto nel sud]. Ma questi ultimi sono i più pericolosi, i più aggressivi; anche molti white libians hanno paura di loro [va detto che, nel 2011, dopo la caduta di Ghaddafi, si è scatenata una vera e propria caccia al nero libico, associato sempre all’appartenente alle milizie di Ghaddafi, il che, in moltissimi casi, non era vero]. Si può dire che i white libians stiano imparando da loro.

A.: Da Sabha a Brak [o Birak, città nel deserto libico, sul cammino per Tripoli] è un viaggio molto pericoloso: dura tre giorni. Quando ero a Brak, mi hanno portato a Tripoli di nascosto, perché c’erano molti soldati lungo strada: essere presi, significa essere certamente portati in zanzana. Bisogna fare tutto il viaggio nascosti, con un caldo insopportabile, solo con l’acqua e il cibo che si è riusciti a recuperare prima della partenza.

M.: Ci sono degli intermediari [brokers, nell’intervista] che vengono a cercare le persone a Brak, per chiedere a chi è arrivato lì se vuole lavorare a Tripoli; a quel punto, organizzano il viaggio. Devono essere almeno una ventina di persone, poi si parte. Ti dicono che se non hai soldi per pagare non c’è problema, perché il viaggio si pagherà con i soldi che dovresti guadagnare lavorando a Tripoli, ben sapendo come vanno le cose. Ma questo per loro non è un problema: se non ti pagano, chi ti ha portato a Tripoli prende comunque dei soldi da chi ti ha fatto lavorare. Si tratta soprattutto di lavori nelle costruzioni, come muratori, piastrellisti, coloritori, saldatori e nelle stazioni per il lavaggio delle macchine.

E.: Anche a Tripoli la vita è molto rischiosa: devi nasconderti sempre. Per andare giro a volte ci vestivamo come donne [con il viso e il corpo coperto]. Noi dormivamo in un posto con molte altre persone, tutte africane. I libici controllavano il posto e un giorno è entrato un gruppo di Asma boys [una gang di giovani libici, famosi tra i migranti per la loro efferatezza] per farsi dare soldi e telefoni. Ci hanno fatti sdraiare in terra e hanno ucciso un ragazzo. Dopo questo episodio, ho deciso di andarmene da Libia e venire in Italia. Un giorno ho visto molta gente correre verso il mare: li ho seguiti e ho visto che entravano in una grande barca. Sono entrato anch’io, senza soldi.

M.: Se hai qualche amico libico, si può lavorare bene in Libia. Noi stessi avevamo intenzione di andare in Libia per lavorare lì e guadagnare. Non avevamo nessun programma di venire in Italia. C’è un posto che si chiama Shogo Ground, dove tutti gli africani e stranieri in generale vanno a offrirsi per lavorare. Passano i libici e ti chiedono se vuoi fare un certo lavoro. Il rischio che non ti paghino, anche lì, è molto alto. Un giorno, lavoravo per un persona che mi chiesto perché continuavo a stare in Libia e non andavo in Italia. Dopo pochi giorni, mi ha portato nel posto dove c’erano oltre cento persone ad aspettare di prendere la barca per attraversare il mare.

A.: Io non sapevo che dalla Libia si potesse raggiungere l’Italia, non ne avevo mai sentito parlare. Ho deciso di partire perché avevo capito che il progetto che volevo realizzare in Libia era solo un sogno, quindi ho deciso di partire con la barca. Io ho pagato circa 200 euro: erano gli unici soldi che avevo con me, quello che ero riuscito a guadagnare. Io lavoravo in Brak come saldatore, anzi, ho imparato lì il mestiere. Per fortuna mi pagavano. E’ lì che ho sentito parlare della possibilità di raggiungere l’Italia. Quando ero in Nigeria, pensavo che la Libia fosse un paese diverso, un posto dove si può imparare un mestiere, guadagnare bene, inviare i soldi a casa e tornare. Quando ho visto quello che succede lì, ho capito che non era quello il posto dove volevo stare. Ho chiesto al mio datore di lavoro come potevo raggiungere Tripoli e l’Italia. Mi ha portato lui a Tripoli e mi ha messo in un posto con altre persone. Da lì poi ho trovato il modo per salire sulla barca.

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Si è detto, nella parte iniziale di questo articolo, che le voci qui raccolte sono ascrivibili a un modello migratorio che vede nella figura del profugo il suo elemento centrale. Per provare a dare un senso compiuto alla sequenza delle tre interviste, si vuole adesso delineare le caratteristiche principali delle tre frasi principali che hanno connotato la ancora breve “età delle migrazioni” in Italia.

