Gli haitiani alla frontiera Usa e l’incognita Trump

A Tijuana migliaia di migranti haitiani sono bloccati dopo un lungo e pericoloso viaggio dal Brasile


Caterina Morbiato, antropologa italiana esperta di temi migratori in Messico, ha da poco visitato la frontiera tra Tijuana e San Diego presso cui sono bloccati migliaia di migranti haitiani che, dopo un viaggio estenuante e rischiosissimo dal Brasile al Centro America e al Messico, rischiano ora di non poter entrare negli Stati Uniti, loro obiettivo finale. La vittoria di Donald Trump alle presidenziali americana ha, ovviamente, complicato la loro situazione.

In breve, come si spiega la presenza migliaia di haitiani bloccati a Tijuana, in Messico?

I migranti haitiani rappresentano in maniera emblematica la condizione di esilio ai tempi del neoliberalismo: la maggior parte degli haitiani che ora cercano di arrivare negli USA non parte da Haiti ma si ritrova a migrare per la seconda o terza volta, espulsi da sistemi economici che non necessitano più della loro forza lavoro.

Dopo il terremoto che squassó Haiti nel 2010, e che provocó circa 250mila morti, molti paesi latinoamericani aprirono le porte alla popolazione haitiana, rispondendo a una serie di interessi geopolitici precisi. Il Brasile è un caso esemplare, è stato uno dei paesi che più ha accolto gli sfollati haitiani e in cui le circostanze sono risultate piuttosto proficue in termini economici: molti haitiani trovarono impiego nella costruzione delle infrastrutture dei mondiali di calcio del 2014, funzionando come manodopera a basso costo.

Nonostante la presenza di haitiani si sia fatta sempre più massiccia, la carenza di politiche pubbliche in materia d’accoglienza è rimasta strutturale, esponendo i migranti a una maggiore vulnerabilità e propiziando ostilità e rigurgiti xenofobi da parte della popolazione brasiliana. Ci sono state diverse denunce di casi di “lavoro schiavo” -in cui imprese private mantenevano i lavoratori haitiani in condizioni di vita degradanti- anche se la maggioranza delle situazioni di sfruttamento estremo continua a rimanere sommersa. La crisi economica e politica in cui è sprofondato il Brasile ha determinato negli ultimi tempi l’espulsione in massa dei lavoratori meno qualificati, rimasti presto disoccupati.

Migliaia di haitiani hanno così iniziato a lasciare il gigante del sud per mettersi nuovamente in viaggio; lo stesso è accaduto con altri paesi latinoamericani da dove la gente ha iniziato a viaggiare verso gli Stati Uniti con l’idea di poter trovare condizioni di vita migliori.

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Quanti sono? S’è parlato di 10, 14 o anche 17mila persone, ma si sa quanti sono realmente?

Le cifre non parlano chiaro. Da un lato è difficile stimare quante persone haitiane siano entrare in territorio messicano perché molte si fanno registrare dalle autorità migratorie con nazionalità di altri paesi, come il Congo ad esempio. D’altro canto è da considerare che il numero possa essere gonfiato per creare allarmismi e favorire la chiusura delle frontiere e implementare misure di detenzione e deportazione della popolazione migrante haitiana.

In che condizioni versano gli haitiani richiedenti asilo negli Usa fermi alla frontiera tra Tijuana e San Diego?

Dallo scorso 22 settembre gli Usa hanno smesso di rilasciare il TPS, lo status di protezione temporanea che dal 2012 veniva dato alle persone di nazionalità haitiana a causa dei danni gravissimi provocati dal terremoto del 2010. La chiusura della frontiera sta separando numerose famiglie: le donne e i minori vengono fatti passare dopo aver presentato domanda d’asilo, ma buona parte degli uomini viene rinchiusa nei centri di detenzione per migranti. Con tutta probabilità sono stati già deportati o verrano deportati verso Haiti.

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Per la legge statunitense i richiedenti asilo possono essere ammessi nel territorio nazionale per poi venir detenuti se non possiedono i documenti sufficienti o nel caso in cui non riescano a dimostrare una “paura credibile” di persecuzione. Nel caso dei migranti haitiani la questione dei documenti è piuttosto problematica: moltissimi entrano in Messico facendosi registrare come congolesi (o come cittadini di altri paesi africani dove esista un grave conflitto sociale) con la speranza di poter ottenere lo status di rifugiati una volta negli Stati Uniti. Arrivati all’intervista con le autorità statunitensi devono “mantenere in piedi” questa finzione, cosa non del tutto semplice. I permessi che rilascia il Messico durano trenta giorni dopo di che la persona diventa “illegale”. Molti haitiani che ora si ritrovano in territorio messicano non possiedono documenti utili perché gli è scaduto il permesso per restare in Messico, o perché vengono riportate informazioni fittizie – che le autorità migratorie messicane registrano senza obiettare – con le quali sarà difficile poter ottenere l’asilo.

