Idomeni, #OverTheFortress

di Riccardo Bottazzo

Non si fa mai. Non si comincia mai un articolo con una dedica, giusto? Ma questa volta cominciamo a raccontare cosa sono andati a fare più di 250 ragazze e ragazzi in quel mare di fango e di tende rabberciate che è il campo profughi di Idomeni, mentre tutti gli altri italiani festeggiavano in tranquillità la loro pasqua, con una bella dedica. Anzi, due. A tutti quelli che: “Ma perché non ve li portate a casa vostra?” Ed anche a quelli che: “Fanno i profughi e hanno lo smartphone”.

E cominciamo a raccontare partendo da un appello. Quello #OverTheFortess lanciato dal Progetto Melting Pot Europa a “marciare” verso i confini tra la Grecia e la Macedonia per portare solidarietà e generi di prima necessità ai profughi fermati alla frontiera. L’appello gira per i centri sociali di tutta Italia, sui siti delle associazioni che si battono per i diritti dei migranti e arriva anche oltralpe dove viene raccolto dai Giovani Verdi Europei che si mettono in marcia su una rotta alternativa, scendendo verso Idomeni da nord, lungo quei Balcani che, appena una ventina di anni fa, furono teatro di una guerra che l’Europa ha dimenticato troppo presto. Gli italiani si danno appuntamento ad Ancona per la mattina del venerdì di pasqua, ed arrivare ai confini da sud, dopo aver attraversato l’Adriatico in traghetto assieme ai furgoncini dove è stipato il materiale raccolto.

“Confesso che non ci aspettavamo una tale partecipazione”, spiega Barbara Barbieri di Melting Pot. “Ad un certo punto siamo stati costretti a chiudere le iscrizioni perché non c’era più posto nei traghetti. In tutto, abbiamo portato più di 250 attivisti ad Idomeni da tutte le regioni d’Italia. Sicilia e Sardegna comprese. Se poi consideriamo i triestini che sono venuti in auto, i giovani verdi europei, le persone che si sono aggregate strada facendo e i nostri compagni che erano già là, abbiamo sfondata quota 300 partecipanti”.

Non è stata una operazione improvvisata, #OverTheFortess. Gli attivisti “che erano già là”, cui accenna Barbara, e che sono rimasti ancora là, adesso che la spedizione è rientrata, fanno parte di un progetto di staffetta solidale messo in campo da Melting Pot la scorsa estate, quando l’Austria e subito dopo la Macedonia, decisero autonomamente di chiudere il confine ai migranti. Con la conseguenza di trasformare la Grecia nel cortile di una gigantesca prigione per oltre 45 mila profughi.

Il corridoio che portava in Europa si è chiuso a Idomeni, sui binari di una ferrovia dove oramai non passa più nessun treno e che sono tutt’ora sorvegliati, notte e giorno, da blindati e da plotoni di poliziotti in assetto antisommossa. Qui troviamo la grande tendopoli. Dodicimila persone secondo la stima più accreditata. Donne e bambini in netta maggioranza. Sono in prevalenza siriani, iracheni e curdi. Ma anche pakistani, pashtun e hazara, e ancora yazidi dai capelli chiari, armeni, turkmeni… Il Governo greco ha lasciato la gestione del campo a Medici Senza Frontiere e all’Unhcr e ha evitato di militarizzarlo. Con la conseguenza che non ci sono controlli e c’è un via vai continuo di gente che va e che viene. Alcune furgoni messi in campo da associazioni “filantropiche” – come si legge nei loro loghi – arabe provvedono alla distribuzione di pasti caldi. Ma c’è pure un mini mercatino – tre banchetti con 3 o 4 casse di verdure – per chi vuole provare a cucinare davanti alla sua tenda. Ci sono anche punti informativi realizzati da volontari greci. Una decina di ragazze bionde, tedesche e danesi, hanno organizzato un’area per l’infanzia. Trecento bambini fanno la fila davanti a due salterelli per un minuto a testa di felicità.

