La (proficua?) ambivalenza del “refugees welcome”

di Livia Bernardini e Ivan Bonnin

Negli ultimi giorni, in particolar modo sulla scia dell’esodo siriano (e non) verso il Nord Europa, abbiamo assistito a un’intensificazione della spettacolarizzazione mediatica del fenomeno migratorio in fieri. Senza dubbio quest’ultimo, che, viste le sue proporzioni, anche volendo non può più essere ignorato, è tanto impressionante quanto destabilizzante per la coscienza collettiva dei popoli europei. Tuttavia, non possiamo né dobbiamo ignorare che la comunicazione dell’irruzione di un qualsivoglia evento sia sempre filtrata attraverso dispositivi mediatici che operano coerentemente con l’interesse del potere costituito, o quantomeno ne sono profondamente influenzati. Dunque, saper decostruire le narrazioni mainstream e proporne di alternative sono sempre atti necessari per comunicare verità partigiane. In questo breve articolo proveremo a dare il nostro piccolo contributo, dalla parte della libertà di movimento.

“Rifugiati” e “migranti economici”: inclusione esclusiva ed esclusione inclusiva

E’ ormai da mesi che il lessico attraverso cui media mainstream e politica istituzionale descrivono il fenomeno migratorio sembra voler enfatizzare la divisione classificatoria tra cosiddetti “rifugiati” e “migranti economici”. Se è vero che anche il linguaggio è potere, dovremmo allora interrogarci sulla possibilità che tale distinguo possa celare una ben precisa finalità politica. La nostra ipotesi è che suddetta finalità sia il consolidamento di un regime di governo delle migrazioni basato sull’inclusione esclusiva di alcuni e sull’esclusione inclusiva di altri.

Per inclusione esclusiva intendiamo il diritto all’accoglienza che, però, sancisce a priori una naturalizzazione della differenza rispetto alla popolazione autoctona, comportando inevitabilmente un trattamento differenziato, spesso e volentieri peggiorativo, checché ne dicano gli ignoranti. L’intento è duplice: da un lato, i rifugiati sono indotti a sviluppare un senso di gratitudine nei confronti dello Stato membro accogliente che rischia di vincolarne all’obbedienza il comportamento soggettivo e di neutralizzare potenziali processi di insubordinazione; dall’altro, tacito obbiettivo diventa anche quello di rinsaldare la dicotomia tra aventi diritto e non, legittimando così l’inumanità di pratiche di esclusione come ad esempio l’internamento e le deportazioni. Insomma, è la tassonomia della sfiga, i cui parametri vengono peraltro decretati dalle élites governative degli Stati europei, a determinare chi merita la protezione internazionale e chi no.

A questo proposito ci preme inoltre sottolineare l’oggettiva difficoltà, che spesso si fa conclamata impossibilità, nello stabilire il confine tra rifugiato e migrante economico, dimostrando dunque l’assoluta arbitrarietà di decisioni che pretendono semplificare una complessità non sempre riducibile a categorie prestabilite. Per esclusione inclusiva, invece, intendiamo quella funzionalità strategica interpretabile in termini di ricattabilità salariale che assume il segmento di popolazione additato come “clandestino”. Tale ricattabilità grava sia sulla popolazione legalmente residente, perché riduce il costo del lavoro, ma anche e soprattutto su quella indocumentata, che rimane impantanata nell’atroce palude del mercato del lavoro nero, laddove il coefficiente di sfruttamento è strutturalmente più elevato e l’assenza di diritti è la norma.

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Insomma, l’esclusione diventa scienza dell’inclusione differenziale, ovvero una segregazione esistenziale e lavorativa che vede nello sfruttamento illegale l’unico reale mezzo di inclusione e sopravvivenza. Senza dubbio un buon affare per gli investitori! L’insieme ben oleato di tutti questi ingranaggi costituisce una macchina di governance che non solo consente di operare una selezione chirurgica dei migranti volta a estrarre e massimizzarne il valore di scambio, ma, stratificando e gerarchizzando la componente sociale migrante, rischia di produrre altresì un implemento delle dinamiche conflittuali tra cosiddetti “rifugiati” e “migranti economici”: una guerra tra poverissimi in uno scenario generale di guerra tra poveri.

(Non) libertà di movimento in Europa

È innegabile che in Europa vi siano varie posizioni politiche in tema di immigrazione, ma quanto realmente differiscono l’una dall’altra? Lo scontro italico tra Renzi e Salvini, per esempio, risulta inscritto in un ordine discorsivo che in entrambi i casi implica un livello, seppur variabile, di restrizione alla libertà di movimento universale.

A partire dalla categorizzazione del “migrante economico”, accusato di nascondersi – imbrogliando – dietro la figura del “rifugiato” o comunque di rubare lavoro e risorse agli italiani, Salvini, o chi per lui, mira a costruire identità altre e nemiche da contrapporre a un presunto popolo omogeneo. Renzi, con la sua retorica umanitaria, sostanzialmente non si discosta da questa posizione se non nel porre l’accento sulla necessità morale dell’accoglienza di alcuni, piuttosto che sul respingimento o sul rimpatrio degli altri. Tuttavia, entrambi concordano sulla presunta impossibilità di rinunciare all’idea dell’Italia come proprietà privata.

