Libia, dopo il vertice di Vienna diversi interrogativi rimangono ancora sul terreno

di Alessandro Pagano Dritto – @paganodritto

 

Il vertice di Vienna del 16 maggio 2016 ha stabilito in via – parrebbe definitiva, ma comunque non ancora ufficiale – le richieste libiche per un coinvolgimento della comunità internazionale in chiave antiterroristica: invio di armi e addestranmento di truppe, ma niente presenza diretta sul suolo. Tuttavia, al di là degli annunci teorici, la pratica rimane ancora complessa sia per le persistenti divisioni interne alla Libia in ambito politico e militare sia per lo scetticismo con cui anche gli ambienti militari di Washington sembrano aver accolto le non ancora dettagliate richieste del Presidente Fayez Serraj.

 

Il 16 maggio 2016 si è tenuto a Vienna un vertice internazionale sulla Libia. A patrocinare la sessione i rappresentanti di due paesi, che alla sua conclusione ne hanno illustrato le conclusioni insieme al presidente del Consiglio Presidenziale e deputato Primo Ministro di Libia Fayez Serraj: il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per l’Italia e il Segretario di Stato John Kerry per gli Stati Uniti.

Come già era accaduto in dicembre a Roma, dunque, anche in questa nuova sessione austriaca la stessa Roma e Washington si sono proposte come i due fulcri nodali dell’asse internazionale di supporto al nuovo governo unitario di Tripoli, frutto dello sforzo attuato dalle Nazioni Unite per porre alla guerra in atto nel paese proprio dal maggio 2014.

[Per approfondire sul vertice di Roma: Cronache libiche, La situazione dopo Roma, 15 dicembre 2015]

 

A Vienna Fayez Serraj richiede l’invio di armi e l’addestramento di truppe.

Da tempo le Nazioni Unite hanno stabilito che nessun intervento può avere luogo in Libia se prima le autorità riconosciute tali non ne facciano esplicita richiesta, chiarendone anche la tipologia. Questo non è ancora avvenuto, anche se in un paio di occasioni – l’ultima delle quali a inizio mese durante un vertice della Lega Araba – Serraj aveva fatto trapelare qualche informazione in merito. In questa occasione, che pure ancora non costituisce una richiesta formale, Serraj è stato più esplicito e in una lettera aperta inviata addirittura il 15 maggio al Telegraph Serraj evidenziava così la richiesta di invii di armi e addestramenti con i quali si desiderava il coinvolgimento internazionale: «Stivali e navi straniere non sono la risposta», a segno che né un intervento via terra né uno via mare sarebbero graditi da Tripoli.

La richiesta è stata ovviamente confermata il giorno dopo a Vienna, anche se durante la conferenza stampa Serraj ha evitato di rispondere alla domanda di un giornalista che chiedeva maggiori dettagli circa l’invio di armi. In conferenza è stato John Kerry a evidenziare dunque la necessità di intercedere presso le Nazioni Unite perché sia alleggerito l’embargo in vigore sul paese fino al 2011, mentre Gentiloni ha speso qualche parola in favore di un coinvolgimento del Generale Khalifa Hafter, notoriamente diffidente verso il processo di mediazione delle Nazioni Unite e verso il suo risultato concreto rappresentato dal Consiglio Presidenziale: sarà comunque proprio l’organismo di Serraj a decidere in merito. C’è da dire che il comunicato finale del vertice condanna anche qualsiasi rifornimento di armi che non debba avvenire mediante il Consiglio presieduto da Serraj, il che potrebbe facilmente essere una sibillina allusione, non esplicita, al recente rifornimento di armi attuato, a quanto si riporta, dagli Emirati Arabi Uniti proprio a favore del Generale di Tobruk.

LEGGI ANCHE:   #viaggiadacasa 22 – Libia (con Nello Scavo)

Al di là della teoria stabilita a Vienna numerosi rimangono però i problemi della pratica sul terreno.

 

La questione dell’unità nazionale e militare.

