Cosa resta della Baobab Experience

di Marco Marano

La notizia arrivava nella prima mattinata di venerdì 6 gennaio: intorno alle 2,30 l’ex centro di accoglienza per migranti Baobab, in via Cupa 5 a Roma, prendeva fuoco. Le fiamme coinvolgevano interamente i 1000 metri quadrati di quello che era stato l’unico punto di riferimento per i rifugiati in transito, mentre 300 metri quadrati di tetto, composto da legno e lamiere, crollava impietosamente. Una situazione disastrosa che fortunatamente non causava feriti o intossicati. Sul luogo accorrevano i vigili del fuoco e la polizia. Le operazioni di bonifica venivano completate alle 6,30.

Le cause non sono state accertate e dunque le ipotesi possono essere varie. Il dolo prima di tutto, ma da parte di chi? Potrebbe essersi trattato di un tentativo di ritorsione nei confronti di qualcuno, legato allo spaccio di droga, che stazionava lì dentro… I giornali locali il giorno dopo stigmatizzavano la presenza di migranti che ancora, a sentire qualche residente, sostavano  insieme ai senzatetto, parlando addirittura di “via vai”. E allora è stato un semplice fuoco per scaldarsi ad avere scatenato quella baraonda o qualcosa di diverso?

Quesiti non banali se si pensa che dopo parecchi mesi dallo sgombero di via Cupa, dove gli attivisti del Baobab Experience avevano trasformato la strada in una tendopoli, in seguito allo sgombero interno del centro, ancora c’è chi tende a criminalizzare quella esperienza con l’equazione migrante uguale ordine pubblico. Andrea Costa, volontario del Baobab Experience, osserva: «Il vero dato politico è che quel luogo, sgomberato al fine di riconsegnarlo ai proprietari, è rimasto chiuso».

Ma questa ultima vicenda di inizio anno sembra essere una fotografia che racchiude tutte le figure di questa storia: c’è la politica del “potere innanzitutto”, come la chiama l’ex ministro delle finanze greco Varoufakis, poi ci sono i cittadini benpensanti, mentre sopra i confini si posizionano i cittadini solidali e le vittime, perseguitate in patria come durante la fuga.

Si, perché proprio lo stesso giorno, in una mattina gelida, altri rifugiati fuggitivi dall’Eritrea arrivavano a Roma, una decina in tutto, tra cui un bambino, atterriti e infreddoliti, ma per la città erano fantasmi. Li chiamano i “transitanti”: «Sono persone che non vogliono rimanere in Italia, – racconta Roberto Viviani del Baobab Experience – le cui impronte digitali, una volta sbarcati nelle coste del sud Italia, non sono state prese. Secondo un conto a spanne possiamo dire che da giugno 2015 sono transitati da Roma circa 60 mila persone, prevalentemente eritrei ma anche etiopi, sudanesi e somali, tutti provenienti dal corno d’Africa insomma». Così, quel nuovo gruppo di eritrei arrivati il giorno stesso della distruzione dell’ex centro di via Cupa, per le istituzioni cittadine non sono mai esistiti ufficialmente. Anzi secondo la visione dell’amministrazione non devono proprio esistere, quindi non possono avere e forse non meritano di avere assistenza.

Ad occuparsi di loro ci sono gli attivisti del Baobab Experience che da quando il centro ha subito il doppio sgombero, prima dentro e poi fuori, sono gli unici ad accogliere i migranti in transito in piazzale Spadolini, alle spalle dell’entrata centrale della stazione Tiburtina. Proprio lì, il pomeriggio successivo all’incendio, li abbiamo incontrati. Malgrado il freddo sempre più incombente ed un vento gelido, il presidio umanitario, che da mesi opera, rappresentando l’unica possibilità di prima accoglienza per i rifugiati del corno d’Africa, era comunque attivo. Si distribuivano pasti caldi e vestiti per coprirsi dal freddo visto che per le istituzioni cittadine hanno lo status di fantasmi, e quindi sono costretti a dormire all’addiaccio.

Tra di loro non ci sono solo i transitanti ma anche altre tipologie: c‘è chi è fuoriuscito dai programmi finanziati di accoglienza, chi non vi è mai entrato, chi è destinato alla “riallocazione”, processo che non è mai partito veramente, chi deve fare la richiesta di protezione internazionale. «In questo momento, – osserva Roberto – anche se la maggior parte sono sempre migranti in transito, a Roma arrivano anche già identificati. Alcuni vengono indirizzati verso la relocation, altri dislocati in varie parti d’Italia. Pensa che la Questura prende una decina di richieste al giorno di protezione internazionale e chi sta in quelle lunghissime file viene rispedito ad altre date, ecco perché spesso dormono lì davanti».

