Il demos migrante

di Stefano Rota – Associazione transglobal

La “domanda” d’asilo assume un ruolo egemone tra la molteplicità di domande particolari che provengono oggi dal popolo migrante. Tale egemonia consente anzi di definire l’identità “popolare” che vi si esprime: il richiedente asilo. Secondo Laclau, questa identità appare come un “significante vuoto”, perché, per rappresentare il tutto, deve sottrarre significato a quelle domande che di fatto la compongono. E’ qui dove si gioca la tensione tra umanitarismo e politico su cui si innestano le politiche europee; recuperare la dimensione politica delle migrazioni consente di riempire di significato quell’identità popolare che eccede il suo elemento dominante, offrirgli una “pienezza che è costitutivamente assente”.

Il 12 settembre scorso, i presidenti delle regioni Lombardia, Liguria e Veneto si sono riuniti per definire una linea comune sul tema dell’immigrazione e fare, di conseguenza, alcune proposte al governo. Tra le misure individuate, viene riproposto il reato di immigrazione clandestina. Se solo l’enunciazione di tale abominio provoca inevitabilmente sentimenti di repulsione, va dato atto ai tre governatori di centro-destra di aver messo in evidenza la natura del fenomeno che sta mettendo in crisi il sistema Europa. Non è tanto l’accoglienza di coloro a cui, per area di provenienza o altri fattori specifici, verrà riconosciuta la protezione internazionale o umanitaria. L’elemento di tensione che fa scattare le reazioni di chiusura, con conseguente sviluppo di opere di ingegneria civile, legale e/o sociale, è il movimento di migranti che, partendo principalmente dall’Africa occidentale sub sahariana e da alcuni paesi asiatici, utilizza lo strumento della richiesta d’asilo per potersi garantire una sia pur remota chance di restare in Europa “legalmente” per un periodo che può variare inizialmente da due a cinque anni.

Escludendo, infatti, alcune nicchie professionali, i risibili numeri di migranti interessati dall’articolo 27 della Legge quadro (introdotto dalla Bossi-Fini, per selezionare, formare in loco e far giungere in Italia i migranti, direttamente sotto la responsabilità di aziende, agenzie interinali e altro) e gli stagionali, l’unico modo che ha un migrante per arrivare in Italia è quello “illegale”, cioè a dire fare richiesta d’asilo, senza averne i requisiti “umanitari”.

Detto in altri termini, nell’Europa della crisi economico-finanziaria, con conseguente chiusura delle frontiere ai cosiddetti “migranti economici” e ridefinizione di modelli di regolamentazione delle migrazioni, il soggetto “richiedente asilo” si impone come centrale nella composizione dei flussi migratori e quindi nella tensione sempre in trasformazione tra migranti e Stato, modificando le strategie dei primi e le risposte del secondo, o viceversa, se vogliamo.

Quella del profugo e del migrante sono due rappresentazioni della mobilità umana molto diverse tra loro nell’immaginario collettivo, socialmente e culturalmente costruito attraverso le proposizioni televisive e giornalistiche sull’egemonia dell’approccio umanitario, a totale discapito di quello politico.

Ciò che vorrei provare a discutere nelle righe che seguono, più che la fuorviante contrapposizione tra richiedenti asilo e migranti, già ampiamente messa in discussione in molti contributi, è proprio la distinzione tra approccio umanitario e approccio politico al fenomeno della mobilità umana. Il tentare di spiegarne la complessità riducendola a una classificazione tra chi ha umanitariamente diritto a restare chi questo diritto non ce l’ha sta creando situazioni che variano dal paradossale al criminale. Che si tratti, infatti, di un problema politico volutamente eluso si evince dall’arbitrarietà e strumentalità che regolano i processi decisionali a cui sono sottoposti i richiedenti asilo, al netto del filtro previamente effettuato negli hot spot.

Visto che i siriani si tengono a debita distanza dall’Italia e i provenienti dal Corno d’Africa sono praticamente tutti transitanti per raggiungere anche loro i paesi del Nord Europa, i “richiedenti asilo” sottoposti al vaglio delle Commissioni prefettizie entrano in un meccanismo molto simile alla roulette russa al contrario, dove c’è solo un posto nel caricatore della pistola senza un simbolico proiettile.