Innanzi tutto la questione dell’unità. Nella sua lettera aperta Serraj si era spinto a dire che «non lo

Miliziano libico, immagine di repertorio. Dal 2011 le milizie costituiscono uno dei punti focali e non ancora risolti della situazione libica. Ora il Consiglio Presidenziale può contare su circa 4000 miliziani appartenenti all'ex coalizione a guida misuratina Libya Dawn. (Fonte: www.reuters.com, Ismail Zitouny)
Miliziano libico, immagine di repertorio. Dal 2011 le milizie costituiscono uno dei punti focali e non ancora risolti della situazione libica. Ora il Consiglio Presidenziale può contare su circa 4000 miliziani appartenenti all’ex coalizione a guida misuratina Libya Dawn. (Fonte: www.reuters.com, Ismail Zitouny)

Stato Islamico è il nostro più grande nemico, ma la Nazione divisa», riferendosi al fatto che proprio nell’ostilità allo Stato Islamico di Sirte, comune a tutte le maggiori parti in gioco, si insediava l’evidente divisione ancora esistente tra i nuovi attori di Tripoli e le autorità di Tobruk, che nel mese di maggio si sono mosse indipendentemente annunciando entrambe la battaglia contro le formazioni nere. Il 18 maggio, però, un’intervista rilasciata proprio dal Generale Khalifa Hafter all’emittente libico Libya’s Channel ha confermato in modo definitivo la difficoltà di raggiungere in tempi brevi l’unità. Pur dichiarando che il suo operato rimane al momento apolitico e quindi squisitamente militare, Hafter ha poi detto di non tenere in alcun conto né il governo Serraj, le cui decisioni e i cui ordini altro non sarebbero che inchiostro su carta, né l’inviato delle Nazioni Unite in Libia Martin Kobler, che il Generale aveva di fatti rifiutato di incontrare qualche settimana fa e il cui unico vertice comune, risalente al dicembre 2015, è stato definito come evanescente, privo di risultati concreti. Pochi giorni fa anche il Consigliere militare della United Nations’ Supporting Mission in Libya (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL), l’italiano Paolo Serra, era stato costretto ad allontanarsi dalla città che rappresenta la maggiore alleata di Hafter nell’ovest libico, Zintan, dopo alcune proteste sviluppatesi al suo indirizzo e da allora Kobler ha incontrato una serie di rappresentanti politici provenienti da quella stessa città, in tutta probabilità nel tentativo di ricomporre la frattura.

Oltre poi alla frattura resa evidente da queste ultime dichiarazioni del Generale, bisogna anche ricordare che a Tripoli rimane ancora un certo numero di milizie che, benché al momento apparentemente silenti su larga scala, non ha accettato di riunirsi sotto l’egida delle Nazioni Unite e del Consiglio Presidenziale: intervistato ad aprile da Fausto Biloslavo di Panorama, lo stesso Paolo Serra quantificava in circa 2000 questi miliziani, mentre più o meno il doppio avrebbe accettato di costituire l’apparato militare del Consiglio unitario.

 

La questione politica: permane la divisione tra Ovest e Est.

[Per approfondire sul rapporto tra HOR e comunità internazionale: Cronache libiche, Il parlamento tra pressione internazionale e legittimità interna, 25 aprile 2016]

LEGGI ANCHE:   Non solo xenofobia: a Roma c’è un posto dove i rifugiati si sentono a casa

Anche dal punto di vista politico, naturalmente, non esiste unità. E qui la questione rimanda sempre al mancato voto della House of Representatives (Casa dei Rappresentanti, HOR), il parlamento orientale che, nonostante la presenza di un centinaio di deputati che in due occasioni si sono dichiarati favorevoli a Serraj e a riconoscerne le strutture come esecutivo legittimo, non si è ancora ufficialmente espresso sulla questione come richiesto dallo stesso testo degli accordi di Skhirat del dicembre 2015, accordi dai quali l’esistenza stessa del Consiglio Presidenziale oggi a Tripoli trae per altro legittimità. La stampa libica riporta che il presidente del parlamento Ageela Saleh, fresco di consultazioni al Cairo, avrebbe chiesto a tutti i componenti del Consiglio Presidenziale di presiedere alla riunione di voto, ma gli elementi più filotripolini dell’organismo non sarebbero propensi a recarsi all’Est nonostante la minaccia, in tal caso, di disconoscimento.

I rapporti tra la HOR e il Consiglio di Tripoli rimangono dunque tesi: Serraj ha chiesto, come primo atto dopo il vertice di Vienna, che i proposti ministri prendessero possesso dei rispettivi ministeri.

Tra l’altro Ageela Saleh è stata la seconda personalità politica libica a essere sanzionata da Washington dopo il Primo Ministro tripolino Khalifa Ghwail: manovra, questa delle sanzioni unilaterali, recentemente criticata dalla Russia. Rimane invece indicativo di un atteggiamento più prudente che la figura più divisiva dell’intero panorama libico, quella cioè del Generale Hafter, centrale in questa seconda guerra, sia rimasta priva di sanzioni su scala internazionale. Eppure anche Hafter, come Saleh, si è dimostrato nettamente contrario a un riavvicinamento con il Consiglio presieduto da Serraj.

