L’Europa è morta nelle sue periferie

Cinque letture necessarie per comprendere in maniera approfondita il rapporto tra la decadenza dello stato sociale nelle nostre periferie e la nascita di nuove insoddisfazioni sociali, economiche e identitarie che hanno fatto da collante per il terrorismo europeo delle seconde e delle terze generazioni. I “nuovi” europei stanno facendo i conti con un apparato amministrativo e con una classe dirigente centrale che non hanno saputo leggere le nuove sfide dell’integrazione. Per i lettori di Frontiere mettiamo a confronto le analisi di cinque europei esperti di intercultura che con un approccio multidisciplinare (dall’antropologia all’urbanistica, dalla sociologia economica al saggio giornalistico) giungono a sfaccettature diverse di una conclusione condivisa: l’Europa ha rinunciato a una faticosa ma efficace integrazione, relegando l’insoddisfazione nelle periferie, dove lotte di classe presenti da oltre un secolo si sono intersecate con nuovi bisogni di appartenenza. Jocelyne Cesari analizza il terreno fertile delle subculture “disegnate” dai francesi per le seconde generazioni che vivono nelle banlieues; Jeff Spross Arthur Goldhammer si soffermano sul rapporto tra gap economico e segregazione urbana a cui viene sottoposta una fetta importante dei cittadini musulmani; mentre per Kenan Malik il multiculturalismo inglese e l’assimilazionismo francese sono due facce dello stesso fallimento: la rinuncia all’ideazione di un modello integrativo basato su di un’uguaglianza reale. E infine, i falsi miti del secolarismo in antitesi alla religione (che ha portato i giovani a ripiegarsi verso il salafismo) secondo Farhad Khosrokhavar; gli errori della sinistra belga, che non ha avuto il coraggio di schierarsi in tempo contro la deriva di Molenbeek analizzati da Teum Voleten.

I saggi:

  • Etnicismo e povertà in Francia, di Jocelyne Cesari
  • Le ragioni economiche e lo stato sociale discriminante, intervista di Jeff Spross a Arthur Goldhammer
  • Multiculturalismo e assimilazionismo, due facce del fallimento, di Kenan Malik
  • Secolarismo e religione, di Farhad Khosrokhavar
  • Il Belgio e la cultura della negazione, di Teun Voeten

Etnicismo e povertà in Francia

di Jocelyne Cesari, ricercatrice al Centro nazionale per la ricerca scientifica di Parigi e professoressa associata ad Havard. Coordinatrice di Euro-Islam.com. Il brano seguente è parte di un saggio pubblicato dopo i riots nelle banlieues parigine del 2005.

Il problema delle differenze economiche e sociali sono complicati da differenze di etnia e cultura. E’ indubbio che le popolazioni emarginate delle aree con abitazioni per persone a basso reddito sono principalmente quelle delle grandi ondate migratorie, per lo più di origine nordafricana. Quello che è discutibile, tuttavia, è la conclusione politica che etnia, cultura e religione sono le cause di marginalità sociale ed economica. Secondo questo punto di vista, gli immigrati dal Maghreb e di altre parti dell’Africa hanno mantenuto la loro cultura araba di origine (algerina, marocchina, ecc.) ed è la rinuncia a contenere le differenze culturali a impedire loro di integrarsi adeguatamente nella società francese. Al contrario, in Francia non c’è molto di quel tipo di riformulazione culturale che mantiene o ricostruisce la nazionalità o l’identità etnica per formare una subcultura separata dal resto della società. Se si può parlare di subcultura in Francia, è solo attraverso le banlieues stesse. Una subcultura che potrebbe essere adeguatamente descritta come la cultura operaia francese infusa con termini slang algerini o africani.