La mancanza di applicabili criteri “umanitari” per sancire una sorta di graduatoria di rischio tra la grandissima maggioranza dei richiedenti asilo in Italia crea in sostanza un meccanismo di selezione random, fondato, sembrerebbe, unicamente sul numero di migranti che si possono ammettere. Se non sono quelli strettamente umanitari, quali sono i criteri di ammissione, quindi? Escludendo i richiedenti provenienti da zone di conflitti armati e quelli che presentano situazioni individuali particolarmente serie, vale la logica, in alcuni casi, del percorso effettuato nel periodo precedente l’incontro con la Commissione: lo studio della lingua italiana, l’iscrizione ai sistemi di regolazione del mercato del lavoro, lo svolgimento di attività di volontariato, ecc. Un approccio meritocratico, quindi. In altri, la presenza di problemi di salute (ma non tutti); in altri ancora, caratteristiche personali e comportamentali, quali età, affabilità, educazione, rispetto.

Cito queste caratteristiche, perché le motivazioni che presentano i migranti di uguale cittadinanza e zona di provenienza per sostenere la propria richiesta (in larga parte giustamente inventate di sana pianta) sono spesso molto simili tra loro, ma producono esiti opposti. Vale per tutti l’esempio del dichiararsi gay, molto usato soprattutto tra i nigeriani e molto difficile da sostenere con documentazioni e testimonianze specifiche. Sulla base di una dichiarazione praticamente identica, il mio amico T. ha ottenuto il riconoscimento dello status, i miei amici D., E. e L. no. Altri due miei amici, sempre nigeriani, hanno dichiarato che la loro vita era in pericolo a causa di riti tribali che prevedevano il sacrificio di alcuni maschi in giovane età per accompagnare nell’ultimo viaggio un’autorità locale morta. Uno accettato e l’altro no.

Per completezza d’informazione, i casi ora citati avevano tutti un livello di conoscenza dell’italiano simile (basso), erano tutti iscritti ai sistemi di regolazione del mercato del lavoro (Centro per l’Impiego, Programma Garanzia Giovani, Agenzie interinali) e avevano tutti svolto attività di volontariato.

Chi trae maggior beneficio da questa situazione sono ovviamente le strutture di natura religiosa, cooperativa, privata che gestiscono i centri di accoglienza (il periodo di soggiorno può arrivare tranquillamente a due anni) e i CARA. Tra queste, in particolare quelle che operano in maniera spregiudicata o criminale, con logiche non molto diverse da ciò che accade in Libia. Per fortuna, non si tratta della maggioranza delle strutture appaltanti (esistono casi di vera eccellenza, basati su un modello di inclusione sociale completo e multidirezionale, ma allo stesso tempo sobrio e disincantato), ma certamente una buona parte, con gradi diversi di inadempienza, da quelli veniali, a quelli maledettamente gravi. E’ del 13 settembre la pubblicazione di un inchiesta nel CARA di Foggia, che ha messi in evidenza una situazione al limite dell’intelligibile: una sorta di campo di detenzione, senza alcuna forma di organizzazione, a cui attingono a piene mani la criminalità e il caporalato più bieco (entrambe le attività, con il diretto coinvolgimento anche di cittadini connazionali degli ospiti)

Quest’ultima osservazione, tanto banale quanto riscontrabile in tutti gli organi di stampa e social network, mi serve per affrontare il tema che vorrei provare a trattare ora e che prende le mosse dalla risposta alla seguente domanda: dove si colloca il punto di strozzatura di questo meccanismo, che rende tutto così paradossale? Come ho accennato prima, nella fase iniziale del processo, nelle definizioni stesse di “richiedente asilo” e di “principi umanitari” che vengono utilizzati per governare il sistema nel suo complesso.

