Il freak & chic

DI SIMONE GUERRA

Un tempo l’Estremo Oriente era un’entità geografica vaga e misteriosa. Come uno scrigno di cui pochi possedevano la chiave, racchiudeva in sé tutto ciò che era diverso rispetto alla cara e rassicurante Europa.

Era la terra degli enigmatici giardini zen giapponesi e dei colorati templi hindu; dell’infinita Grande Muraglia cinese e delle viuzze odorose di Hanoi; della gentile miseria dello splendido Laos e dei volti scolpiti nei templi Khmer nascosti nel fogliame in Cambogia; delle spigolosità dorate dei templi di Myanmar e delle pigre spiagge malesi.

Era la Terra dove si recavano avventurosi, mitomani o semplicemente tipi strani.

Era la Terra che, a questi avventurosi, mitomani o semplicemente tipi strani, forniva inesauribili argomenti per stupire parenti e amici in pizzeria oppure ai pranzi di Natale.

Era la Terra a cui secoli di filosofie che insegnano la sopportazione avevano dato la forza di non incazzarsi nemmeno più, se solo la metà di quanto veniva detto era vera.

Oggi l’Estremo Oriente è diventato l’ultimo terreno di conquista del turismo di massa. E di questo vanno ringraziati i viaggi organizzati, il tam-tam tra amici e le agenzie che promettono, senza mezze misure, l’avventura all’Indiana Jones oppure comodità da albergo a sei stelle perfino nel Deserto di Gobi.

Sulle vetrinette dei salotti di Napoli i maneki neko giapponesi non fanno più notizia.

A voler essere pignoli fa un po’ strano vedergli fare ciao ciao con la zampetta accanto al servizio buono da caffè ricevuto in regalo per il matrimonio.

Non è per niente strano, invece, imbattersi nella stessa famiglia napoletana a Yangshuo mentre cerca con tenacia mediterranea e imprecazioni da Cavalieri dell’Apocalisse un bar che abbia il Limoncello, per chiudere in bellezza una cena troppo piccante.

Il compianto Tiziano Terzani – grande conoscitore di Estremo Oriente – scrisse un giorno che avrebbe volentieri ripristinato l’antica usanza di garantire l’accesso ai Paesi solo tramite un invito ufficiale.

Che avesse ragione anche su questo?

Che Terzani avesse ragione o no, lo scopriremo in seguito.

O magari anche no. Perché nel frattempo è arrivato il vostro momento.

Già.

È sera.

Siete in Indonesia.

O in Malesia.

Oppure in Vietnam.

Insomma: fate voi.

Il tassista – maledetto – vi ha lasciato a cinquanta metri dal ristorante occidentale. Dopo dieci giorni a riso fritto avete tutte le migliori intenzioni di fare la mangiata della vita. E non vi serve Vissani: andrebbe bene perfino un’imitazione locale di MacDonald. Nessun eventuale senso di colpa per esservi lasciati sfuggire memorabili esperienze gastro-culturali vi tratterrà dal raggiungere il vostro meritato obiettivo.

Cinquanta metri sono poca cosa, pensate. Ma se tocca percorrerli scavalcando pozze di liquido strano (… si è mosso?) intervallate a un tappeto di cartacce, cicche e cose che per fortuna non conoscete l’indonesiano, o il malese, oppure il vietnamita, beh … in questo caso ringraziate i weekend giovanili passati a montar tende con i Lupetti e vi incamminate lesti con i vostri scarponcini impermeabili.

Quand’ecco che una coppia di occidentali vi affianca. Età tra i diciotto e i quarant’anni. Sorridono, mentre i loro pantaloni etnici a zampa larghetta lambiscono la prima pozza scura. La sciarpina di seta è intonata alla perfezione. I capelli sono dorati. Al massimo, castano chiari.

Ricambiate accennando un saluto mentre vi superano, ma il loro sguardo vi passa attraverso. Vi siete sbagliati: non sorridevano a voi. Sorridono all’Universo.

I loro occhi buoni vedono lontano, ben oltre la materialità del vostro corpo un pelino – ammettiamolo – sovrappeso. Tradiscono l’immensa gioia di essere a passeggio per un Paese dell’Estremo Oriente.

Colti da un vivissimo sospetto, sbirciate sotto i loro pantaloni e ricevete la conferma che in fondo vi aspettavate. Il colore originale è coperto, ormai, dallo scuro liquame su cui stanno sguazzando, ma è evidente che i piedi inforcano un paio di ciabattine infradito.

Infradito … Infradito … Riflettete per un istante.

Quell’istante, per quanto breve, basta e avanza a farvi comprendere come questo particolare cambi tutto. La cena può attendere.


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