La Fortezza Australia e l’imbroglio della “protezione dei confini”

di Julian Burnside, presidente dell’Asylum Seeker Resource Centre

Mi sono ritrovato coinvolto nella scottante questione delle politiche d’asilo con un po’ di sorpresa. Non mi ero mai occupato di politica, né mi interessava. La spiegazione migliore per capire come questo sia stato possibile risiede in una storia che ho sentito molto tempo fa. C’era un bambino di dieci anni che non aveva mai spiccicato una parola. I genitori erano passati dall’ansia alla disperazione e infine alla rassegnazione: non esisteva alcuna ragione organica per il suo silenzio. Una mattina, per cambiare, la mamma decise di servire del porridge a colazione. Non lo aveva mai fatto prima. Il bambino di dieci anni ne prese una cucchiaiata, alzò lo sguardo e bruscamente disse: “Credo che il porridge sia rivoltante”. I genitori rimasero meravigliati ed esclamarono: “È un miracolo! Puoi parlare! Perchè non lo avevi mai fatto prima?” Il bambino rispose: “Finora è sempre stato tutto soddisfacente”.

Tampa, rifugiati e crollo dei valori

L’arrivo del Tampa nelle acque australiane fu presentato strumentalmente al pubblico come una minaccia alla nostra sovranità nazionale. Le persone a bordo furono tratte in salvo su richiesta del governo australiano. La maggior parte di loro erano hazara dell’Afghanistan in fuga dai talebani. Il regime dei talebani è stato universalmente riconosciuto come uno dei più brutali e repressivi della storia recente. Ora, l’idea che una manciata di uomini, donne e bambini terrorizzati e perseguitati da un regime simile potesse costituire una minaccia alla nostra sovranità nazionale è così bizzarra che non merita attenzione. Rimasi scioccato nel vedere la reazione dell’Australia al caso Tampa. Il governo si oppose alla richiesta di far sbarcare il suo carico malandato e la SAS (un corpo speciale dell’esercito australiano, ndt) salì a bordo della nave. Per vari giorni 438 tra uomini, donne e bambini furono trattenuti sul ponte sotto il sole tropicale.

Non sapevo niente delle politiche di asilo, ma sapevo che era profondamente sbagliato trattare esseri umani in quel modo.

Grazie a questo caso capii meglio le politiche di asilo e ancora di più l’indole australiana. Capii che non era possibile rimanere in questo paese senza provare a fare qualcosa per combattere queste evidenti ingiustizie. Fu il mio grande “momento porridge”. Il 26 agosto del 2001 il Tampa aveva salvato 438 persone dal naufragio del Palapa, l’imbarcazione sulla quale viaggiavano. Questo avvenne in conformità con la legge australiana. E secondo la tradizione dei marinai di tutto il mondo.

Le persone salvate erano per lo più hazara terrorizzati dall’Afghanistan: uomini, donne e bambini. Scappavano dai talebani. Lo sapevamo, come sapevamo che quello dei talebani era un regime brutale e repressivo. Sapevamo che gli hazara, uno dei tre gruppi etnici in Afghanistan, erano stati perseguitati per secoli, ma che le persecuzioni si erano intensificate sotto i talebani che provenivano dal gruppo etnico pashtun. Il capitano del Tampa chiese assistenza sanitaria. Molte delle donne e dei bambini erano malati o feriti. Quando la nave entrò in acque territoriali australiane al largo dell’Isola di Natale, l’Australia inviò il SAS e prese controllo militare della nave per evitare che i rifugiati arrivassero a terra. L’idea che il primo ministro John Howard potesse rinvigorire le sue affievolite prospettive di rielezione usando la SAS salvare quelle persone rifletteva un profondo malessere nell’indole australiano.

La sentenza per il caso Tampa fu emessa l’11 settembre 2001, nove ore prima dell’attacco terroristico agli Stati Uniti. Da quel momento il governo portò avanti contemporaneamente due idee differenti: il controllo dei confini e la sicurezza.

La tanto sbandierata “protezione dei confini” confonde la sicurezza nazionale con le politiche di asilo. In questa confusione perdiamo il nostro bagaglio morale.

