I Cie sono i nostri Guantanamo

DI PATRICIA SIMÓN

Non dovevo essere io ad alzare il telefono in quella sala che, fino a quel giorno, solamente avevo visto nei documentari. Non dovevo essere io a sedermi in quella specie di salotto diviso da pareti in vetro. Non dovevo essere io ad ingoiare la rabbia dovendo assistere alla polizia che ispezionava la borsa dove avevo solamente un deodorante, pillole, un cambio pulito e una scheda telefonica. Ed infine, non avrei dovuto essere io quella non in grado di trattenere le lacrime per la rabbia e la vergogna di vedere come si umiliava una persona che non aveva commesso nessun delitto se non quello di essere uno straniero proveniente da paesi poveri.

Mi risultava immorale guardare di fianco a me e vedere esseri umani nervosi prima dell’imminente incontro con i loro amati familiari. Separati da un vetro, attaccati con forza ai telefoni come se fossero le braccia, le mani, i volti delle persone prese. Ogni posto, di non più di un metro quadro, una vita troncata ed esposta al resto dei sofferenti senza un minimo di privacy.

Io non dovevo essere lì, e non avrebbe dovuto esserci la sorella della vittima del traffico di esseri umani che lo Stato spagnolo aveva incarcerato per “essere in una situazione amministrativa irregolare”. Però lei non poteva visitare sua sorella: non aveva il permesso di soggiorno, nonostante fossero sei anni che viveva in Spagna lavorando come collaboratrice domestica, aiutando bambini e anziani. La maggior parte del tempo senza un contratto regolare di lavoro, senza diritti dei lavoratori, senza speranze di ottenerli un giorno.

Conobbi la sua storia per caso. Fu nel 2012, quando chiamai l’unico numero telefonico utile per comunicare con le persone trattenute nel CIE di Aluche. Stavo cercando di ricostruire la storia della deportazione di 54 donne e uomini della Repubblica Democratica del Congo, deportati al loro paese dopo essere stati detenuti a Melilla. Passarono anni sperando di poter attraversare la penisola. Però questa città è un limbo giuridico in cui le persone richiedenti asilo sono detenute, anche se hanno il diritto di attraversare tutto il territorio nazionale. Disperati, decisero di accamparsi di fronte alla Delegazione del Governo. Fu quando gli chiesero di presentarsi al commissariato con la promessa di essere trasferiti a Madrid per essere definitivamente rilasciati. Li carcerarono nel CIE di Aluche per deportarli successivamente nella Repubblica Democratica del Congo. Nel loro paese di origine li avrebbe aspettati una delle prigioni più inumane del continente africano. Il governo congolese considera traditore della patria chi prova ad emigrare.

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Tra decine di tentativi di comunicare con qualcuno, ebbi la fortuna che la mia chiamata entrasse in quel preciso istante tra quelli che attaccano e quelli che tentano di comunicare con il mondo esterno. Dopo molte conversazioni, mi misero in contatto con Lena, che molti degli interlocutori indicavano come principale testimone dell’accaduto.

Lena mi raccontò che la Polizia distribuì panini ai congolesi mentre si stavano preparando per la loro ipotizzata libertà. Il resto delle persone sapevano che li stavano per deportare: “quando ti rilasciano non ti danno nulla. Fu terribile perché loro erano sicuri della loro imminente liberazione”. Mentre mi stava per dare alcuni dettagli in più su questo caso, le domandai come aveva fatto ad arrivare lì.

“Mia sorella mi portò via dalla Bolivia a 13 anni per proteggermi dal mio patrigno: cercò di violentarmi”. Era solo l’inizio di una delle mille storie che mai conosceremo per l’imposto divieto di ingresso dei giornalisti ai Centri di Identificazione ed Espulsione.

Chiamai sua sorella, Amara. Lavorava come badante per un anziano in un piccolo paese di Soria. Ci incontrammo, due giorni dopo, all’ingresso del carcere dei migranti perché potessi così consegnare alcuni beni a Lena. Fare il viaggio fino a Madrid pose Amara al rischio di essere detenuta e deportata, nonostante abbia una figlia di sei anni di nazionalità spagnola. Ci mettemmo nella fila dei visitatori e aspettammo sotto al sole. Una volta dentro, diedi il mio documento di riconoscimento ad un poliziotto: “ha 15 minuti. Se si tratterrà di più, ruberà tempo agli altri visitatori in fila”. Amara rimase fuori.

Passarono una decina di persone, con diversi accenti e la stessa angoscia. Prima di vedere i detenuti, il poliziotto ci ricordò che non potevamo toccarli dopo il saluto iniziale autorizzato. Lena e io ci baciammo. Lei sapeva che poteva essere deportata quel giorno stesso. Ma se il Ministero degli Interni non avesse previsto rinforzi per accompagnarla fino all’aeroporto di La Paz, sarebbe stata riportata al centro fino ad un nuovo tentativo. Così fu.