Abdelmalek Sayad ci ha spiegato molto chiaramente che esiste un “Pensiero di Stato” che regola universalmente l’agire nei confronti dei migranti, giungendo a far apparire talune posizioni come “naturali”, che si spiegano da sé. La sua lettura era centrata prevalentemente sulle realtà che ha vissuto: da un lato, un paese colonizzato (o recentemente decolonizzato), l’Algeria, e dall’altro, la metropoli coloniale, la Francia. In mezzo, i migranti che, con il movimento dei loro corpi, mettono in discussione quel Pensieri di Stato che tende a escluderli, in quanto alieni, e relegarli a una perenne condizione di migrante, perché più comoda per sancire una differenza giudicata incolmabile. Andando dietro queste importanti suggestioni – pur senza accettare in toto la visione che Sayad condivide con Bourdieu, a mio modo di vedere, un po’ troppo spostata sul versante strutturalista – si potrebbe dire che il Pensiero di Stato che regola oggi il rapporto tra migranti e Stato sia cambiato, articolandosi, nel corso degli ultimi tre decenni, in diverse varianti e producendo una cultura costitutiva del mondo sociale e dei suoi habitus, come la chiama Bourdieu, certamente differente da quella che descriveva Sayad trent’anni fa. Questa si potrebbe sintetizzare in: profughi sì, migranti no. Le spiegazioni, i sensi di colpa, le paure, tutte in larga parte condivise dalla maggioranza della popolazione, sono alla base di una distinzione che è solo nominativa, ma che riesce benissimo a non far spostare l’attenzione dal piano umanitario a quello in cui una pratica discorsiva piena consentirebbe di definire i migranti come portatori di un’identità carica di significato politico, da cui conseguirebbe una lettura politica del fenomeno. Usare il termine profughi ci consente di “parlare” quei corpi come “veicoli” di identità di per sé non propense alla migrazione, ma a questa forzate perché martoriate dalla guerra, da conflitti interetnici. Le drammatiche immagini dei fiumi di persone che si dirigono verso i confini nazionali chiusi, del bambino siriano riverso sulla spiaggia senza vita, dei naufragi in mare: no, se affrontano tutto questo è perché vi sono forzati da guerre, terrorismo, persecuzioni, quindi hanno bisogno del nostro aiuto, sono meritevoli della nostra comprensione e compassione.

La figura del profugo, e di conseguenza di quella del richiedente asilo, mantiene nell’immagine socialmente costruita il carattere delle provvisorietà. Conclusi i conflitti, sconfitto il terrorismo, i profughi saranno per definizione desiderosi di tornare a casa loro. I migranti, al contrario, tendono inevitabilmente alla stabilizzazione, a far arrivare la famiglia: anche se collocati in una posizione differente dagli autoctoni nella struttura verticale della cittadinanza, il migrante viene percepito come il soggetto che ha scelto di partire, a cui è lecito rivolgersi con un “tornatene a casa tua”, frase impossibile da rivolgere a un profugo siriano.

Per capire meglio come questi termini giochino un ruolo fondamentale nei processi costitutivi di reti di significati e definizioni di identità, riporto una descrizione di questi data da Stuart Hall, che mi pare sia a questo proposito illuminante: “Le identità sono delle posizioni che il soggetto è costretto a prendere, pur sapendo sempre che sono delle rappresentazioni. L’idea che un’effettiva cucitura del soggetto a una posizione soggettiva richieda che esso non solo venga ‘chiamato’, ma investa in questa posizione, significa che la sutura va pensata come un’articolazione, piuttosto che come un processo unilaterale e che, a sua volta, tutto ciò inserisce decisamente nel programma teorico l’identificazione, se non proprio l’identità” (S. Hall, Politiche del quotidiano, 2006, pag. 318).

La pratica discorsiva umanitaria non mette in discussione i postulati di base reali che sottendono ai movimenti migratori che, attraversando il Sahara e il Mediterraneo, giungono sulle coste dell’Europa meridionale. Al contrario, li nasconde attraverso la spoliticizzazione del fenomeno, che ha inizio nelle pratiche degli hot spot e prosegue fino all’agognato incontro con la Commissione e successivo verdetto. In mezzo, come ci ricorda bene Raimondi (2016) nel suo Migranti e Stato, c’è il processo di inclusione nell’ordine politico di qualcosa che lo escluderebbe “naturalmente”: questo avviene, quindi, attraverso la sua spoliticizzazione, favorendo lo “slittamento del discorso e delle pratiche sul piano della morale, della carità, della compassione e della generosità […]. Piuttosto che riconoscere ai migranti diritti che resterebbero validi indipendentemente dalla nostra volontà, si lodano i doveri dell’assistenza e dell’ospitalità, che danno lustro e fanno onore” (pag. 47).