Nasce la “Pacific Solution”

Durante la querelle Tampa, il governo Howard elaborò la “Pacific Solution”. È difficile da credere, ma la prima versione della risoluzione, seppur terribile, era sempre meglio di quella attuale. Ma provocò comunque delle vittime. Una di queste fu Mohammad Sarwar. Il 26 agosto del 2002, gli afghani che erano stati tratti in salvo dal Tampa si stavano preparando a commemorare il primo anniversario del loro salvataggio. Quella mattina Sarwar si svegliò, si alzò, emise due urla e cadde all’indietro. I suoi amici ci scrissero:

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Era nel pieno dei suoi 20 anni. Era hazara e veniva dall’Afghanistan centrale. Era uno dei 438 richiedenti asilo che vennero salvati dall’oceano dal cargo norvegese MV Tampa. Ha trascorso almeno un anno tra il Tampa, Manoora e il centro detentivo di Nauru. A Nauru era stato ricoverato per le prime settimane. Gli era stato negato il visto di rifugiato dall’UNHCR. Appena qualche giorno prima della sua morte era stato interrogato in appello per la decisione negativa che la sua richiesta di protezione aveva ricevuto. I suoi compagni lo avevano visto uscire dalla stanza dell’interrogatorio molto provato e infelice per il modo in cui gli erano state poste le domande. Nelle ultime settimane era apparso stressato, preoccupato, depresso e pressoché isolato. Ma si sapeva che Mohammad Sarwar era piuttosto afono, calmo e che avrebbe parlato molto poco delle sue preoccupazioni. Recentemente, sedeva spesso in solitudine e sembrava assorto profondamente nei suoi pensieri.

Alla fine, egli ha trovato l’asilo che solo Dio può garantire.

Sia l’Australia che Nauru si rifiutarono di effettuare l’autopsia. Ai tempi della morte di Sarwar, il governo australiano stava forzando e persuadendo gli afghani a tornare nel loro paese. La famiglia di Sarwar chiese che il suo corpo fosse spedito a Kabul. Ma l’Australia rifiutò, dicendo che non sarebbe stato sicuro far tornare un cadavere in Afghanistan. Sarwar fu la prima vittima della Pacific Solution. Un’altra vittima fu l’indole australiana.

Terrore

Sulla scia dell’11/9, il governo inviò un pacchetto ad ogni famiglia australiana. Includeva una calamita da frigorifero – una protezione certa contro il terrorismo – e una lettera firmata da Howard, in cui si leggeva:

Caro Cittadino Australiano,

Ti scrivo perché credo che tu e la tua famiglia dobbiate essere maggiormente informati in merito ad alcuni temi fondamentali che influenzano la sicurezza del nostro paese e su come possiamo svolgere tutti quanti un ruolo nel proteggere il nostro stile di vita. Come popolo che ha tradizionalmente affrontato il mondo in modo ottimista, la nostra natura aperta e amichevole ci rende ospiti accoglienti e calorosi.

Don Watson a questo proposito ha scritto:

L’espressione “come popolo” non dovrebbe essere falsa, ma puzza come tale. Si pone in conflitto con l’elemento della filosofia politica conservativa che contrasta tutti i tentativi di categorizzare le persone in base a classe, attitudine storica o ad ogni altro concetto che serva come scusa per la loro eliminazione. Il popolo australiano non è marcio proprio perché non si trascina dietro l’idea di una qualche forza mitica o storica che ci unisce nel nostro destino. E anche se dovessimo averla, come da tradizione andrebbe abbandonata, nonostante il nostro ottimismo si basi su quest’apparenza. Deve essere abbandonata perché è così in contrasto con la storia australiana che potrebbe chiamarla ragionevolmente una menzogna. Tradizionalmente costruiamo barriere contro quel mondo che affrontiamo con presunto ottimismo; tradizionalmente ci stringiamo alla madre patria per proteggerci proprio da quello stesso mondo; tradizionalmente adottiamo una visione del mondo meno ottimistica e più sarcastica e fatalista.

