Monika Bulaj e la ricerca del sacro attraverso la fotografia

Intervista alla fotoreporter polacca naturalizzata italiana, da decenni punto di riferimento della fotografia mondiale. A Frontiere News racconta la sua ricerca del sacro, anche “nei posti infelici del pianeta, dove ancora esiste la vita”.


Un viaggio costante nelle ultime oasi d’incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati e patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca, e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze e sguardi. In una parola: l’uomo, la sua bellezza, la sua sacralità inviolabile, ostinatamente cercata anche nei luoghi più infelici del Pianeta.

Monika BulajL’ultima mostra di Monika Bulaj, “Dove gli Dei si parlano”, allestita presso i Frigoriferi Milanesi, presenta una selezione di immagini frutto di una ricerca profonda sul tema del sacro realizzata, in più di 15 anni di lavoro, attraverso le fedi di circa 30 paesi tra Europa, Medio Oriente e Asia Centrale.

Fotografa, giornalista e documentarista polacca (ma italiana di adozione), è considerata una delle reporter più interessanti nel panorama internazionale e da anni viaggia nell’Europa dell’Est, in Asia Centrale e in Medio Oriente realizzando reportage che documentano storie di confine fra religioni, culture e popoli, concentrandosi particolarmente sul mondo femminile. Qualcuno l’ha definita la “migliore fotografa sul tema del sacro”. La sua ricerca sulle diverse forme di spiritualità ha prodotto lavori come “Gerusalemme perduta”, “Figli di Noè”, “Aure”, “Genti di Dio”, “Nur – La luce nascosta dell’Afganistan”.

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Lei è una fotografa sul tema del sacro. Da dove nasce questo suo interesse?

Questo mio percorso nelle fedi iniziò da adolescente, nei libri cercati con disperazione nel vuoto comunista in Polonia. Successivamente, ho fatto la tesi di maturità sullo sterminio degli ebrei e ho studiato presso la facoltà di Filologia polacca. Inoltre, ho frequentato diversi seminari di antropologia del sacro, storia, antropologia di teatro, teologia bizantina, filosofia cattolica. Da sempre ho cercato di raccontare questa dimensione umana nei teatri di guerra, raccontando le storie – anche positive – nei posti infelici del Pianeta, dove ancora esiste la vita.

Lei trova la bellezza anche nei luoghi di guerra. Che tipo di bellezza è quella?

La bellezza è universale, riguarda l’anima del uomo, la ricerca della felicità. La capacità di usare il corpo. Il corpo non mente. Il sacro passa attraverso il corpo.

Nei suoi racconti vediamo spesso i volti femminili. Perché?

La mia ricerca è sempre stata focalizzata sui confini del monoteismo. Ma nel tempo, quasi senza accorgermene, mi sono fermata spesso a guardare i volti femminili. Perché se Dio è sempre uomo, le donne rappresentano la vita.

Uno dei suoi viaggi è stato in Afghanistan. Cosa l’ha spinta?

Da tempo sognavo di andarci. Per me l’Afghanistan era un mito, una speranza: quella terra, che unisce tante culture diverse, mi affascinava. Da lì passavano i migratori, i nomadi, la via della seta. Kabul è una città ricca di mitologia, di leggende, di storia, una città bellissima e io desideravo conoscerla. Per tre anni sono andata con regolarità in Afghanistan. Sono partita soprattutto per capire come si sta lì, come vive la gente, cosa pensa, cosa desidera, come scaldano le case durante l’inverno. Ho cercato di capire come vivono, di capire l’arte della loro sopravvivenza. E poi c’era il desiderio di raccontare l’altro islam, un islam fatto di pace, di bellezza, di spiritualità, un islam profondo ed intenso. L’altra parte dell’islam che viene purtroppo nascosto quotidianamente dalle violenze, dal terrorismo.

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Lei è anche madre di tre figli. Quanto coraggio ci vuole per decidere di partire per un viaggio di lavoro che potrebbe essere anche molto rischioso?

I miei figli sono grandi adesso, li ho fatti presto, da giovane, e sono cresciuti insieme a me. Loro hanno accettato il mio lavoro. Ho anche viaggiato con loro. In ogni caso io non cerco il rischio, ma il rischio può arrivare ovunque. Cerco di non mettere mai a rischio la vita degli altri, per questo motivo viaggio soprattutto da sola.

Ha mai avuto paura viaggiando lungo i confini delle zone di guerra?

Sì, sempre. Ma solo di non riuscire a partire.

Dopo anni di lavoro, pensa che le migliaia di fotografie che ha scattato hanno cambiato in qualche modo l’opinione delle persone?

Io racconto attraverso la fotografia, ma anche attraverso altri media come la radio, scrivo libri, faccio mostre. Cerco di portare avanti questo obbligo di raccontare. Credo che esisti una grande voglia della gente di capire, di conoscere il mondo. Poi, credo moltissimo nel mio pubblico.

Qual è la sua prossima tappa?

Congo, Ruanda, Sudan. E ho il desiderio di tornare di nuovo in alcune zone che conosco.


Profilo dell'autore

Tatjana Đorđević Simic

Tatjana Đorđević Simic
Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano

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