Zaman, dalla guerra in Libia alla morsa di ‘ndrangheta e speculazione

di Marco Marano

Si chiama Zaman Abdullah, ha 29 anni ed è nato a Lahore, in Pakistan. La sua è una storia del nostro tempo, che riguarda i processi migratori legati alle fughe da guerre e vessazioni. Ha vissuto la prima grande ondata di esodi nel Mediterraneo, dopo le primavere arabe, quella che in Italia fu denominata Emergenza Nord Africa (ENA) e che riguardava le persone fuggite dalla Libia in seguito alla caduta di Gheddafi. Abbiamo incontrato Zaman a Reggio Emilia, presso l’ex Magazzino Formaggi, un edificio in disuso di proprietà dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero, occupato due anni or sono da una rete di attivisti il cui fulcro è l’Associazione Città Migrante. Lì è stata creata una piccola comunità di rifugiati, usciti proprio dal programma ENA.

In effetti sul territorio reggiano esiste una rete solidale ormai consolidata, dove ogni organizzazione svolge una sua funzione sociale differenziata. C’è il Laboratorio AQ16, centro sociale storico; Casa Bettola, un mercato di prodotti agricoli freschi e biologici, nonché luogo di ristorazione e socializzazione. E poi c’è Arsave dove confluiscono queste realtà insieme ad altre. “È un invito alla partecipazione politica dal basso”, spiegano i promotori. “Un laboratorio di teoria e pratica in cui sperimentare percorsi di pensiero e forme di lotta per determinare insieme lo sviluppo della città e costruire esperienze di mutualismo nella crisi, ormai strutturale e sistemica. Di fronte all’idea dell’unica strada possibile vogliamo dimostrare che ci sono tante strade, e se le intrecciamo l’una con l’altra abbiamo la forza collettiva per costruire la città e la società che vogliamo”.

In una giornata uggiosa Zaman e Daniele Codeluppi, attivista del Laboratorio AQ16, ci portano a visitare l’ex Magazzino Formaggi occupato. Ci sembra di scoprire una comunità integrata; allo spazio abitativo si è aggiunta “RaggiResistenti”, la ciclofficina nel quale vengono riparate biciclette, dietro donazioni, che servono a pagare le spese del gas per cucinare e della legna per scaldarsi, ma anche per il disbrigo burocratico dei documenti. Un luogo, questo, sotto minaccia di sgombero da parte della curia, di cui vi abbiamo già raccontato in una precedente inchiesta. Una sorta di “clessidra delle ingiustizie”, mediante la quale, in un tempo definito, tutto quello che togli a chi non ha niente, a chi è perseguitato dai regimi o dalla vita, ritorna in termini di ricchezza indebita nelle mani di pochi gruppi sociali, riuniti in consorterie, lobby, comitati d’affari.

“Avevo 4 anni – racconta Zaman – quando con la mia famiglia mi sono trasferito in Libia: prima a Misurata, poi nel 2005 a Tripoli. Mio padre all’inizio riparava elettrodomestici, dopo abbiamo avviato un’attività di oreficeria: ci occupavamo prevalentemente di collane e orecchini. A Misurata, studiavo e lavoravo insieme. Una volta arrivato a Tripoli invece potei dedicarmi unicamente al lavoro”.

E che dire del diritto inalienabile di una casa dove abitare. Il problema della casa in una città come Reggio Emilia assume toni paradossali, visto che è il tema centrale di Aemilia, il più grande processo di mafia del nord Italia. È la storia di una scientifica e violenta speculazione edilizia, guidata dal clan Grande Aratri di Cutro, paese del crotonese, che in vent’anni ha visto un esodo di massa verso il reggiano. Una speculazione il cui apice è stato raggiunto con l’approvazione del nuovo piano regolatore della città, partorito alla fine degli anni novanta. Aree agricole trasformate in edificabili, zone di interesse pubblico riconvertite in residenziali, immissione nel circuito legale di denaro di provenienza illecita, ampi settori della borghesia produttiva, come spiega la relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia, lanciati verso capitalizzazioni economiche illegali, professionisti e manager in cerca di fatturazioni false garantite dai cutresi. Ma c’è di più: imprese che importavano operai dall’est Europa e dal nord Africa, mantenendoli in stato di clandestinità, sottopagati, ovviamente in nero (in tantissimi casi proprio non pagati), maltrattati e schiavizzati dai caporali. Sono questi i pilastri su cui si è sventarto il territorio di Reggio Emilia, mediante un’espansione edilizia che non corrispondeva ai bisogni abitativi.

