Lettere dal CIE

di Mario Badagliacca*

Per i governi europei l’unica risposta plausibile per gestire i flussi migratori sembra essere quella militare. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un proliferare di terre di nessuno lungo le frontiere dell’Europa: fili spinati, soldati, cani e fanali nella notte.

Anche l’Italia ha un suo fronte interno e sta conducendo la sua “battaglia” contro i migranti attraverso i Centri di identificazione ed espulsione (CIE), i centri dove tutti gli stranieri non in regola con i documenti di soggiorno vengono rinchiusi per essere identificati ed espulsi.

Da quando ho iniziato il lavoro sui CIE, circa quattro anni fa, la situazione in Europa e in Italia sembra essere peggiorata. In Europa sono ricomparsi i muri che dividono e il governo italiano è in procinto di aprire gli hotspot, delle strutture dove i migranti appena arrivati saranno identificati. Essi dovranno così accettare a tutti i costi di rimanere in Italia come previsto dalla Convenzione di Dublino se gli verrà concesso l’asilo politico. Se invece saranno identificati come “migranti economici” oppure si rifiuteranno di rilasciare le impronte digitali verranno condotti nei CIE e poi espulsi. Questo sistema perverso di violazione dei diritti umani produce anche delle situazioni molto ambigue. Un esempio è la storia di Lassaad Jelassi, il protagonista del corto multimediale Lettere dal CIE.

Lassaad vive in Italia da 25 anni. Dopo aver avuto problemi con il permesso di soggiorno è stato rinchiuso per quattro mesi nel CIE di Roma, a Ponte Galeria.  Alla fine Lassaad ha vinto il ricorso giuridico ed è stato rilasciato, e attualmente lavora come mediatore culturale in un centro per minori stranieri a Roma. Ma Lassaad si porterà dietro per tutta la vita il trauma legato al trattenimento forzato a Ponte Galeria.

Lettere dal CIE racconta questa e altre storie basate sulla vita quotidiana all’interno dei Centri di identificazione ed espulsione. Lo scopo del video non è quello di fornire dettagli tecnici sui CIE o informare su un fatto di cronaca, ma fare in modo che lo spettatore si ponga delle domande sul protagonista e sul sistema dei CIE. Anche io mi sono chiesto fin dall’inizio come fosse la vita quotidiana nei CIE, le dinamiche tra i detenuti, quelle di genere, quali le forme di resistenza messe in atto per sopportare condizioni così disumane e quali fossero i rapporti con lo staff interno e le forze dell’ordine.

Per questo motivo Lassaad è stato coinvolto in maniera attiva fin dall’inizio per il lavoro di stesura della sceneggiatura, basata sulla sua testimonianza e su fatti realmente accaduti. Questo gli ha dato la possibilità di metabolizzare, seppur in parte, la sua storia, trovare il modo di raccontarla e trovare anche degli interlocutori pronti ad ascoltarlo. Per rendere l’esperienza dello spettatore ancora più intensa si è scelto di utilizzare i suoni originali registrati all’interno della struttura, un lavoro non facile svolto da Enrico Grammaroli, tecnico del suono e attivista del Circolo Gianni Bosio.

La produzione del video (resa possibile grazie a un finanziamento del Documentary Photography Project 2014 di Open Society Foundations), si è svolta tra Roma Ponte Galeria e Bari Palese. È stato un percorso lungo e non semplice, durato quasi quattro anni a causa delle autorizzazioni necessarie all’ingresso nei CIE, e alle situazioni che si creavano ogni volta all’interno. Durante le visite ero in costante supervisione da parte delle forze dell’ordine, soprattutto all’interno del CIE di Bari Palese. Gli accrediti sono arrivati sempre a singhiozzo e gli ingressi concessi sono stati veramente pochi. Per altri CIE, come quello di Torino, le autorizzazioni non sono mai arrivate.

La cosa che più mi ha colpito all’interno dei CIE è stato il disorientamento totale al quale si è sottoposti. La prima volta che entrai a Ponte Galeria non riuscivo più a trovare dei punti di riferimento mentali e immaginari che mi dessero la possibilità di spiegare a me stesso il luogo che stavo visitando. Vedere delle persone dentro gabbie a cielo aperto, il sistema di varchi e cancelli, mi ha riportato subito a pensare ai CIE come a dei campi di internamento nel cuore delle città italiane. Questo disorientamento colpisce ancora di più i detenuti che non riescono a spiegarsi la ragione del loro trattenimento, a differenza di un normale detenuto nelle carceri che comprende di essere lì perché ha commesso un reato. Eppure anche la legge italiana è molto ambigua in questo, perché non li considera come detenuti, e ufficialmente vengono chiamati “ospiti”.


*Mario Badagliacca è nato a Palermo nel 1980. È laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università L’Orientale di Napoli. Durante i suoi studi ha collaborato con diverse associazioni non profit. Nel 2012 si è diplomato in fotografia documentaria e fotogiornalismo a Roma, dove attualmente risiede. Focalizzato su tematiche sociali e politiche, lavora su progetti sulle comunità migranti in Italia, ponendo l’attenzione agli aspetti culturali delle migrazioni. Collabora con ricercatori e università in Italia e all’estero (tra le quali la St. Andrews University, L’Orientale di Napoli, University of Oxford) e le sue fotografie sono state pubblicate dai maggiori quotidiani e magazine italiani e stranieri.

www.mariobadagliacca.com  /  vimeo.com/channels/mariobadagliacca


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