Il compiacimento della frase sul nostro essere ospiti accoglienti e padroni calorosi è così intriso di fantasia e compatimento da trascendere Neighbours (soap opera australiana, ndt) e diventa Edna Everage (personaggio comico australiano rappresentato dall’attore Barry Humphries travestito da donna, ndt). Alcuni lettori avranno considerato, sicuramente, che siamo stati ospiti piuttosto freddi nei confronti dei non invitati, il genere di persone che non vogliamo qui, che gettano i loro figli in mare, che non sono amanti del divertimento, accoglienti, caldi, solari e così via. Considerando la nostra storia recente, potremmo chiederci se queste parole sono ingenue come sembrano. Il pensiero, anche subconscio, potrebbe aver fatto parte di una piece con un borbottio di Medea. Così, dal momento che il popolo australiano è gentile, quelli che non sono d’accordo con questa proposizione non sono gentili, e quelli che non sono gentili non sono australiani nel senso di Australiani “come popolo”. E le persone che non sono preparate ad essere australiane “come popolo” dovrebbero stare zitte o tornare da dove sono venute.

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Questo è il punto: dalla reazione ai cosiddetti “clandestini” dell’agosto 2001 abbiamo ridefinito il nostro carattere nazionale.

Hamidi

Mr Hamidi era fuggito dal regime di Saddam Hussein. Nel giro di un paio di settimane dal suo arrivo in detenzione in Australia, gli impiegati del Dipartimento per l’immigrazione capirono che aveva subito torture in Iraq nella famosa prigione di Abu Ghraib e che era maggiormente traumatizzato dall’isolamento in una piccola stanza. Ad Abu Ghraib, era stato tenuto regolarmente chiuso in una minuscola cella dove ad intervalli casuali veniva fulminato attraverso il passaggio di acqua sul pavimento. Dopo circa 15 o 18 mesi di detenzione cadde nella disperazione. È tipico per i richiedenti asilo inseriti nel sistema detentivo australiano perdere la speranza dopo quel lasso di tempo. Quando accadde a Mr Hamidi, cominciò ad infliggersi ferite. Ogni volta che riusciva a trovare del vetro rotto o un po’ di filo spinato, li usava per tagliarsi. Quando cominciò a farlo, il Dipartimento per l’immigrazione gli somministrò del Panadol (che sembra essere il trattamento universale nel sistema di detenzione dell’immigrazione) e lo misero in isolamento – in una piccola cella. Questo non lo aiutò. Dopo un paio di settimane in isolamento, era ancora più disperato di prima. Continuò a ferirsi e il Dipartimento a somministragli Panadol e isolamento. Andò avanti per cinque anni. Infine, alcuni avvocati di Adelaide portarono il caso davanti alla Corte federale dell’Australia chiedendo che Mr Hamidi, ed altri in simili circostanze disperate, fossero trasportati all’ospedale psichiatrico Glenside di Adelaide per una perizia e, se necessario, per un trattamento. Il Commonwealth si oppose alla richiesta e prolungò il caso per diverse settimane. Alla fine il giudice stabilì che i detenuti fossero inviati a Glenside.

Quando Mr Hamidi fu visitato a Glenside, la valutazione fisica dimostrò che aveva dieci metri di cicatrici sul suo corpo derivanti dalle ferite auto inflitte. In seguito ottenne lo status di rifugiato, ma la sua salute era compromessa.

Saddam Hussein aveva provato ad ucciderlo e aveva fallito. L’Australia cercò di privarlo delle forze e ci riuscì.

Una ragazza

Ci fu un caso che, almeno per quanto mi riguarda, ha cambiato per sempre il mio punto di vista su questo paese fortunato. Riguardava una famiglia iraniana composta da madre, padre e due figlie di 11 e 7 anni. Erano membri di una piccola comunità religiosa pre-cristiana. Una religione considerata impura in Iran. Se pensate che il destino sia nefasto con voi, provate ad appartenere a un gruppo religioso considerato impuro. Ci sono moltissimi precedenti storici che mostrano le difficoltà che queste persone devono affrontare.

La loro stirpe aveva vissuto in Iran da tempo immemore. Poi un giorno, dopo un grave incidente che coinvolse la bambina di undici anni, la famiglia lasciò l’Iran e finì per essere detenuta a Woomera.