Nel contesto francese, l’etnia si riferisce più spesso a un modo di definire se stessi, e di essere definiti dagli altri (arabo, magrebino, musulmano, ecc.), sulla base di un unico tratto distintivo (ad esempio, i tratti del viso o la religione) senza che questa definizione corrisponda necessariamente a eventuali pratiche culturali specifiche. Per questo motivo, è importante fare distinzione tra cultura etnica e appartenenza etnica. La prima si riferisce alla perpetuazione e/o ricostruzione di varie pratiche culturali: lingua, rapporti sessuali e di genere, cucina, ecc. La seconda si riferisce alla identificazione, spesso molto allentata o rimossa, con una determinata origine etnica; senza che questa identificazione provochi necessariamente alcune abitudini o comportamenti particolari. Molte analisi non riescono a distinguere tra questi due modi di praticare l’etnia, e quindi danno per scontato che la scomparsa o l’acculturazione di certe pratiche consuetudinarie annunci la fine dell’identità etnica. Senza dubbio molti membri della generazioni più giovani, nate o cresciute in Francia, hanno difficoltà a mantenere lo stesso tipo di alleanze comunitarie detenute dalle prime generazioni di immigrati. Queste prime alleanze erano in gran parte basate su legami regionali, di villaggio o etnici. Per gli immigrati di seconda generazione, però, il più delle volte prendono la forma di un attaccamento emotivo ad una determinata origine; anche se questa origine è più mitica che reale, e spesso un corrispondente rafforzamento della divisione tra “loro” e “noi”. Questo è particolarmente vero in un contesto di esclusione e stigmatizzazione.

Per le generazioni più giovani, etnia significa in primo luogo un’esperienza di differenza e discriminazione (razzismo, esclusione sociale) simultanea alla perdita di identità culturale. In altre parole: anche se lo stile di vita degli immigrati di seconda generazione in Francia può avere poco a che fare con un stile “arabo” o “algerino” di vita, sono costantemente informati del loro background nella forma dello stigma che sperimentano giorno dopo giorno. In effetti, questi giovani sono vittime della “sindrome post-coloniale”, in cui un fondo arabo o musulmano diventa un simbolo sovradeterminato, con tutto l’immaginario negativo accumulato in decenni di colonialismo. In questo modo, l’emarginazione sociale è anche costantemente rafforzata dalla disuguaglianza culturale.

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Questa disuguaglianza culturale si traduce in una discriminazione istituzionalizzata in settori come l’alloggio, l’occupazione, opportunità di istruzione, e la rappresentanza politica. Naturalmente, è difficile stabilire dati precisi sull’occupazione o l’alloggiamento quando si parla di immigrati di seconda generazione (che possiedono la cittadinanza francese, e non sono quindi esclusi dai censimenti come un gruppo separato). Tuttavia, un rapporto del 2004 del Consiglio superiore per l’integrazione cita una serie di studi sui giovani immigrati dei quartieri disagiati che rivelano tendenze precise di esclusione dal sistema educativo (tasso di abbandono del 31% in un liceo), più elevati livelli di disoccupazione e la mancanza di mobilità residenziale. […]

Oggi le banlieues sono tornate alla confusione e al vuoto organizzativo degli anni ’80. Inoltre, la ghettizzazione simbolica di questi quartieri, in particolare nelle generazioni più giovani, ha fatto crescere il tono politico e mediatico. Su base regolare, i giovani di periferia sono indicati come una minaccia: una classe sociale pericolosa fatta di persone che fanno poco, rubano e si impegnano in tutti i tipi di attività illegali. Negli ultimi cinque anni, gli adolescenti della periferia sono stati ritratti come terroristi in erba, come stupratori (con le polemiche sullo stupro di gruppo degli ultimi dieci anni), e, dopo i dibattiti sul velo, come oppressori delle loro sorelle. Leggi l’articolo completo.

Le ragioni economiche e lo stato sociale discriminante

Intervista di Jeff Spross, giornalista economico per The Week, ad Arthur Goldhammer, esperto di politica francese e membro del Centro per gli Studi europei di Harvard.

L’economia, ovviamente, non è l’unico fattore che porta alla formazione di un terrorista. Ma si tratta di un fattore molto importante. Lo stato sociale che non fornisce una risposta sufficiente per i bisogni della gente; assenza di posti di lavoro per dare a tutti significato e un senso di appartenenza; il flusso globale di attività sociali rappresentati dal mercato che include o esclude persone: tutto ciò può avere un ruolo importante nella radicalizzazione.

In molti cose il  welfare francese è esemplare. Esso comprende “assicurazione universale medica, pensioni generose, età pensionabile anticipata e così via” spiega Arthur Goldhammer del Centro per gli Studi europei di Harvard, il cui lavoro si concentra sulla Francia. Il tasso di povertà della Francia è molto inferiore a quello degli Stati Uniti […]. Per quanto riguarda l’occupazione per fasce di età, la Francia ha effettivamente fatto un lavoro decisamente migliore rispetto all’America nel corso degli ultimi 15 anni. Molte meno persone di età compresa tra i 55 anni e i 64 anni hanno un lavoro, ma ciò è bilanciato dal pensionamento anticipato e da pensioni generose. Il problema è con i giovani.

