Il giallo di Yaya Cissé, assassino a sua insaputa

Yaya Cissé ha 38 anni, è maliano e da più di tre è abbandonato nelle carceri della Mauritania. Su di lui pende una condanna a morte. E’ accusato dell’omicidio del settantacinquenne Mohamed El Mane, avvenuto il 26 luglio del 2010 a Nouadhibou (foto in copertina), la seconda città mauritana, che dista oltre 200 km dalla capitale Nouackott. Il corpo dell’anziano era stato in seguito mutilato. Eppure secondo numerose testimonianze e prove Cissé non poteva trovarsi lì, quel giorno: era in viaggio per Bamako. Un intrigo internazionale che assume sfumature sempre più oscure.

Yaya è nato a Mopti, Mali, il 12 febbraio del 1977. Dopo aver lavorato come commerciante a Koulikoro, nel sud del Mali, decide di cercare fortuna in Mauritania. Nel 2003, a 26 anni, viene assunto nell’ufficio doganale di Nouhadibou, città di mare con un alto tasso di migranti maliani e punto di partenza verso nord per molti migranti non regolari.

Diventa un punto fermo della comunità maliana, dapprima venendo eletto segretario generale del Consiglio dei maliani di Rosso e poi presidente dell’associazione Yereko. Si impegna nel contrasto dell’immigrazione irregolare e partecipa a diverse azioni di soccorso di migranti. E’ ormai punto di riferimento per i maliani in transito così come per le istituzioni e le ong internazionali. Entra in politica partecipando alla campagna elettorale per le elezioni presidenziali del Mali sostenendo Ibrahim Boubacar Keïta, futuro presidente.

Cosa è successo allora il 26 luglio 2010? Ci sono varie prove che dimostrano che il giovane fosse in viaggio per Bamako da Nouackott via Senegal mentre l’anziano, una guida del Sahara, veniva ammazzato, fatto a pezzi e i suoi resti dispersi per la città: dal passaporto con i timbri di entrata a Bamako al biglietto aereo, dalle telefonate effettuate dall’aeroporto e dal Senegal, dalle testimonianze delle persone incontrate lungo la strada per l’aereoporto di Nouackott a quelle di Bamako. Tra cui l’ex moglie di Yaya, che quel 26 luglio era andata a prenderlo in aeroporto.

Secondo gli attivisti, il processo a suo carico fa acqua da tutte le parti. A fare scalpore è stato sicuramente il silenzio del governo maliano, a quei tempi in preda ad una profondissima crisi istituzionali. Nel frattempo tutte le prove a sua difesa non sono state accettate, sebbene l’articolo 7 della Carta dell’Unione africana reciti che ogni persona ha il diritto che la sua causa sia ascoltata. Tutti i visti sono stati dichiarati falsi e il passaporto è stato requisito e ancora oggi non restituito.

Nessuna indagine è stata portata avanti sui tabulati telefonici. L’unico indizio preso in considerazione dalla polizia è la deposizione della donna arrestata per il delitto. Si badi bene, la deposizione è stata fatta due anni dopo l’efferato omicidio, cambiando così la versione iniziale. Così il giudice ha disposto cinque anni di reclusione per la donna, mentre Cissé è stato condannato a morte.

Yaya si è sempre dichiarato innocente ed ha interpellato più volte le autorità del suo paese e della Mauritania affinché ricevesse un processo equo. Ha inoltre rifiutato la grazia, che secondo la legge islamica mauritana si ottiene solo a seguito di un risarcimento alla famiglia della vittima.

Il caso di Yaya, che in Italia ha trovato un forte supporto nell’associazione Solidarite Nord Sud, lascia aperti infiniti interrogativi sul perché si ostacoli la ricerca delle prove e non si restituisca il passaporto per poter dimostrare la validità dei timbri. E ancora, perché l’ambasciata maliana a Nouackott non risponde all’appello di un suo cittadino?

Su change.org è stata aperta una petizione per chiederne la liberazione, invocando il principio del Giusto Processo di cui dovrebbe godere ogni persona.

 

 


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