All’uscita, Amara mi diede l’indirizzo dell’avvocato che cercò su internet per difendere Lena. “Esperto in stranieri”, diceva l’annuncio. L’avvocato le aveva già chiesto 1.300 euro, promettendole che tutto si sarebbe risolto in poco tempo. Arrivai al suo studio legale nel centro di Madrid, uno studio sgangherato dove un uomo occupava una stanza sporca e con odore di polvere e alcol. La bottiglia di whisky posata sul tavolo. Sconcertato dalla mia presenza, chiamò la sua socia, che arrivò un’ora più tardi. Sorpreso che una spagnola si interessasse del caso, mi assicurò che tutto sarebbe andato per il meglio. Quando io gli sottolineai che non sarebbe stato così, che in qualsiasi momento avrebbero potuto deportare la ragazza, molti immigrati giunsero allo studio.

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Grazie all’intervento dell’avvocato esperto in asilo politico Arsenio García Cores e di Mercedes Hernández – dell’associazione “Donne del Guatemala” – si riuscì ad esaminare attentamente il caso di Lena. La giovane, giunta in Spagna traumatizzata da ciò che aveva vissuto con il patrigno, entrò in una spirale di assenteismo a scuola e disaccordi con la sorella che portarono al suo internamento in un centro minorile sotto la tutela della comunità di Madrid. Durante la sua adolescenza, fu vittima di una relazione con un uomo più grande che la maltrattò fisicamente e psicologicamente. Finì per diventare una vittima di un trafficante di prostitute in uno chalet di Madrid. Tutto ciò essendo sotto la tutela della Comunità di Madrid, negligente non solo nella protezione della ragazza, ma anche per non aver regolarizzato i suoi documenti in sei anni di permanenza nel paese.

Lena denunciò aggressioni della Polizia durante le resistenze per salire sull’aereo per essere deportata in Congo. Alcuni fatti sono stati ricorrenti, come hanno documentato graficamente e nella testimonianza più soggetti. I suoi avvocati, inoltre, identificarono tutti i tipi di ostacoli e irregolarità da parte della direzione per evitare che potesse assumere la sua difesa e che sollecitasse asilo per violenza di genere e di trattamento con fine di sfruttamento sessuale.

Lena è solo una delle decine di migliaia di persone – 6.390 solo nel 2015 – che lo Stato spagnolo ha confinato in condizioni peggiori di quelle presenti nelle carceri, come hanno rivelato varie sentenze e realtà come Women’s Link Worldwide. Questa ONG pubblicò nel 2012 un’informativa in cui documentava come le donne soffrissero peggiori condizioni rispetto agli uomini detenuti: mancanza di attenzioni mediche, di informazioni sui diritti, peggiori e più ristretti orari di libera uscita, fame e mancanza di intimità che sono normalità nei sette CIE dello Stato spagnolo.

Inoltre, denunciava come le donne vittime di traffico di esseri umani non ricevevano la protezione psicologica e giuridica di cui avrebbero diritto per legge.

La storia di Lena raccoglie alcune delle molte ragioni che hanno le persone carcerate nei CIE che chiedono la libertà con proteste e scioperi della fame. Lena è solo una delle mille vittime di politiche per stranieri che criminalizzano, perseguono, maltrattano le persone provenienti da paesi impoveriti. Nonostante, come riconosce la Convenzione delle Nazioni Unite delle persone migranti, hanno diritto a venire, vivere, lavorare e relazionarsi in condizioni sicure, dignitose e giuste.

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I CIE sono solo la punta dell’iceberg delle errate politiche migratorie europee, che si sono concretizzate in più di 20.000 morti per affogamento negli ultimi 20 anni a causa della chiusura delle frontiere nel Mediterraneo, nei mobbing di raid razzisti che tediano le vite quotidiane delle persone con situazione irregolare, nelle negazioni del diritto alla salute dettate dalla riforma del sistema sanitario spagnolo, nella deportazione – veicolata mediante la violenza – e negli accordi con altri paesi che infrangono sistematicamente i diritti di chi cerca di arrivare nel nostro paese.

Lo sdegno che ha causato la protesta pacifica nel CIE non si è verificato perché queste persone hanno ‘disobbedito’, ma perché ha reso visibile l’umiliazione e le violenze subite da coloro che provengono da paesi impoveriti. I CIE sono i nostri Guantanamo. Con la differenza che la guerra che si combatte non è a migliaia di chilometri. La nostra viene combattuta alle frontiere, per le strade e nelle stazioni. E le sue vittime sono quelle persone che si prendono cura dei nostri nonni, dei nostri figli e delle nostre figlie. Quelle persone che ci servono il caffè al mattino, che coltivano il cibo che mangiamo quotidianamente, che ci danno il buongiorno nel portone. Le vittime di questa guerra sono i nostri vicini, i nostri vicini.

SU GENTILE CONCESSIONE DI pikara magazine. traduzione di luca la gamma.


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