“La disoccupazione giovanile in alcuni quartieri va ben oltre il 25 per cento, a volte fino al 30, 40 o 50 per cento”, spiega Goldhammer. “Quartieri con una popolazione in rapida crescita e quindi con un grande contingente di giovani. E molti degli squilibri sembrano essere concentrati tra le persone sotto i 30 anni” […]

Come spiega Goldhammer, la legge francese divide i lavoratori in due gruppi rigidamente distinti nel mercato del lavoro: quelli con contratti di lavoro a lungo termine (chiamati CDI) e quelli con contratti di lavoro a breve termine (chiamati CDD). La gente con CDD hanno molte più probabilità di perdere il posto di lavoro in caso di recessione; ma perdono anche su altri fronti. Non ottengono l’assicurazione sanitaria integrativa, che fa sì che non possano iniziare ad accumulare denaro per la vecchiaia, non possono ottenere i mutui e non possono prendere in affitto alcuni appartamenti. […]

La maggior parte dei giovani (di qualsiasi gruppo etnico) deve accontentarsi di un’occupazione di seconda classe con un CDD. “Ovunque è più difficile per i giovani accedere al lavoro” continua Goldhammer “e la popolazione immigrata musulmana della Francia è parte importante di questa coorte di giovani disoccupati”. E questo è certamente una fonte di frustrazione. Un problema serio da molto tempo prima della crisi finanziaria del 2008.

Un altro problema: discriminazione nel lavoro e nella formazione, descritta da Goldhammer come “dilagante”. “Ci sono state indagini in cui uno stesso curriculum è stato inviato sia con un nome musulmano che con uno francese e il numero di risposte ricevute dalla candidatura con il nome francese è stata molto più grande, anche se i curricula sono identici” […]

Per quanto riguarda l’istruzione, la Francia copre tutto il finanziamento attraverso il governo nazionale, che dovrebbe produrre una distribuzione equa delle risorse per la formazione. In pratica, molte scuole di periferia frequentate dagli immigrati più poveri sono in condizioni simili a quelle frequentate delle minoranze nelle comunità urbane povere degli Stati Uniti. “C’è molto meno spesa per le scuole di periferia, la qualità dell’insegnamento è spesso non buono e gli edifici scolastici di periferia sono spesso fatiscente”. […]

Infine la segregazione residenziale: i piani regolatori hanno lasciato molti quartieri abitati da immigrati poveri lontano dai centri della vita socio-economica della città, in cui i lavori sono abbondanti. Il caso di Parigi è evidente. “Se si vive in quei quartieri, per arrivare al posto di lavoro è necessario spendere una parte consistente del proprio reddito sui mezzi pubblici”, ha detto Goldhammer. “Ci sono alcuni sussidi per aiutare a pagare gli spostamenti. Ma non è abbastanza, è difficile, e i tempi per prendere questi treni sono molto lunghi”. Leggi tutto l’articolo.

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Multiculturalismo e assimilazionismo, due facce del fallimento

di Kenan Malik, scrittore e giornalista radiofonico per la BBC

I politici britannici hanno progettato la loro nazione come una ‘comunità di comunità’, per usare le parole dell’influente rapporto di Parekh sul multiculturalismo, pubblicato nel 2000. Ma, così facendo, tendevano a trattare le comunità delle minoranze come se ciascuna fosse una distinta, singolare, omogenea e autentico insieme, composto da persone che parlano con una sola voce e con la stessa visione sulla cultura e sulla fede. In altre parole, i politici hanno accettato che il Regno Unito fosse una società diversificata, ma hanno cercato di gestire la diversità mettendo le persone in scatole etniche e culturali, utilizzate per definire le esigenze e i diritti di coloro che presenti in esse. Hanno accettato di frequente le figure più conservatrici, spesso religiosi, come le voci autentiche dei gruppi di minoranza. Invece di impegnarsi direttamente con le comunità musulmane, le autorità britanniche hanno delegato in modo efficace la responsabilità ai cosiddetti leader delle comunità.