Pensi ci possano essere collegamenti tra l’inasprimento della repressione statunitense alla frontiera col Messico, che colpisce particolarmente sud e centroamericani, messicani e haitiani migranti, e la vittoria di Donald Trump alle elezioni dello scorso 8 novembre (col cambio ideologico-ambientale in atto negli USA)?

Dal Messico si vive con molto timore l’arrivo di Trump alla presidenza e il probabile futuro inasprimento in materia di politiche migratorie, non possiamo dimenticare però che gli Stati Uniti vantano già da tempo una lunga tradizione di muri, abusi, detenzioni, deportazioni, separazioni familiari e trattamenti degradanti nei confronti della popolazione migrante. Durante i mandati di Barack Obama la legislazione migratoria degli Stati Uniti è stata implacabile, Obama stesso è stato più volte segnalato come il presidente che ha deportato più migranti nella storia degli USA: circa 2 milioni e mezzo di persone. Inoltre è utile ricordare che negli Usa quello della detenzione di persone migranti è un vero e proprio business in cui sono coinvolte imprese private che muovono milioni di dollari come la Geo Group o la Corrections Corporation of America (CCA); entrambe sono state al centro di una forte controversia per le condizioni penose in cui vengono mantenuti i migranti nei loro centri e per diversi casi di evasione fiscale. Sono corporazioni che fanno le veci dello Stato e che sono entrate in scena negli anni Novanta grazie alle politiche di criminalizzazione della migrazione e alla progressiva privatizzazione dei servizi. Nel complesso sistema di gestione della migrazione l’outsourcing dei servizi di detenzione gioca senza dubbio un ruolo molto importante, anche rispetto al disegno delle politiche migratorie.    

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Che cosa più ti ha colpito della situazione di questi migranti?

In primo luogo la fermezza e la dignità con cui parlavano del loro viaggio e del loro paese; non lo dico per darne un’immagine romantica ma perché è stato effettivamente un aspetto particolare che mi ha colpito: raccontavano della loro situazione senza compiangersi o vittimizzarsi, con molto orgoglio e con una forte lucidità rispetto alle ragioni geopolitiche che fanno da scenario al movimento massivo della popolazione haitiana. 

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Che differenze hai riscontrato rispetto alla “migrazione tradizionale” centroamericana?

Innanzitutto per quanto riguarda la maniera di viaggiare, che dipende dalle possibilità o dai limiti che derivano dalle politiche migratorie. Mi riferisco in particolare all’attraversamento del Messico: a Tapachula (città dello stato del Chiapas e principale porta d’entrata della maggior parte dei migranti haitiani) ai migranti haitiani viene concesso un salvacondotto di 30 giorni grazie al quale possono muoversi “legalmente” dentro il territorio messicano. Questo documento offre un determinato margine di sicurezza rispetto ai pericoli tipici delle rotte migratorie clandestine: gli haitiani possono viaggiare in autobus di lunga percorrenza che li portano verso il confine nord senza la paura di essere fermati in uno dei tanti controlli migratori che vengono effettuati durante il viaggio. Anche se varie persone hanno segnalato casi di estorsione da parte di diverse autorità, per esempio nella zona della capitale al momento di cambiare autobus, generalmente il Messico è, per ora, abbastanza sicuro da attraversare proprio grazie al permesso migratorio concesso.

Per i migranti centroamericani la situazione è opposta: quasi in nessun caso riescono ad ottenere documenti validi per viaggiare in Messico e quindi sono costretti a ripiegare verso rotte insicure, gestite dalle reti del crimine organizzato che opera in collusione con le autorità migratorie o con le forze dell’ordine dei diversi stati della repubblica messicana. I migranti che arrivano da El Salvador, dall’Honduras, dal Nicaragua o dal Guatemala sono decisamente più esposti a cadere nei circuiti di traffico di persone e corrono il rischio di essere sequestrati, subire estorsioni o venire violentati in un’infinità di modi.

