Muhammad Ali, alla ricerca dell’uomo dietro al mito

Martire o traditore, spaccone antisportivo o speranza delle masse, musulmano icona dei diritti dei neri o fanatico anti-integrazione, avido o generoso, odiato e amato: ritratto dell’uomo dietro alla più grande leggenda nella storia dello sport mondiale

di Ellis Cashmore

Il 2 ottobre del 1980, Muhammad Ali, 38enne, e Larry Holmes, campione mondiale dei pesi massimi, entrarono in un’arena temporanea costruita presso il Caesar’s Palace di Las Vegas. Un pubblico di quasi 25.000 persone aveva pagato 5.766.125 dollari, un record per quei giorni. “Non è stata una lotta; è stata una esecuzione”, scrisse il biografo di Ali, Thomas Hauser. Dopo dieci giri disgustosamente unilaterali, l’allenatore di Ali, Angelo Dundee ne chiese il ritiro. L’aiutante e confidente di Ali, Bundini Brown supplicò: “Un altro giro”. Ma, Dundee gli urlò: “Vaffanculo! No! La partita è finita”.

In un certo senso, aveva ragione: il gioco era effettivamente finito. Ali avrebbe combattuto solo un’altra volta. Da molti anni la sua salute andava peggiorando, ben prima che la lotta con il mal consigliato Holmes e il feroce attacco che subì fu respinto anche dai suoi critici più severi. Ali il “temibile guerriero”, come lo chiama Hauser, sarebbe scomparso, sostituito da un “monarca benevolo e, infine, da una figura venerata benigna”. E ora quella figura venerata è morta, all’età di 74 anni.

Muhammad Ali è stato anche un simbolo della protesta nera, un pezzo importante del movimento anti-Vietnam, un martire (o traditore, a seconda del proprio punto di vista), uno spaccone, e molte altre cose. Sebbene ci siano state molte icone sportive, nessuna può essere paragonata ad Ali in termini di complessità, di dotazione e di pura potenza. Jeffrey Sammons suggerisce: “Forse nessun singolo individuo ha incarnato l’etica della protesta e si è intersecato con così tante vite, ordinarie e straordinarie”.

Nato in due nazioni

Nato a Louisville, Kentucky, nel sud segregato, Cassius Clay, come è stato battezzato, è diventato consapevole forzatamente dell’America a “due nazioni”. Una nera, una bianca. Tornando a casa dopo aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960, in un ristorante si rifiutarono di servirlo. Furono questo tipo di incidenti a influenzare i suoi impegni successivi.

Clay affascinò e fece infuriare il suo pubblico con affermazioni oltraggiose sull’essere il più grande pugile di tutti i tempi, il suo sminuire gli avversari, la sua poesia e la sua abitudine di predire (spesso con precisione) il round in cui le sue lotte sarebbero finite. “E’ difficile essere modesti quando si è così grandi come lo sono io”, sottolineava.

Battè Sonny Liston per il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1964 e facilmente lo congedò nella rivincita. Tra le due lotte, proclamò il cambio di nome in Muhammad Ali, come evidenza della sua conversione all’Islam. Quando rese pubblica la sua appartenenza alla Nation of Islam (NoI), noti anche come  Black Muslims, a ridosso del primo incontro con Liston, pochi ne capirono le implicazioni. Il NoI era guidato da Elijah Muhammad e aveva tra i suoi più famosi seguaci Malcolm X, che ebbe rapporti con Ali e che sarebbe stato assassinato nel 1965.

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Tra i principi della Nol c’era la convinzione che i bianchi erano intenti a tenere la gente nera in uno stato di sottomissione e che l’integrazione non solo era impossibile, ma indesiderabile. Neri e bianchi avrebbero dovuto vivere separatamente; preferibilmente vivere in stati diversi. Una visione in netto contrasto con l’ideale del melting pot nordamericano.

L’impegno di Ali divenne sempre più profondo e i media, che in precedenza avevano apprezzato le sue stravaganze, si rivoltarono contro di lui. Ci fu una frattura tra Ali e Joe Louis, l’ex campione dei pesi massimi che una volta era stato descritto come “un credito per la sua razza”. Ciò presagiva molti altri conflitti con altri pugili neri, che secondo Ali si erano fatti assimilare all’America bianca e avevano fallito nel dimostrare di essere veri neri.

Pungere come un’ape

Gli eventi che seguirono al richiamo militare del febbraio 1966 furono caratterizzati da uno sfondo di crescente resistenza al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam. La nota frase di Ali “Non ho nulla contro i Vietcong” fece notizia in tutto il mondo. Insisteva dicendo che la sua coscienza e non la codardia avevano guidato la sua decisione di non arruolarsi nelle forze armate e, così, per tanti, divenne un potente simbolo del pacifismo. Per altri era solo l’ennesimo renitente alla leva.

Al nadir della sua popolarità, combattè contro Ernie Terrell, che, come Patterson, si ostinava a chiamarlo “Clay.” La lotta di Houston aveva un sottotesto cupo, con Ali che si faceva costantemente beffa di Terrell. “Qual è il mio nome, zio Tom?», chiedeva Ali a Terrell mentre amministrava in maniera insensibile il pestaggio. Ali prolungò il tormento fino al 14° round. Le reazioni dei media al match furono totalmente negative. Jimmy Cannon, un noto scrittore di boxe, di quel giorno ha scritto:

È stato un match cattivo, brutto con il male del fanatismo religioso. Questa non è stata una gara sportiva. È stata una sorta di linciaggio… [Ali] è un propagandista vizioso per una folla dispettosa funzionale al mondo religioso sotterraneo.