Possiamo inscrivere anche Merkel all’interno di questo frame discorsivo: emblematico fu il caso della bambina palestinese alla quale fu detto, nel corso di una diretta televisiva, che la sua deportazione sarebbe stata legittima perché confacente alla legge, espressione giuridica del concetto per cui “la Germania non può accogliere tutti”. Certo, c’è poi chi non solo si limita ad appellarsi al rigore legislativo, ma addirittura arriva a modificarne l’impianto. Può esserne un esempio il primo ministro ungherese Orban, che de facto ha smantellato quasi totalmente la legislazione sul diritto d’asilo pur preservandola formalmente. In ogni caso, la costante europea rimane la restrizione della libertà di movimento, a geometria variabile.

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Valorizzazione capitalistica e refugee washing

Nell’attuale fase storica caratterizzata da trasferimenti massificati di popolazione, alcuni governi europei, Germania in testa, stanno adeguando le proprie politiche migratorie modulandole in maniera funzionale alla valorizzazione capitalistica: il diritto d’asilo si coniuga sempre più con l’esigenza della selezione e messa a profitto di human resources. Non è un fatto nuovo, ma la riproposizione intensificata dell’immigration choisie di memoria coloniale, adoperata a più riprese da diversi governi nel corso dell’ultimo secolo.

Un caso paradigmatico è quello dei profughi siriani ai quali negli ultimi giorni il governo tedesco ha deciso di aprire le porte, arrivando persino a mettere in discussione il Regolamento Dublino III. Tendenzialmente, sulla base di osservazioni empiriche, possiamo affermare che la maggioranza di coloro che sono riusciti ad abbandonare il proprio paese, dal 2011 dilaniato da un sanguinoso conflitto, sono individui altamente scolarizzati e dotati di competenze professionali specializzate, figli del locale boom economico successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Molti analisti hanno plaudito all’apertura tedesca prospettando i benefici che questa scelta rifletterà sull’economia del paese, sia per quanto riguarda la propulsione positiva che contrasterà la depressione demografica sia, soprattutto, in quanto ghiotta occasione per appropriarsi a costo zero di lavoratori qualificati.

Se a questa convenienza economica poniamo in relazione l’interesse politico del governo tedesco a proiettare una rappresentazione di sé più umana e benevola dopo l’austera inflessibilità dimostrata al tavolo delle trattative con Atene e più generalmente nell’ambito dell’Unione Europea, ecco che troviamo la quadratura del cerchio: un’astuta quanto lungimirante operazione d’immagine che potremmo definire refugee washing. Inoltre, in questo modo il governo Merkel si distanzia dalla destra radicale, protagonista di crescenti provocazioni e azioni violente contro i rifugiati, non compromettendosi così l’appoggio moderato e garantendo alla sua coalizione la tenuta del consenso elettorale.

In luce di queste considerazioni la nostra potrebbe sembrare una posizione di condanna non solo nei confronti delle strategie di governance ma anche verso tutti coloro che inconsapevolmente hanno assecondato e assecondano il “refugees welcome”, potenzialmente discriminatorio nei confronti dei cosiddetti “migranti economici”. Non è così. In uno scenario di crisi permanente e impoverimento generalizzato non era affatto scontato riscontrare le straordinarie manifestazioni di solidarietà che si sono date diffusamente nei territori europei.

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Il “refugees welcome” può e deve divenire “migrants welcome”, laddove “migranti” rappresenta una categorizzazione che include tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, per necessità e/o desiderio, rivendicano la libertà di movimento, praticandola materialmente. Il primo passo affinché la possibilità di un mondo senza frontiere e di libera cooperazione possa farsi orizzonte concreto spetta ai migranti stessi, e questo passo si sta compiendo. Sono infatti i migranti che, grazie alla loro determinazione, stanno sfidando i confini d’Europa, costringendone i regimi di migrazione a mutare in un senso più inclusivo. Il timore dell’innesco di una guerra tra poverissimi interna alla composizione migrante, tra aventi diritto e non, non si sta assolutamente verificando in maniera consistente. Anzi, in barba alle tattiche divisive promosse dai governi, le mobilitazioni contro le frontiere continuano a rivendicare l’uguaglianza: “freedom of movement for all!”.

Questo, tuttavia, è condizione necessaria ma non sufficiente. La solidarietà verso i rifugiati deve farsi complicità con tutti i migranti nella costruzione di un’alternativa desiderabile per tutti. Oggi più che mai il razzismo può costituire un pericolo reale e diffuso, la difesa non può che essere il tentativo di una progettualità comune tra chi viaggia e gli autoctoni. Con questo articolo abbiamo voluto affrontare e analizzare l’ambivalenza del “refugees welcome”, evidenziando le principali contraddizioni che questo slogan racchiude. Il nostro intento non ha voluto essere quello di proporre una descrizione neutrale, ma offrire alcuni spunti per la riflessione e azione collettiva volti a piegare l’ambivalenza in una direzione favorevole alla libertà di movimento. “Migrants welcome!”


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