In Messico i migranti centroamericani sono trattati come una vera e propria merce, mentre i migranti haitiani sono più protetti. Ma la situazione potrebbe cambiare in base alle politiche migratorie che adotteranno gli Stati Uniti, il Messico e più in generale tutti i paesi coinvolti nel transito dei migranti haitiani.

Perché (come hai raccontato nel tuo reportage) alcuni migranti dicono che “Haiti non esiste”?  

È come se esistesse un rimosso collettivo rispetto ad Haiti, un’asportazione storico-geografica: il paese sembra assumere dimensione solamente quando grosse porzioni della popolazione muoiono per qualche catastrofe ambientale o sanitaria, o se un conflitto sociale finisce in un bagno di sangue. Senza tragedia Haiti rimane alla deriva del continente americano. Eppure è stato il primo paese d’America ad abolire la schiavitù e il primo a dichiararsi indipendente: ogni paese latinoamericano -e non solo- nutre nei suoi confronti un debito storico e ideologico enorme. A fine settecento Haiti era sinonimo di disordine e sommosse: le ripercussioni che la rivoluzione sociale haitiana potevano avere nel resto del continente facevano paura alle élite degli altri paesi. Proprio per il suo potenziale rivoluzionario, Haiti venne isolata politicamente e socialmente, oltre che essere costretta a pagare un debito economico enorme alla Francia che la debilitò drasticamente per tutto un secolo. L’invisibilità e l’impoverimento a cui sembra essere perpetuamente condannata ha radici profonde e una lunga serie di ingerenze straniere (Francia, Stati Uniti in primis) che continuano ad oggi. Come dice Eduardo Galeano, Haiti è un paese buttato nella spazzatura, costretto a scontare in eterno il castigo della sua dignità.

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Che previsioni si possono fare circa il destino di queste migliaia di haitiani? Ci sono state deportazioni e imprigionamenti? Qual è la situazione dei diritti umani alla frontiera?

Dopo una sospensione temporanea gli Stati Uniti hanno ripreso le deportazioni a inizio novembre, ma a scaglioni: i voli con a bordo migranti haitiani stanno partendo un settimana sì e una no, a seconda della disponibilità di spazio nei centri di detenzione per migranti. Al momento ci sarebbero circa 4400 migranti haitiani detenuti. Anche se le persone vengono informate del cambiamento della politica migratoria statunitense, nella maggior parte dei casi accedono comunque all’intervista sperando di potercela fare. Non è una decisione facile, dopo un viaggio del genere si è disposti a giocarsela fino in fondo.

Ho potuto parlare recentemente con il religioso Patrick Murphy, che è il direttore della Casa del migrante di Tijuana, una delle prime realtà ad aver denunciato l’avvicinarsi di una crisi migratoria. Da quanto racconta, a Tijuana si sono moltiplicati gli spazi che offrono accoglienza ai migranti haitiani e al momento sarebbero circa 15. Generalmente sono realtà legate al mondo cattolico o evangelico e cercano di offrire un primo soccorso: alloggio, pasti caldi e in certi casi anche assistenza medica. Ultimamente gli arrivi di migranti haitiani sono calati e tutte le persone riescono a trovare alloggio in qualche centro, la situazione è quindi migliorata perché nessuno dorme più per le strade. I tempi di attesa continuano però ad essere estenuanti: molti haitiani devono aspettare da qui a due mesi per essere intervistati dal personale migratorio statunitense e, anche se tanti hanno iniziato a lavorare (spesso nella raccolta di qualche ortaggio, a inizio ottobre vari migranti venivano contrattati per lavorare nella vendemmia), la maggior parte si trova a ingannare il tempo come meglio può. Nel frattempo stanno arrivando anche migranti di altri paesi come Perù, Togo, Trinidad e Tobago: Tijuana è un corridoio di transito per moltissime persone. Il comune della città ha contribuito con aiuti economici, ma dal governo centrale, almeno per quanto riguarda la “crisi haitiana”, non sono arrivati finanziamenti.

Non è facile fare previsioni circa il futuro dei migranti haitiani: si può supporre che con la chiusura della frontiera statunitense verranno aperti altri varchi, altre maniere di passare il confine che saranno sicuramente insicure e costose. Se la frontiera si manterrà impermeabile a livello legale e la gente cercherà di attraversarla con ogni mezzo possibile, si daranno le condizioni per un giro d’affari notevole. Dicembre e gennaio saranno cruciali. 


Profilo dell'autore

Fabrizio Lorusso
Giornalista freelance, docente e ricercatore in Messico.
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