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La carovana #OverTheFortess entra nel campo il pomeriggio di pasqua e comincia subito a dispensare i materiali. Vestiti pesanti che in Macedonia tira ancora freddo e, soprattutto, scarpe così indispensabili a persone che tanto hanno camminato e tanto dovranno ancora camminare. “Se qui non ci fanno passare andremo in Albania”, mi racconta una signora in fuga con i suoi due figli da una Aleppo che oramai non c’è più. “Ho qualche risparmio e vedremo di trovare un passaggio da qualche scafista. I vostri governanti non capiscono che chiudendo un confine non ottengono altro che di farci soffrire un po’ di più e spendere anche quel poco di denaro che ci è rimasto. Indietro non possiamo più tornare oramai. Non abbiamo lasciato niente se non guerra e terrore”.

Il patto infame che l’Unione Europea ha stipulato con il Governo turco – e che trasforma un feroce dittatore come Erdogan in un giudice supremo, atto a decide quale sia il profugo meritevole di venir inviato in Europa e quale da ricacciare nella guerra – ha avuto come primo effetto la definitiva chiusura del confine con la Macedonia. Per i profughi di Idomeni non c’è più speranza che quelle sbarre che interrompono il filo spinato si alzino. Il Governo greco preme per sgomberare il campo e spostare le famiglie nei famigerati hotspot, già denunciati da tutte le associazione per i diritti, o in campi vicini gestiti da varie onlus.

Per questo, le autorità non vedono di buon occhio chi va a portare aiuti ai profughi che ancora resistono. Il lunedì di pasqua, quando le ragazze e i ragazzi di #OverTheFortess tornano al campo per la seconda distribuzione, trovano un cordone di polizia in assetto antisommossa ad attenderli.

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Per quasi cinque ore, gli attivisti tengono duro e si rifiutano di fare marcia indietro. Si siedono davanti agli scudi dei poliziotti, col materiale che intendono distribuire in mano. Comincia a piovere ma nessuno si muove. Sono le 14 passate quando la polizia cede, e abbandona il campo.

“Eravamo determinati a restare là sino a notte. Non potevamo tornare in Italia con tutte le medicine e il materiale che la gente ha portato nei nostri centro sociali perché noi le consegnassimo ai profughi”, commenta Antonio Pio Lancellotti di Global Project. “Ritengo comunque vergognoso che le autorità impediscano a dei volontari portare aiuti a chi ha ne tanto bisogno. Oramai in Europa è diventato illegale fare le cose giuste. Proprio come ai tempi dei nazisti era vietato aiutare i rom o gli ebrei”.

L’ingresso al campo delle ragazze e dei ragazzi con le pettorine arancioni con la scritta #OverTheFortess è una festa per tutti. La polizia gli ha fatto perdere la mattinata e la distribuzione va avanti sino a notte fonda. La gente in fila cerca qualche capo di vestiario caldo ma anche qualcuno cui raccontare la loro storia.

“Grazie per le scarpe. Un grazie più grande per essere venuti sin qui. Adesso so che dall’altra parte del muro c’è qualcuno che non mi odia, my friend” mi dice un signore anziano in un inglese migliore del mio.

Cominciano anche i lavori per la sistemazione di un punto di ricarica dei cellulari e di una wifi gratuita che si concluderanno due giorni dopo, grazie ad un gruppo di attivisti che ha deciso di fermarsi nel campo e continuare la staffetta solidale. “Non molleremo come non abbiamo mollato questa mattina”, mi spiega Chiara B., una ragazza di Venezia che fa parte del collettivo Asc (assemblea sociale per la casa) che gestisce un nutrito numero di occupazioni in centro storico e nell’isola della Giudecca. “Sino a che ci saranno confini, ci vorrà qualcuno che abbatte i muri. Sino a che saranno violati i diritti dei profughi, ci vorrà qualcuno che si batta per i loro diritti. Che sono poi i diritti di tutti”.

Ripenso a quanto scriveva don Milani. “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.

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Saliamo negli autobus che è notte. Davanti alle tende i profughi accendono grandi falò per allontanare il gelo.

Domando a Chiara perché non se li porta tutti a casa sua. “Magari potessi! Tutti a Venezia li vorrei. Sai quante belle occupazioni riusciremmo ad organizzare?”


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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