Affrontare il fenomeno con un approccio politico equivarrebbe a riconoscere all’Europa la responsabilità storica nella creazione della grandissima parte delle motivazioni che stanno alla base delle migrazioni. Non è un caso che tutti i paesi europei stiano prendendo posizioni nette (e negative) rispetto alla possibilità di accogliere i futuri arrivi che si stanno preparando sulle coste libiche: non ultima, la presa di posizione di Hollande e Merkel nel corso del vertice di Bratislava di metà settembre, presentata a Renzi al suo rientro in stanza, dopo essere andato a preparare il caffè ai due dell’asse franco-tedesco. Tutti sanno che, accogliendoli con le stesse modalità, si metteranno in casa decine di migliaia di migranti a cui verrà negato il diritto d’asilo.

Alla luce di tutto questo, il modo in cui l’Italia sta cercando di modificare il sistema di accoglienza è quanto meno singolare. Dato che la quasi totalità dei dinieghi viene confermata in sede di appello (a cui hanno diritto i richiedenti asilo, che consente loro di restare altri sei mesi circa nelle strutture di accoglienza dopo il primo verdetto), la proposta del Ministro Orlando è di eliminare la possibilità di ricorrere in appello. Oltre a ciò, le prefetture hanno già dato indicazioni chiare ai centri di accoglienza riguardo la permanenza degli ospiti immediatamente dopo la sentenza della Commissione prefettizia. In caso di responso sia negativo, sia positivo, gli ospiti devono lasciare la struttura entro pochi giorni. L’interpretazione di queste misure potrebbe essere così articolata: sappiamo benissimo che non si tratta di richiedenti asilo, ma piuttosto che porci il problema in termini politici, preferiamo spostare l’attenzione sui costi e dare una patina di efficienza al sistema di accoglienza. Il fatto che questo creerà un esercito di persone “illegali” che inizieranno a muoversi privi di qualunque strumento, visto che moltissime delle strutture che sono state finanziate non hanno messo in atto nessun tipo di percorso, sembra non stare dentro all’orizzonte visivo dei legislatori.

Dove conduce tutto questo?

Per certi aspetti, non molto lontano da quanto si è sempre sostenuto, fin dai tempi di Fanon. L’ipocrisia dell’Europa di fronte alle sue responsabilità remote, in un passato più vicino e presenti nella definizione di tutti gli scenari di crisi belliche, economiche, ambientali nei paesi del sud del pianeta condiziona inevitabilmente le scelte politiche, le propensioni degli elettori tanto a livello di Unione, quanto di singoli stati membri di fronte ai movimenti migratori. Tutto questo impedisce l’utilizzo di strumenti di cui da molto tempo se ne invoca l’adozione: tra questi, direi che il primo dovrebbe essere il permesso di soggiorno europeo, sganciato dalla logica della richiesta d’asilo e, di conseguenza, dalle attività di “frontiera” (in particolare degli hot spot).

Su un altro versante, queste considerazioni ci devono aiutare a porre l’attenzione su un fatto che sembrerebbe scontato, ma, a leggere gli interventi di molti studiosi, scontato sembra non essere. Come ricorda anche Raimondi, il migrante come soggetto politico e la migrazione come momento di lotta politica non presuppongono automaticamente una consapevolezza di ciò da parte degli individui coinvolti nel fenomeno migratorio. L’essere un soggetto politico diviene quindi una condizione ontica del migrante, che esiste prima di lui stesso come singolo individuo. Volendo recuperare una interessante definizione data da  Elster, potremmo collocare tale condizione tra il ‘in sé’ e il ‘per sé’, in cui un soggetto “esercita la sua influenza attraverso la sua esistenza ‘per altri’”. Esso si presenta come un “quasi-soggetto” (J. Elster, Ulisse e le sirene, 1983, pag. 173).

Il movimento dei corpi dei migranti, se non costituisce, quindi, la condizione sufficiente per la definizione di una soggettività politica piena, è certamente la base per il riconoscimento del fenomeno come totalmente politico da parte di quegli “altri” che, al contrario, ne negano sistematicamente l’esistenza.


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