Alla scoperta del teatro dell’oppresso

di Marina Mazzolani

Conosco Roberto Mazzini da trent’anni (o giù di lì) e so per certo che Il TdO (Teatro dell’Oppresso) in Italia lo vede come riferimento principale, primo, storico. Che poi altri siano venuti, e che altri, anche tra quelli formati da lui, abbiano preso altre strade, alcune critiche verso la pratica teatrale di Roberto stesso, fa parte degli sviluppi “naturali” di ogni strada tracciata, che – se continua ad essere percorsa e non viene dismessa e catturata dalle erbacce – si fa cammino per i più diversi viaggi, per le più diverse personalizzazioni dello stesso viaggio e perfino per competitività varie tra le diverse rotte.

Quindi diamo per acquisito che Roberto Mazzini, tra i primi in Italia, ha ritenuto che il TdO fosse un’opportunità importante; così importante da farla coincidere con la sua ricerca teatrale, che, allora come adesso, si “limita” al Teatro dell’Oppresso, appunto.

Roberto Mazzini è stato, anche, traduttore delle opere di Augusto Boal. Prima di sviluppare il nostro dialogo, è, quindi, innanzitutto opportuno chiedergli di dirci cosa sia, il Teatro dell’Oppresso, universalmente noto con la sigla TdO, chi sia Augusto Boal, e perché io abbia usato l’avverbio universalmente, ovvero: questo argomento di cui stiamo per trattare è davvero universale?

 Grazie intanto dell’opportunità di raccontare e argomentare; non è scontato, perché non tutti hanno diritto di parola e di essere ascoltati, o meglio il diritto è sancito, ma non realizzato.

Boal inizia la sua ricerca proprio per dar voce a chi non ha voce, i campesinos senza terra brasiliani, così come Paulo Freire, suo connazionale.

Boal inizia per passione a scrivere testi teatrali e poi metterli in scena, attingendo da fatti e personaggi del popolo che conosceva direttamente, pur non essendo lui di estrazione popolare.

Diventa poi vice-direttore del Teatro Arena di San Paulo e introduce due novità: un laboratorio di drammaturgia e uno di interpretazione per  attori. Importa quello che ha imparato a New York sul metodo Stanislavskij e rivoluziona la scena teatrale. I suoi spettacoli risentono del clima politico degli anni ’50-’60, del populismo, del risveglio delle coscienze, delle prime organizzazioni popolari. Il suo teatro si interroga su come essere utile per una trasformazione sociale accompagnando queste dinamiche. In breve, dato il contesto di questo articolo, possiamo dire che dopo aver sperimentato il teatro politico ideologico, quindi quello basato su una verità da portare, un pubblico da convincere, ecc. il teatro dell’agit prop e della satira alla Dario Fo per intenderci, Boal viene influenzato da Freire e da alcuni accadimenti e comincia la ricerca di un teatro della “domanda”, più che della risposta. Comincia a credere che le risposte migliori le possono trovare gli oppressi stessi e pian piano sperimenta formule che diano la parola al popolo, invece che strumenti per convincerlo di una propria tesi.

Dopo i golpe del ’64 e del ’68 la sua ricerca continua in esilio, in Sudamerica e poi a Parigi, fino al rientro in Brasile nel 1986.

Il TdO si arricchisce nel contempo di tecniche (Teatro-Forum, Teatro-Legislativo, Flic-dans-la-tete, ecc.) per affrontare le nuove sfide a cui si trova di fronte e si diffonde in più di 80 paesi del mondo, generando gruppi vari, esperienze, applicazioni in vari settori, nuove tecniche.

Rispetto all’universalità del TdO possiamo rispondere che lo è, non solo perché diffuso ovunque, ma soprattutto perché ovunque c’è oppressione, là può servire il TdO (o TO come è più conosciuto a livello internazionale). Nonostante questa universalità il TdO è abbastanza flessibile da venir re-interpretato a seconda della cultura che lo usa, quindi abbiamo delle grandi variazioni visibili nei temi, nella forma degli spettacoli, ma anche nel modo di condurre i laboratori e nel tipo di esercizi maggiormente usati.


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