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Da Reggio Emilia alla rovescia, un’analisi condotta dalla rete solidale, leggiamo: “Negli ultimi trent’anni il suolo abitativo è più che raddoppiato e nei primi 5 anni del piano regolatore del 1999 si è costruito il corrispondente numero di immobili sorti a Bologna in 10 anni. Molte di quelle case sono tutt’ora invendute perché edificate non per garantire il diritto all’abitare ma per tutelare profitti e interessi privati…” Anche perché dal 2008, quando è entrata di scena la crisi economica, molte di quelle imprese edilizie reggiano-cutresi sono fallite. “A Reggio Emilia – sottolinea Daniele Codeluppi – ci sono stabilmente circa 500 persone senza fissa dimora che dormono in giro per la città. Un centinaio di questi bivaccano in un ex capannone industriale in disuso, le Reggiane, un’area adiacente alla stazione, ed è proprio lì che abbiamo intercettato Zaman e gli altri che oggi vivono qui…”

“La vita in Libia era serena, – continua Zaman – mi sentivo come se fossi nel mio paese, anche perché avevo tanti amici libici, per quanto vivessi senza documenti. Da minorenne ero registrato nel passaporto di mia madre, dopo rimasi senza alcun tipo di certificazione di identità. Ma lì era un fatto comune, perché nessuno controllava, e tanti stranieri vivevano nella mia stessa situazione, anche se formalmente bisognava avere un visto di residenza.”

L’accoglienza dei rifugiati, in Italia, rientra in una sorta di cultura dell’emergenza, e le risorse che circolano tra pubblico e privato sociale non sono quasi mai funzionali ai principi di integrazione sul territorio o di coesione sociale, ma sono destinate ad alimentare le attività delle organizzazioni territoriali che diventano gestori. È insomma la storia delle terre di mezzo che in ogni città hanno specifiche declinazioni. Così la cultura dell’emergenza usa concetti che nella realtà non possono essere tradotti, come ad esempio quello della “transizione”. I programmi di accoglienza italiani, dallo Sprar in poi, si configurano come una fase di transizione, attraverso cui portare il rifugiato da una situazione di precarietà ad una di autonomia. Ma tutto questo diventa un bluff, poiché il sistema sociale italiano non è attrezzato a questo scopo. Non esistono infatti progetti di sviluppo territoriali, con agenzie dedicate, che possano indirizzare i talenti, le competenze, le abilità di cui sono portatori i rifugiati. Si pensi a come l’artigianato italiano in crisi di vocazione potrebbe rinascere con programmi di riqualificazione, investendo proprio su quelle abilità di cui sopra.

“Nel 2011, quando cadde Gheddafi, – ricorda Zaman – la situazione si complicò parecchio. Uscire per strada era impossibile, soprattutto per chi era straniero. C’erano tantissimi posti di blocco, i poliziotti erano alla continua ricerca di oppositori al regime. La gente sembrava impazzita… Hanno ucciso quattro amici miei senza motivo. Eravamo costretti a restare chiusi in casa, senza poter uscire. Ma avevamo paura anche restando dentro poiché sentivamo le urla che provenivano dalla strada.Però bisognava uscire per cercare almeno il cibo per mangiare. La mia famiglia era costituita da mio padre, mia madre, tre fratelli, una sorella, uno zio e le sue tre figlie. Ero io che avevo il compito di andare in giro per recuperare il cibo, perchè parlo l’arabo: in questa situazione siamo rimasti diversi mesi… Un giorno la polizia è entrata dentro casa, essendo orafi, avevamo molti materiali come oro e argento che facevamo arrivare dal Pakistan: i poliziotti hanno rubato tutto e ci hanno incendiato pure l’auto”.

Una delle storie che ci raccontano come le consorterie legate alle borghesie mafiose delle città deprivano i sistemi urbani, gestendo la circolazione delle risorse, è quella dell’AIER, associazione d’impenditori edili reggiani, tutti cutresi. Perché il saccheggio metropolitano è stato consumato senza spargimenti di sangue, come nelle migliori tradizioni mafiose. La cosca ha adottato il lobbismo come vettore di sviluppo degli affari sporchi. Ma in questa vicenda c’è un elemento in più. La nascita di questa operazione fu direttamente proporzionale alla campagna elettorale per le amministrative del 2009, che vide la rielezione di Graziano Delrio, attuale ministro delle infrastrutture. Lo scenario è quello di una città dove centinaia di appartamenti – edificati dai cutresi o dalle coop – sono invenduti, rappresentazione di un sistema imprenditoriale crollato. L’Aier nasce proprio per questo, per vendere l’invenduto dei cutresi al Comune, per poi essere riconvertito in edilizia popolare. È il maggio del 2010 e siamo alla vigilia delle elezioni. Colui che diventerà il gran maestro dell’operazione si chiama Antonio Rizzo, della Rizzo Group SpA, affiliata ad Unindustria.

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“La nostra famiglia – prosegue Zaman nel suo racconto – non poteva fare altro che andare via dalla Libia. In fretta e furia trovammo riparo in aeroporto dove dei funzionari recuperarono dei documenti di fortuna, per tornare in Pakistan. Io, mio zio e uno dei miei fratelli decidemmo di restare, gli altri partirono. Per un mese e mezzo lavorai da un amico pakistano come operaio in una impresa di ceramiche. Visto che non si poteva camminare per le strade, perché si rischiava la vita, dormivo sul posto di lavoro. Poi sono riuscito a recuperare dei soldi che degli amici mi dovevano e così mi sono pagato il viaggio in barca per me e i miei.”