La prima prende avvio con i grandi cambiamenti nelle politiche migratorie nei paesi che storicamente avevano rappresentato la meta privilegiata dei flussi verso l’Europa, favorendo lo spostamento delle rotte di questi verso i paesi dell’area del Mediterraneo, Italia e Spagna in primo luogo. E’ un processo che inizia verso la metà degli anni Settanta, ma che assume dimensioni abbastanza significative solo nel decennio successivo, con l’arrivo, prima, di cittadini dalla costa sud del Mediterraneo e da alcuni paesi asiatici (soprattutto Filippine e Sri Lanka) e, successivamente (già verso la fine degli anni Ottanta), da alcuni paesi dell’Africa sub sahariana, Cina e subcontinente indiano (India, Pakistan e Bangladesh). In quel periodo, i flussi migratori rappresentavano un fenomeno socio-politico e culturale di importanza relativa e non percepita come problematica, sia per la loro ancora scarsa consistenza e visibilità, sia per la fase alta di congiuntura economica che nei migranti trovava una nuova e importante linfa, soprattutto in alcune aree del paese – la famosa e ormai arrugginita locomotiva del Nord Est, la rampante Milano e il suo hinterland iperindustrializzato, i distretti industriali della “terza Italia” e, più genericamente, la diffusione di pratiche produttive in contesti molto più estesi delle mura di cinta delle fabbriche, con la conseguente crescita di ambiti di lavoro a bassa specializzazione ed elevato contenuto umano – sia, infine, per essere l’Italia di trent’anni fa ancora ai margini del processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia che, proprio in quegli anni, stava ridefinendo pesantemente strategie socioeconomiche e politiche, equilibri e priorità a livello mondiale. I cittadini stranieri che arrivano in Italia incontrano un paese non abituato a confrontarsi con il fenomeno migratorio, ma, nelle situazioni più critiche, trovano il sostegno di pezzi della società civile: le associazioni del terzo settore, le strutture di ispirazione religiosa e, soprattutto, i movimenti degli studenti (la fine degli anni ’80 è caratterizzata dal movimento della Pantera), che dimostrano di capire, con un decennio di anticipo rispetto ad altri, che quello che si presenta è tutt’altro che un fenomeno marginale, ma, semmai, la conseguenza più evidente di quale fosse la direzione che il modello produttivo globale stava assumendo.

Il secondo periodo, che prende avvio alla metà degli anni Novanta, può essere identificato con la fase di consolidamento dell’Italia come meta dei flussi migratori già attivi, l’esplosione dei paesi dell’est europeo come nuova e sempre più importante area di provenienza e, allo stesso tempo, l’estensione di questa a paesi dell’America Latina e ad altri paesi africani. Non a caso, la legge quadro sull’immigrazione, conosciuta come Turco-Napolitano, è del 1998: rappresenta il primo tentativo legislativo di “sistematizzazione” del fenomeno migratorio (la precedente legge Martelli non può essere definita tale), di vincolare e regolare lo stesso sulla base di presunte esigenze di manodopera e di accordi con paesi di provenienza. Sono gli anni in cui si consolida la “specializzazione etnica” di alcuni ambiti produttivi, la femminilizzazione di una parte consistente dei flussi. A livello socio-culturale e politico, si diffondono e assumono un forte significato termini appartenenti a un “discorso razziale” che trova diritto di cittadinanza in ambito legislativo, amministrativo, lavorativo, scolastico, comunicativo. Sono anche gli anni in cui diviene pratica più o meno regolata e legale la cooperazione infrastrutturale tra attori che agiscono a livello internazionale – nei paesi di partenza, in quelli di transito e in quelli di destinazione – per fare delle migrazioni un fenomeno il più possibile vincolato e organizzato sul modello del “just in time”. Ma, contemporaneamente, è in questo periodo che perdono significato le distinzioni sopra riportate – paesi di transito e paesi di destinazione. I flussi migratori divengono sempre più imprevedibili, sia per le loro direttive, sia per il progetto che vi sta alla base. Una prima migrazione viene sempre più spesso seguita da una seconda, anche a distanza di molti anni (il primo paese passa dallo status di destinazione a quello di transito?), prendono corpo e sistematicamente falliscono politiche di “rientro volontario”, viene problematizzato e messo definitivamente in discussione il legame tra migrazione e “sottosviluppo” e tra migrazione e opportunità di sviluppo nei paesi di provenienza, basati su una lettura semplicistica e deterministica di cause ed effetti.