La conseguenza è stata una maggiore frammentazione e una visione più parrocchiale dell’Islam. Non è sorprendente, quindi, che la maggior parte dei designati per il jihadismo sono estranei sia per le comunità musulmane che per le società occidentali. La maggior parte detesta i costumi e le tradizioni dei loro genitori. Alcuni sono portati a islamismo, che sembra fornire un’identità e un senso che non trovano né nella società odierna, né nella corrente principale dell’Islam. Ai margini, la disaffezione è si è incanalata nel jihadismo. Formati da idee e valori in bianco e nero, alcuni sono stati designati per commettere atti di orrore inquadrandoli come parte di una lotta esistenziale tra l’Islam e l’Occidente.

L’ironia è che le politiche sociali francesi, che partono da un punto molto diverso, hanno finito per creare molti degli stessi problemi. La Francia è la patria di circa cinque milioni, o giù di lì, cittadini di origine nordafricana. Si stima che solo il 40 per cento di loro si ritenga musulmano osservante, e solo uno su quattro frequenta la preghiera del venerdì. Eppure politici, intellettuali e giornalisti francesi guardano tutti come “musulmani”. Così ministri del governo, accademici e giornalisti dicono spesso che in Francia ci sono cinque milioni di musulmani. La moda di chiamarli ‘musulmani’ è relativamente recente per i nordafricani. Negli anni ’60 e ’70 venivano etichettati beur o arabe, ma raramente musulmani. I migranti nordafricani di certo non si consideravano musulmani; erano principalmente secolari, spesso ostili alla religione.

Lo spostamento verso il collegamento tra nordafricani e Islam è il risultato della maggiore fratturazione della politica francese negli ultimi anni così come della crescente percezione dell’Islam come una minaccia esistenziale alla tradizione repubblicana francese. I politici francesi, come quelli di tutta Europa, hanno affrontato un pubblico sempre più diffidente e disinteressato dalle istituzioni tradizionali. E, come in molte altre nazioni europee, hanno tentato di alleviare tale ostilità e risentimento riaffermando la nozione comune di identità francese. Sebbene spesso abbiano trovato difficoltà ad articolare chiaramente le idee e i valori che caratterizzano la nazione, si sono concentrati sul definire chi i francesi non sono invece di chi sono. Così l’Islam è “l’altro” rispetto al quale definire l’identità francese.

‘Che cosa, nella odierna Francia’, si chiede il regista e romanziere Karim Miske, ‘unisce un pio lavoratore algerino pensionato, un regista franco-mauritano ateo come me, un impiegato di banca sufi di etnia fulani di Mantes-la-Jolie, un assistente sociale della Borgogna convertitosi all’Islam e una infermiera agnostica che non ha mai messo piede in casa dei suoi nonni a Oujda? Cosa ci unisce se non il fatto che viviamo in una società che pensa a noi come musulmani?’

In linea di principio, le autorità francesi hanno respinto l’approccio multiculturalista del Regno Unito. In pratica, tuttavia, hanno trattato i migranti nordafricani, e i loro discendenti, in modo molto ‘multiculturale’, come se si trattasse di un’unica comunità che vive accanto ad un’altra. Leggi l’articolo completo.

Il Belgio e la cultura della negazione 

di Teun Voeten, antropologo culturale e fotografo di guerra. Ha pubblicato libri sui senzatetto di New York, sulla guerra in Sierra Leone e sulla violenza della droga in Messico. Ha vissuto a Molenbeek per nove anni.

Il principale fattore per comprendere Molenbeek è la cultura della negazione. Il dibattito politico del paese è stato dominato da una élite progressiva compiacente che crede fermamente che la società possa essere progettata e pianificata. Gli osservatori che puntano verso verità spiacevoli come l’alta incidenza di criminalità tra i giovani marocchini e la tendenza alla violenza nell’Islam radicale sono accusati di essere propagandisti dell’estrema destra, e successivamente sono ignorati e messi al bando. Il dibattito è paralizzato da un discorso paternalistico in cui giovani musulmani radicali vengono visti, soprattutto, come vittime dell’esclusione sociale ed economica. A loro volta essi interiorizzano questo quadro di riferimento, naturalmente, perché suscita empatia e li libera dall’assumersi la responsabilità delle loro azioni. L’ex sindaco socialista Philippe Moureaux, che governò Molenbeek dal 1992 al 2012 come se fosse un suo feudo privato, ha perfezionato questa cultura della negazione ed è in gran parte responsabile dello stato attuale delle cose nel quartiere. Due giornalisti avevano già documentato la presenza di islamisti radicali in Molenbeek e il pericolo che rappresentavano ed entrambi subirono una gogna mediatica. Nel 2006 Hind Fraihi, una giovane donna fiamminga di origini marocchine pubblicò “Undercover in Little Morocco: Behind the Closed Doors of Radical Islam”. La sua comunità la definì traditrice; i media progressisti dissero che era una “spia” e una “ragazza con problemi personali”.