I numeri di cui Antonio Rizzo si vanta di poter portare, durante l’inaugurazione dell’Aier, sono sconcertanti: 318 imprese già affiliate e altre 200 in arrivo. C’è da ricordare che il fratello Carlo era uno di quelli che nel 2005 era entrato nel pool di imprenditori che avevano acquisito la squadra di calcio Reggiana dopo il fallimento, operazione condotta dal sindaco Delrio appena eletto. Antonio Rizzo diventa l’ombra di Delrio, lo incontra spesso e volentieri, gli organizza il viaggio a Cutro in onore del Santissimo Crocifisso, acquista tre giorni prima delle elezioni una pagina del Sole 24 Ore dove campeggia una sua foto insieme al sindaco, con un messaggio in cui plaude al progetto bipartisan per l’acquisto di centinaia di appartamenti sfitti dei cutresi. Rizzo partecipa persino ad una manifestazione antimafia, per stare vicino al sindaco da eleggere, dichiarando che non tutti i cutresi sono ‘ndranghetisti. Delrio viene rieletto e l’anno dopo fa rispondere al suo assessore all’urbanistica che i soldi per questa operazione non ci sono. Ormai è destinato ad entrare nel giro nazionale della politica… l’affare sfuma. I principali associati verranno inquisiti nel processo Aemilia. Antonio Rizzo non viene sfiorato dalle inchieste: continua a dichiararsi contro la ‘ndrangheta. E gli appartamenti sono rimasti invenduti.

“Quando ci siamo imbarcati – continua Zaman – eravamo in 258 persone, il viaggio è durato 30 ore. Una situazione davvero difficile perché non si poteva né mangiare né bere, né fare i bisogni. In più mi veniva continuamente da vomitare. E pensare che in mezzo a noi c’era una donna incinta. Era una sensazione brutta perché ti sentivi malato, soprattutto quando la barca faceva su e giù e l’acqua entrava dentro, mi venivano continui brividi di freddo. Due notti e un giorno in cui era costante la sensazione di morire. Poi grazie ad una barca della Guardia costiera siamo arrivati a Lampedusa, dove siamo rimasti 7 giorni. Poi 15 giorni a Bari.”

Se una città come Reggio Emilia, come abbiamo visto, sprofonda in un buio antropologico, dove i diritti inalienabili vengono sacrificati agli interessi occulti, all’interno dei quali sembra ci sia una gara per entrarvi dentro, di quelli che un tempo venivano chiamati colletti bianchi, con i sistemi politici locali che “giocano sullo stesso tavolo” col miglior offerente, la vita di Zaman e di tutti gli altri, stranieri e non, che sono i soggetti fragili delle comunità urbane, quanto possono valere alla fiera dell’est? “Quando è nata l’associazione Città Migrante, intorno al 2007, – osserva Daniele – abbiamo iniziato delle vertenze sindacali spontanee, senza nessuna struttura organizzata alle spalle, cercando di difendere quei migranti sfruttati come schiavi dai caporali delle imprese di costruzione che edificavano a più non posso. Oggi un pezzo della nostra organizzazione è diventato ADL Cobas… In questi mesi abbiamo portato a termine la vertenza della Composad (Vidana, in provincia di Mantova, ndr) con un accordo siglato tra l’azienda, i lavoratori e la cooperativa Vidana Facchini. Abbiamo ottenuto garanzia occupazionale per tutti gli attuali addetti per almeno 24 mesi, anche in caso di cambio di appalto, applicazione piena ed integrale del CCNL, avvio di un confronto di secondo livello su questioni organizzative ed economiche aziendali… ” Adesso comprendiamo un pò meglio il significato di quelle parole del laboratorio Arsave. Perché questa è davvero una idea diversa di città.

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“A Reggio Emilia sono stato accolto presso il centro Papa Giovanni XXIII, nel programma ENA per un anno e otto mesi. Lì ho imparato l’italiano e dopo aver ricevuto la protezione umanitaria sono rimasto in mezzo ad una strada. Per quasi un mese ho vissuto alle Reggiane. Mio fratello e mio zio se ne sono andati in Germania ed io sono rimasto qui. Loro stanno bene, hanno un lavoro e una casa… Adesso sto prendendo la patente. Grazie ai ragazzi dell’Associazione sto facendo il mediatore con i richiedenti di Mare Nostrum, presso lo stesso centro dove anch’io sono transitato per la protezione internazionale. Mi occupo della ricostruzione delle storie per la Commissione territoriale di Bologna. Mi pagano con i Voucher.”

Ma ogni viaggio dentro le città italiane dove si erge la clessidra delle ingiustizie non può che concludersi con una chiave di lettura del nostro tempo: anche qui esiste la rimarcata differenza tra un “noi” e un “loro”. Noi donne e uomini occidentali assaliti da loro, invasori migranti, che ci espropriano della nostra identità di popolo.

“Io sono molto speranzoso per il mio futuro, e un giorno mi piacerebbe avere una famiglia. Non m’importa di avere una moglie musulmana, l’importante è che creda in una religione, perchè la religione dice che nel vivere è imporante aiutare gli altri…”


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