La linea verde dietro il muro

Intervista di Riccardo Bottazzo

Immaginate un extraterrestre. Immaginate che attraversi gli spazi siderali sulla sua lucente astronave per atterrare nella spianata del Tempio, scansando contraeree, missili e mitragliate varie da parte dell’esercito meglio armato del mondo. Immaginate che il nostro alieno esca dalla sua astronave e se ne vada a spasso per Gerusalemme chiedendo alla gente: “Scusate, come faccio a distinguere i palestinesi dagli israeliani, considerato che per me siete tutti terrestri: tutti ugualmente brutti, privi di antenne e tentacoli?”

Ebbene, voi cosa rispondereste?

Amira Hass, giornalista e scrittrice ebrea ed israeliana che ha scelto di vivere a Ramallah per raccontare al mondo quanto avviene in Palestina, non ha dubbi. “Gli risponderei di guardare i tetti delle case per controllare se ci sono serbatoi. E poi il verde. Gli direi di osservare se attorno alle case c’è del verde”.

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Amira Hass a Venezia

Abbiamo incontrato Amira a Venezia, in una sala messa a disposizione dalla municipalità del centro storico perché l’attuale sindaco della città lagunare, Luigi “Gigio” Brugnaro, uno di quelli che non è né di destra né di sinistra, non vuol sentire discorsi che non abbiano dentro la parola “schei”. O, al più, il termine “sicurezza”. Appuntamento lunedì sera, 19 settembre, a 33 anni esatti dal massacro di Sabra e Chatila, nella grande sala San Leonardo, a tre passi dall’antico Ghetto ebraico che ha dato il nome a tutti i ghetti del mondo. A differenza del loro sindaco, i veneziani hanno accolto Amira Hass regalandole una grande partecipazione di pubblico: perlomeno duecento persone presenti. E dopo l’incontro, organizzato dal coordinamento cittadino per il Medio Oriente e dal forum per l’Acqua, Amira si è intrattenuta con i giornalisti e con le attiviste e gli attivisti di Ya Basta che stanno organizzando una carovana verso l’altra sponda del Mediterraneo, così come hanno già fatto per il Kurdistan, il Messico zapatista e tante altre realtà in lotta.

“Sto pensando di scrivere un libro per descrivere quanto accade in Palestina come se mi rivolgessi ad un alieno venuto dallo spazio che ignora tutto quanto accaduto sulla terra. E comincerei il mio racconto partendo dall’acqua. All’extraterrestre che vuole imparare a distinguere israeliani e palestinesi suggerirei di guardare sopra i tetti delle case per vedere se ci sono le grandi taniche nere che fungono da serbatoio per l’acqua. Se ci sono, la casa è di una famiglia palestinese. Nelle case degli israeliani non servono, perché l’acqua esce regolarmente dal rubinetto. Io, che vivo a Ramallah, in Cisgiordania, so bene che perlomeno due o tre volte alla settimana il rifornimento idrico viene interrotto. E allora bisogna ricorrere ai serbatoi. E bisogna stare sempre attenti agli sprechi. Una casa palestinese non può permettersi di avere vegetazione intorno. Se vedete del verde attorno ad una abitazione, là vive un israeliano”.


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Un problema dovuto alla scarsità di materia prima oppure una imposizione politica?

“C’è un tetto massimo alla quantità di acqua che può essere distribuita ai palestinesi. E questo limite lo stabilisce ovviamente Israele. All’autorità palestinese spetta solo il compito di decidere come, quando e dove distribuire l’acqua concessa. Ma la coperta è sempre corta per le lunghe e torride estati di Ramallah. Non ne possiamo certo sprecare per l’orto o il giardinaggio. Al contrario, agli israeliani l’acqua non manca mai. Non è soltanto una cortina di cemento armato che ci separa. Se guardate oltre il muro, verso Israele, si snoda anche una lunga linea verde”.

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Eppure prima dell’occupazione, la Palestina era descritta come una terra fertile e verde…

“lo è ancora, ma solo per gli israeliani. E questo perché l’acqua la rubano ai palestinesi. Nella sola valle del Giordano, che era il granaio della Palestina, ci sono 28 pozzi che estraggono 30 milioni di metri cubi d’acqua per soddisfare i bisogni di appena 10 mila coloni. Ai 2 milioni e 400 mila palestinesi, spettano solo 109 milioni di metri cubi. Appena quattro volte quanto concesso ai soli coloni. Quello che era un giardino si è trasformato in un deserto. Capita di vedere tribù beduine accampate sotto le tubature idriche alle quali non hanno accesso, costrette a recarsi nelle colonie per acquistare l’acqua che gli viene rivenduta ad un prezzo maggiorato 3 o 4 volte. Prima del ’67, i palestinesi avevano pozzi, condutture, impianti di depurazione e un sistema idrico completo. Israele si è preso tutto. Oggi non c’è neppure l’acqua per coltivare un piccolo campo. L’agricoltura è morta, la gente sopravvive a stento ed è costretta a comperare gli alimenti dai coloni. Molti hanno rinunciato a coltivare la terra e cercano lavoro come operai. Ma, per lo più, rimangono disoccupati”.

Non è possibile scavare altri pozzi?