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Nel 2008 Arthur van Amerongen è stato asfaltato per “Brussels Eurabia”, e chiamato “batavo fascista” da un giornale francofono. Dopo che io e lui tornammo a Molenbeek a marzo, in un’intervista al settimanale Brussel Dezela descrissi il quartiere come un'”enclave etnica e religiosa e una comunità parrocchiale chiusa”: si scatenò l’ira del Belgio progressista e di conseguenza una tempesta mediatica. Ho sempre pensato a me stesso come un difensore dei diritti umani e della dignità umana, al di là delle categorie di sinistra o di destra. Ora improvvisamente vengo dipinto come un tizzone destra. Per alcune persone sono diventato un “intoccabile” e ho anche perso un paio di amici, che si rifiutano di parlare con me. Ci sono enormi problemi a Molenbeek, problemi di scala davvero globale che trascendono il livello comunale e nazionale.

Eppure, c’è speranza. Dopo la pubblicazione della mia intervista, il sindaco di Molenbeek Françoise Schepmans mi ha invitato al suo gabinetto e abbiamo avuto una discussione aperta. Mi è stato chiesto di difendere il mio punto di vista presso il centro culturale locale De Vaartkapoen: un pubblico piuttosto ostile di 60 persone, molte delle quali ritenevano che avessi offeso la loro comunità, fu gentile e interessato a impegnarsi in un dibattito. La scorsa settimana, mentre mostravo a delle troupe televisive straniere il mio vecchio quartiere, sono stato accolto in modo molto cordiale al supermercato, alla panetteria e al bar che ero solito frequentare. La maggior parte delle persone di Molenbeek sono persone oneste che vogliono il meglio per le loro famiglie. Ma non dobbiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che è anche sede di un sostrato di islamismo radicale molto profondo e molto pericoloso. Leggi l’articolo completo.

Secolarismo e religione

di Farhad Khosrokhavar, sociologo iraniano e direttore dell’Ehess di Parigi

La tradizione secolare provoca nei musulmani ordinari un sentimento di rifiuto. Alcuni quindi affermano loro stessi attraverso una forma di ortodossia. A mio avviso, il problema non è tanto il secolarismo in sé quanto il fatto che sta diventando sempre più “rigido” e che viene richiamato ogni volta che la questione dell’Islam si pone nella vita pubblica. Alcuni “secolaristi” vedono il velo come segno di fondamentalismo, ma questa attenzione eccessivamente emotiva fa sì che il rifiuto del fondamentalismo si trasformi impercettibilmente in quello della religione stessa. I musulmani dovrebbero interiorizzare le norme secolari, ma la società dovrebbe allo stesso tempo rispettare i musulmani e le loro credenze. Può una giovane donna che indossa il velo sostenere i valori della Repubblica? Tendo a pensare così, a condizione che le sia data la possibilità di farlo.

Per combattere il jihadismo i musulmani devono essere coinvolti attivamente nella lotta contro l’estremismo religioso e la Francia è mal preparata per questo, proprio perché i musulmani ortodossi sono il bersaglio dei sospetti. La loro adesione passiva alla lotta contro il jihadismo deve essere convertita in un sostegno attivo. Per raggiungere questo obiettivo, dovremo accettare l’idea che seguire principi religiosi non significa rifiutare quelli della coesistenza pacifica. La lotta contro l’estremismo islamico richiede che tutta la nostra società sia coinvolta attivamente in modo efficace. Una laicità equilibrata non sarebbe affatto incompatibile con l’accettazione più o meno tacita di alcune specificità che non mettono a rischio l’integrità della vita pubblica. Leggi l’articolo completo.

 


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