Dopo circa un anno e mezzo di detenzione erano tutti conciati male; specialmente l’undicenne. Si stava lasciando andare: non si pettinava più, non porgeva attenzione ai vestiti e aveva smesso di mangiare. Aveva paura di percorrere i 100 metri che dalla sua stanza conducevano al bagno, così faceva la pipì a letto durante la notte e bagnava i vestiti durante il giorno.

A quei tempi i detenuti di Woomera con seri bisogni psichiatrici ricevevano assistenza una volta ogni sei mesi. Ma lei aveva bisogno di un supporto assiduo. Una psichiatra di Adelaide, che aveva sentito parlare del caso, si recò a Woomera e redasse un rapporto in cui diceva che era fondamentale che la famiglia venisse trasferita in un centro detentivo metropolitano così che la bambina, riconosciuta fortemente a rischio, potesse usufruire di assistenza quotidiana.

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Alla fine, il Dipartimento per l’immigrazione concesse il trasferimento dal deserto dell’Australia del sud alla periferia occidentale di Melbourne, dove però nelle prime due settimane e mezzo nessuno venne ad assistere la piccola: né uno psichiatra né psicologi, dottori, inferieri o assistenti sociali. Nessuno. Era come se non fossero mai arrivati.

Una domenica notte del maggio 2002 la bimba, sola nella sua cella mentre gli altri erano nel refettorio per cenare, arrotolò un lenzuolo e se lo legò al collo. Ma poiché era troppo piccola per sapere come stringere il nodo in maniera efficace, quando la famiglia tornò dalla cena la trovò appesa mentre continuava a dimenarsi. La fecero scendere e la portarono all’ospedale vicino, scortata da due guardie.

Kon dell’Asylum Seeker Resource Centre, che si era occupato delle pratiche per il visto della famiglia, quando sentì dell’incidente si precipitò all’ospedale. Erano le 9.30 della sera stessa. Salutò le guardie (lo conoscevano bene, visto che andava spesso a Maribyrnorg) e chiese loro di poter parlare con la madre della bambina. Ma si sentì rispondere: “Non sei autorizzato a vederli perché nel centro detentivo le visite degli avvocati sono concesse dalle nove alle cinque”. Lo mandarono via. Così Kon mi chiamò e mi raccontò l’accaduto.

Siamo un paese che tratta in questo modo i bambini?

Così pare.

Le elezioni del 2013

Nel 2008 le navi smisero di attraccare. Nel luglio di quell’anno il primo governo Rudd introdusse degli emendamenti al Migration Act che soddisfarono circa il 90% delle richieste dei difensori dei migranti. Subito dopo, tuttavia, il destino giocò un altro scherzo: Tony Abbott diventò, per un solo voto, il leader dell’opposizione. Da subito Abbott iniziò a lamentarsi pubblicamente e sonoramente degli sbarchi. Kevin Rudd rispose montando un feroce attacco contro i trafficanti di uomini. Forse, preso dall’ardore del momento, si era dimenticato che il suo idolo morale – Dietrich Bonhoeffer – aveva anche lui “trafficato” persone, seppur in modo benevolo. Così come lo avevano fatto Oskar Schindler, Gustav Schroeder e il capitano della St Louis.

Quando Julia Gillard divenne il primo premier donna dell’Australia, condusse una campagna molto ambivalente verso i profughi: mentre esprimeva apprensione per le circostanze che li portavano a imbarcarsi, allo stesso tempo diceva di capire le preoccupazioni degli australiani. Il dibattito sui richiedenti asilo prese una nuova virata. Il momento più basso fu durante la campagna che precedette le elezioni federali del settembre 2013. Per la prima volta nella storia politica australiana, entrambi i principali partiti cercavano di superarsi vicendevolmente con promesse di crudeltà verso chi sbarcava. Abbott vinse le elezioni e mantenne le sue promesse.

Ora abbiamo la peggior politica sull’immigrazione e riserviamo ai migranti il peggior trattamento tra i paesi che hanno firmato la Convenzione del rifugiato.

 

FINE PRIMA PARTE (il seguito verrà pubblicato domenica 11 ottobre)

 

 

Traduzione di Monica Ranieri e Joshua Evangelista. Su gentile concessione di:

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