Il rifiuto di arruolarsi ha comportato per Ali una battaglia legale di cinque anni, durante i quali è stato privato del suo titolo. Durante il suo esilio, Ali fece arrabbiare il NoI annunciando il suo desiderio di tornare alla boxe se questo fosse stato possibile. Elijah, capo supremo, disse che Ali stava giocando “i giochi della civiltà dell’uomo bianco”.

Dal mondo dello sport intanto arrivarono altri attestati di stima. Le sue proteste ispirarono John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, in combinazione al fatto che il movimento anti-apartheid del Sud Africa aveva messo in chiaro che lo sport avrebbe potuto essere utilizzato per fare da cassa di risonanza per le vicende delle persone di colore in tutto il mondo. Mentre Ali era una bête noire per molti bianchi e per molti neri, diversi leader dei diritti civili e personaggi di sport e spettacolo presero pubblicamente la sua difesa. Lo salutarono come il loro campione.

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Con il crescente rispetto che gli fu concesso iniziò a venir visto come una figura influente. Le mosse di Ali furono monitorate da parte delle organizzazioni di intelligence del governo; le sue conversazioni telefoniche erano sotto controllo. Ma l’umore dei tempi stava cambiando: stava diventando ampiamente considerato come un martire dall’allora formidabile movimento contro la guerra e praticamente da tutti coloro che sentivano affinità con i diritti civili.

Finiti i suoi anni di esilio, tornò alla boxe. Ma la prospettiva di una transizione graduale di nuovo verso il titolo fu tratteggiata nel marzo 1971 da Joe Frazier, che aveva preso il titolo in assenza di Ali e che lo difese con una tenacia inaspettata in una gara che diede inizio a una delle rivalità più virulenti nella storia dello sport. Ali aveva chiamato Frazier “campione per l’uomo bianco” e aveva dichiarato: “Ogni uomo nero che sostiene Joe Frazier è un traditore”. Ali perso una sola volta con Frazier e battendolo in due occasioni nel corso degli anni successivi. Ognuno di questi match fu combattuto aspramente.

Ali dovette attendere fino al 1974 prima di ottenere un’altra possibilità di ottenere il titolo mondiale. In quel momento, Ali, 32 anni, non era favorito; e in effetti erano in molti a temere per il suo benessere contro George Foreman, fino ad allora imbattuto. L’incontro in Zaire venne immortalato come “The Rumble in the Jungle” e Ali riemerse come campione.

Nel giugno del 1979, Ali annunciò il suo ritiro. Aveva 37 anni e la sua uscita dal mondo della boxe apparse elegante. Si trasferì a Los Angeles con la sua terza moglie Veronica, che aveva sposato due anni prima. Il suo primo matrimonio era durato meno di un anno e terminato nel 1966; Ali si era risposato di nuovo nel 1967, ancora una volta nel 1977 e infine nel 1986 con la sua attuale moglie Yolanda Williams.

Hauser stimò che i guadagni della carriera di Ali nel 1979 corrispondessero a “decine di milioni di dollari”. Eppure, quando si ritirò, Ali non era ricco.

A 15 mesi dal suo ritiro era tornato sul ring, con la motivazione principale dei soldi. Aveva fatto diversi investimenti aziendali fallimentari e sebbene prolungare la sua carriera sportiva sembrava un’azione suicida, organizzò un’ultimo incontro, ancora una volta terminato con una sconfitta. Aveva 39 e aveva combattuto 61 volte.

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Nel 1984 deluse i suoi sostenitori quando sostenne nominalmente la rielezione di Ronald Reagan. Appoggiò anche George Bush nel 1988. Le politiche del Partito Repubblicano sono sempre state ampiamente considerate dannose per gli interessi degli afro-americani e le azioni di Ali sono state, per molti, equivalenti ad un tradimento.

Le apparizioni pubbliche di Ali diedero concretezza alle storie sulla sua cattiva salute. Nel 1987 fu oggetto di un grande interesse medico. L’eloquio farfugliante e i movimenti del corpo scoordinati diedero luogo a diverse teorie circa la sua condizione, e infine si venne a sapere che era affetto dal morbo di Parkinson. Le sue apparizioni pubbliche furono sempre più sporadiche e divenne la “figura venerata benigna” di Hauser.

In cinque anni, Ali suscitò una varietà di reazioni: ammirazione e rispetto, ma anche condanna. In diversi punti della sua vita, segnò l’adulazione dei giovani impegnati per la pace, i diritti civili e potere nero; e la rabbia di coloro che portavano avanti l’integrazione sociale.

Ali si impegnò nelle questioni centrali che preoccupavano l’America: la razza e la guerra. Ma sarebbe sciatto considerarlo simbolo di guarigione sociale; gran parte della sua missione era esporre e, forse, rendere più profonde le divisioni. Ha predicato la pace ma si è allineato con un movimento che ha sancito la separazione razziale e la subordinazione delle donne. Ha accettato un ruolo con l’amministrazione democratica liberale di Jimmy Carter, ma poi si è schierato con i reazionari Reagan e Bush. Ha sostenuto l’orgoglio nero, ma denigrato e disumanizzato i compagni neri. Ha insegnato l’importanza dell’autodeterminazione, ma si è lasciato risucchiare in tante occasioni da business dubbi che l’hanno costretto a prolungare la sua carriera fino al punto di cancellare la sua dignità. Come ogni simbolo eminente, aveva contraddizioni molto umane.


Articolo tradotto su gentile concessione di:

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