“Non è che non sia possibile, non è consentito. E questo è un effetto degli accordi di Oslo. Accordi che dovevano essere provvisori ma che sono stati fatti diventare definitivi. I palestinesi non possono scavare pozzi di loro iniziativa. O meglio. Possono scavarli, ma solo fino a 200 metri, mentre Israele non ha limiti di sorta, e soltanto in alcune aree ad ovest del Paese. Proprio dove acqua non ce n’è o ce n’è poca, perché in quella zona le falde sono impoverite dai prelievi indiscriminati compiuti dagli israeliani. Sempre per gli accordi di Oslo, ai palestinesi non è concesso sistemare tubature per portare l’acqua nei posti dove non c’è. Per realizzare un sistema idrico, c’è bisogno del permesso del Governo israeliano che, come è da prevedersi, non lo concede mai. E non crediamo che tutta quest’acqua che rubano sia necessaria alla sopravvivenza di Israele! Questo furto, nella loro logica, è solo uno strumento politico per frammentare i palestinesi ed indebolire l’autorità palestinese, i cui rappresentanti sono ricattabili e sempre costretti a mendicare qualche goccia d’acqua in più per sopravvivere”.

Questa emergenza idrica…

“Non la chiamerei emergenza, considerato che è così da 50 anni. Piuttosto: scandalo”.

Volevo chiedere, considerato che la propaganda israeliana fa un gran vantarsi di riuscire a far fiorire i deserti, se le Colonie non abbiano mai sofferto di mancanza di approvvigionamenti idrici.

“Ogni anno, come saprà, io scrivo sul tema dell’acqua. E ogni volta i coloni mi contestano, arrabbiatissimi, dicendo che anche loro non hanno acqua e che sono tutti nella stessa barca. Così, per documentarmi come giornalista, ogni volta pongo domande scomode al governo israeliano e mi reco in visita alle colonie. Ed ogni volta mi tocca sorbirmi la stessa messa in scena. Mi assicurano che l’acqua manca a tutti, che i palestinesi la rubano, che i palestinesi mentono affermando di essere più di quelli che sono per avere più acqua. Sono tutte bugie. I numeri dei palestinesi presenti sono quelli stabiliti nei conteggi della Banca Mondiale che, su queste cose, non mente. E’ vero che alcuni palestinesi rubano l’acqua, allacciandosi abusivamente alle condutture, e l’autorità ha posto multe molto salate per chi lo fa, ma l’acqua che rubano, casomai, è solo quella che Israele ha già venduto ai palestinesi. D’altronde, basta guardare il verde. Tutta quell’acqua che i coloni possono permettersi di adoperare per l’agricoltura e che, tra l’altro, non viene neppure conteggiata dal Governo israeliano come rifornimento idrico alla colonia. La verità sta nel paradosso che non solo Israele ruba l’acqua ai palestinesi, ma poi li costringe pure ad acquistare il maltolto”.

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Quindi Israele mente anche in tema di acqua?

“Di più. Israele mente soprattutto sulla questione dell’acqua. Più ancora che nelle detenzioni di prigionieri politici, negli abusi ai check point, negli assassini di oppositori… la questione è che sul tema dell’acqua non possono tirare in ballo la scusa della sicurezza. Qui non si sono statistiche che possono essere manipolate. La faccenda è chiara a tutti coloro che abbiano nel cuore un ideale di giustizia. Stanno compiendo un vero e proprio furto che, oltre a tutto, viola tutti gli accordi internazionali. Perché un Paese occupante non può rubare le risorse ad un Paese occupato. Eppure Israele lo fa da 50 anni nell’indifferenza di tutti. L”acqua è un esempio evidente e inequivocabile di come Israele voglia risolvere il ‘problema’ della presenza palestinese”.

Abbiamo detto della Cisgiordania. Come invece è la situazione a Gaza?

“A Gaza c’è una falda acquifera che corre lungo la costa. Partiamo dai numeri. Oggi nella Striscia ci sono circa un milione e 800 mila palestinesi. Nel ’47 ce n’erano 70 mila, nel ’51, 270 mila. L’acqua che bastava una volta ora non può più bastare. Per soddisfare i bisogni della gente, la falda è stata impoverita, estraendo più acqua di quanta se ne riformasse. Il risultato è che si è mescolata acqua salata. Oggi, tutti i bambini di Gaza sanno che non si deve bere quello che esce dal rubinetto. E non soltanto, anche delle acque reflue sono entrate in falda, con la conseguenza che l’acqua è oleosa, oltre che salata, e non va bene neppure per lavarsi. Certo si potrebbe convogliare con una tubatura l’acqua della Cisgiordania, che è pulita, ma gli accordi di Oslo hanno deciso che Gaza e la West Bank sono entità separate ed Israele vieta qualsiasi collegamento tra le due realtà”.

Lei parla di furto, a me viene un mente una rapina a mano armata con truffa finale. E con l’aggiunta della benedizione da parte della comunità internazionale.

“Già. Io ho vissuto alcuni anni a Salfit, in Cisgiordania. La città galleggia letteralmente sopra una falda acquifera cui si potrebbe accedere scavando solo per pochi metri di profondità. Un tempo era una città verde, ricca di giardini, di orti e di coltivazioni. Oggi è una delle città più penalizzate da punto di vista idrico, forse per il ruolo che ha avuto durante la prima intifada. Salfit la Libera, la chiamano i palestinesi. I suoi cittadini vivono sopra un lago. Eppure, per molti mesi all’anno, dal rubinetto non esce una goccia d’acqua. E quella che esce non ti permette neppure di coltivare un cespuglio di menta. L’acqua viene pompata via dai pozzi israeliani. E poi, proprio dagli israeliani, la gente di Palestina è costretta a comperarla, e al loro prezzo, se vuole vivere”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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