La terza fase è quella attuale e mi sembra opportuno farne coincidere l’avvio con le grandi trasformazioni che dal Maghreb si sono diffuse al Medio Oriente, quindi con la fine del decennio scorso e l’inizio di quello in corso. E’ inutile ricordare che il 2010 sia stato anche l’anno in cui la crisi economico-finanziaria ha cominciato a far sentire pesantemente i suoi effetti, in termini di forte contrazione dei posti di lavoro e riduzione della domanda, andando a incidere pesantemente sui settori più deboli e meno protetti della composizione della forza lavoro, con conseguenze dirette su tutta l’articolazione delle forme sociali e comunitarie delle loro vite. Questi due elementi insieme spingono verso un cambiamento sostanziale del “motivo” ufficiale che viene registrato come causa della migrazione, oltre a ridurre quantitativamente la consistenza complessiva dei flussi in entrata. I cosiddetti “migranti economici” – do per scontata la mia adesione alla lettura che Sandro Mezzadra ha fatto su queste pagine proprio sull’inconsistenza e inadeguatezza del lessico sulle migrazioni, su cui si fondano le politiche nazionali ed europee e il cui obiettivo è, di fatto, quello di negare la responsabilità storica dell’Europa nel sorgere ed esplodere di vari tipi di crisi nel sud del pianeta – calano drasticamente. Aumentano in modo molto consistente, invece, le migrazioni provenienti da aree del pianeta affette da crisi “riconosciute” (le virgolette servono a sottolineare il fatto che molte altre crisi, ugualmente importanti, non vengono considerate tali, come si è voluto argomentare ancora su queste pagine). La figura centrale di questo nuovo corso dei movimenti migratori, il profugo, fa saltare i meccanismi consolidati in Europa di definizione delle modalità di accettazione basati sul modello del “migrante economico”, mettendo a nudo la totale indisponibilità da parte di quei paesi a fare i conti con la propria storia, più o meno recente, di rapporti con i paesi del sud del pianeta. Le periferie in fiamme (ma anche rese aride, espropriate, impoverite) della ex metropoli colonialista riversano ai suoi confini una moltitudine di cittadini non disposti a tornare indietro, come dicono i migranti accampati a Calais, ribadendo nei fatti e quotidianamente uno slogan che campeggiava sui muri di Brixton a Londra, durante i riots degli anni Ottanta: “we are here, because you were there”.

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Quello che si vuole provare a mettere in discussione in queste righe conclusive è la validità della distinzione tra “profugo” e “migrante”, una distinzione che viene continuamente ripresa nella definizione delle scelte politiche europee e dei suoi stati membri in materia di accoglienza.  Sono di questi giorni di inizio settembre le notizie riguardo un’apertura molto consistente da parte della Germania nei confronti dei profughi siriani, seguita subito da una dichiarazione simile, ma più ambigua, da parte del primo ministro inglese. Quello su cui si vuole mettere l’accento è un punto di vista relativo alla stessa faccia della medaglia, che ne metta in evidenza un aspetto certamente meno, o per nulla, evidenziato dai media e dai dibattiti mainstream sulle migrazioni. Qual è la ragione di fondo che porta a distinguere tra “veri profughi” e “falsi profughi”, e che, all’interno dei primi, porta a definire la scala di priorità e di appetibilità di una parte di questi rispetto ad altri? Dando per scontato, come ha ben argomentato Sandro Mezzadra nel suo intervento in questo blog, che è del tutto paradossale e fuorviante distinguere tra “migrazioni forzate” e “migrazioni volontarie”, le ragioni tanto della prima distinzione, quanto della seconda sono da cercarsi nel tentativo, sempre rinnovato e mai completamente raggiunto, di mettere in atto politiche di management, di controllo e selezione da parte dei governi del nord del pianeta nei confronti dei flussi migratori. A questa combinazione straordinaria e potente di forze politiche, quindi anche militari e poliziesche, la moltitudine dei migranti risponde sempre allo stesso modo: mettendo in campo l’imprevedibilità delle scelte e la soggettività che si dispiega al loro interno. Detto in altre parole, la messa in campo di un’agency, un agire fortemente consapevole e “scelto”, che si dispiega al di qua e al di là delle frontiere e che caratterizza, travalicando e travolgendo le politiche più o meno “umanitarie” europee, i movimenti continentali o transcontinentali dei migranti.

A., E. e M stanno dentro a questo quadro. Sono “profughi” o “migranti”? Hanno scelto liberamente di venire in Europa o vi sono stati costretti? La Nigeria e il delta del Niger in particolare distrutti economicamente, socialmente ed ecologicamente dalle multinazionali del petrolio (Eni in testa) e da decenni di sostegno europeo a tutto quanto c’è di corrotto, corruttibile e predabile è da considerarsi un’area da cui fuggire? La risposta sta certamente in un’affermazione fatta da uno di loro e non riportata nell’intervista. Alla domanda se si considerano profughi, la risposta è stata: “non lo so, non capisco esattamente cosa significhi. Credo che quasi tutta l’Africa si possa considerare una zona da cui chi parte è un profugo, oppure un migrante. Qual è la differenza?


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