 

La questione delle armi: da chi a chi?

Relativamente inedita è invece la questione delle armi richieste da Serraj a Vienna; anche questa

Il Generale David Rodriguez dell'US African Command. Negli ambienti di Washington Rodriguez è stato il primo, all'indomani del vertice di Vienna, ad esprimere perplessità sull'invio di armi a Tripoli e a ipotizzare un eventuale invio di sole armi leggere. (Fonte: www.voanews.com)
Il Generale David Rodriguez dell’US African Command. Negli ambienti di Washington Rodriguez è stato il primo, all’indomani del vertice di Vienna, ad esprimere perplessità sull’invio di armi a Tripoli e a ipotizzare un eventuale invio di sole armi leggere. (Fonte: www.voanews.com)

però, al di là degli annunci, non sembra né di facile né di immediata soluzione. Si è già detto che in conferenza stampa John Kerry si è fatto garante dell’alleggerimento dell’embargo a favore del Consiglio Presidenziale – o meglio, come ha subito dopo sottolineato Gentiloni, dell’attuazione di una possibilità già prevista dall’embargo stesso, quella di inviare armi a fine antiterroristico – ma Serraj non ha rivelato in merito nessun dettaglio, dichiarando solo che una lista – dettagliata, se ne deduce, delle unità preposte per il ricevimento – sarà presentata a breve alle Nazioni Unite; le quali poi, a loro volta, valuteranno la richiesta e stabiliranno come effettuarla.

Non si sa quindi ancora precisamente né a chi andranno queste armi, né quali armi richiederà Serraj al momento di avanzare una proposta formale, né chi le fornirà per via delle Nazioni Unite.

Di fatto però i primi pareri perplessi in merito sono arrivati prorpio dal settore militare statunitense: in particolare dal Generale David Rodriguez che, a comando dell’US Africa Command di stanza a Stuttgard, Germania, ha fatto intendere che dire di conoscere così bene e in modo indipendente la situazione sul terreno libico da inviare armi è in qualche modo prematuro. Inoltre un confronto tra le dichiarazioni dello stesso Generale di Washington e quelle del vicepresidente di Serraj Mussa al Koni non può che rivelare una certa discrepanza di pareri: mentre al Koni ha dichiarato alla Agence France Press «vogliamo acquistare ogni sorta di armamento, ma la nostra priorità è l’aviazione» – per altro posseduta e ampiamente utilizzata, invece, da Hafter – Rodriguez ha detto che i libici non necessiterebbero di grandi quantitativi di armi e che «la cosa di cui hanno più bisogno sono in realtà munizioni e armi leggere, non aviazione da combattimento o cose del genere».

LEGGI ANCHE:   Roma, induisti e musulmani uniti contro le violenze settarie in Bangladesh

Naturalmente a questo punto della situazione nessuna di queste dichiarazioni può essere considerata esaustiva nell’illustrare il comportamento sia di Tripoli che di Washington, ma di certo può in una qualche misura indicarne l’atteggiamento e il livello di prudenza.

Dal canto suo la Russia ha ancora una volta rivelato la sua vicinanza implicita anche alle autorità di Tobruk asserendo che qualsiasi invio di armi alla Libia potrà avvenire solo dopo il voto di fiducia del parlamento.

 

La questione italiana.

Un nuovo quesito potrebbe anche rimandare alla questione dell’Italia, che secondo quanto riportava già prima della seduta di Vienna Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera, potrebbe aver rinunciato almeno per il momento – e su consiglio dell’intelligence e degli ambienti militari – a una sua presenza in Libia che vada al di là delle possibili, se non già presenti, missioni speciali per concentrarsi invece sull’invio di aiuti umanitari.

Il 17 maggio il proposto Ministro degli Esteri, di nuovo indicato come Ministro nel comunicato ufficiale di Roma, si è recato in visita nella Capitale italiana e ha segnato una dichiarazione congiunta con l’omologo Paolo Gentiloni sul «rafforzamento – si legge  – dei rapporti bilaterali».

 

Immagine di copertina: da sinistra, il Presidente libico Fayez Serraj, il Segreatrio di Stato statunitense John Kerry e il Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni durante la conferenza stampa al termine del vertice di Vienna sulla Libia, il 16 maggio 2016. Come già a Roma lo scorso dicembre, anche questa volta Italia e Stati Uniti si sono rivelati i maggiori sponsor del Consiglio Presidenziale libico e, in generale, della mediazione delle Nazioni Unite nel paese. (Fonte: www.flickr.com)


Profilo dell'autore

Alessandro Pagano Dritto
Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.

1 Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.