Quello che occorre comprendere è il trait d’union tra le varie amministrazioni capitoline che si sono succedute negli ultimi due anni, da quella Marino, al Commissario Tronca fino all’attuale sindacatura Raggi, legata a doppio filo con le oligarchie della destra romana: una sorta di fil rouge che possiamo sintetizzare nella frase che l’assessora 5 Stelle alle politiche sociali Laura Baldassarre ha ripetuto ai volontari del Baobab Experience, spiegando il motivo per cui i rifugiati in transito devono restare fantasmi: «Se oggi ne accogliamo cento domani ne verranno altri cento».

La stessa frase è stata ripetuta in un’altra occasione da una certa Barbara Saltamartini, deputata romana di  AN, del Popolo delle libertà, del Nuovo Centro Destra di Alfano e dulcis in fundo della Lega Nord. Nell’estate del 2016 era lei a guidare un drappello di residenti dei pressi di via Cupa, “Comitato per la rinascita di Tiburtina”, che si recavano in mezzo alla tendopoli fuori dal centro Baobab. Lì in mezzo c’era anche il vicepresidente dell’organizzazione neo-fascista CasaPound Simone Di Stefano. La deputata transfuga in tutti i partiti della destra italiana affermava, ripresa dalle telecamere della trasmissione Gazebo, prima che gli eritrei «non si fanno identificare per motivi che non conosciamo ma che possiamo ipotizzare», e poi che «più ne fate venire più il problema aumenta».

Così, in questo modo, sembra che i responsabili di questa indecente situazione siano proprio i volontari del Baobab Experience, che richiamano a Roma da tutta l’Italia del sud gli eritrei in transito. Qualcuno, addirittura, negli ultimi tempi, ha evocato una sorta di lobby dell’accoglienza ai transitanti. Il punto è che dimenticano che una lobby agisce in funzione di interessi economici e di potere ben precisi, mentre questi ragazzi appassionati di umanità e di giustizia sociale sono tutti volontari senza riconoscimento di nessun genere. Ma forse proprio questo dà fastidio, perché il modello che propongono si scontra con gli interessi del sistema cooperativo, che gestisce l’accoglienza di secondo livello con gli Sprar e “l’emergenza strutturata”, legati alla politica del potere in quanto portatori di serbatoi elettorali. 

Se la non accoglienza dei rifugiati in transito sembra essere una strategia studiata a tavolino, a riprova di ciò vi è la necessità di dare l’impressione che questi non ci siano, non esistano sul territorio, quindi ecco che arriva l’ordinanza della sindaca Raggi sul decoro pubblico. Cioè a dire gli eritrei che arrivano a Roma se vengono trovati a dormire in strada in un folto numero vengono sgomberati e dispersi, così come se trovati a camminare insieme in numero tale da “offendere” la sensibilità dei cittadini benpensanti. Il tema del decoro pubblico diventa l’altro strumento politico per gestire i rifugiati fantasmi. Anche perché l’attuale amministrazione romana si ostina a ripetere che non ci sono più sul territorio romano transitanti che dormono per strada, mentre in realtà sono dispersi a centinaia sotto i cavalcavia e qualcuno in Tiburtina.

Parlavamo di un fil rouge della politica del potere che si ritrova in modo sistematico nei raggiri che le varie amministrazioni negli ultimi due anni hanno attivato nei confronti dei volontari del Baobab Experience. Vediamo quali sono i passaggi fondamentali, sottolineando innanzitutto che la storia iniziava quando s’interrompeva il rapporto tra il Comune e la cooperativa Dionisio che gestiva formalmente il centro Baobab. Il 12 giugno del 2015 veniva sgomberato un insediamento a Ponte Mammolo di 400 migranti e tutti gli accampamenti di fortuna in zona Tiburtina. La polizia usava le maniere forti e i manganelli, cosa che farà anche in futuro per gli altri sgomberi. A Ponte Mammolo impedisce alle persone di raccogliere gli effetti personali e i documenti. «In quella occasione – spiega Roberto –  fu proprio la polizia stessa a spingere i migranti verso il Baobab per toglierli dalle strade. Ma il centro era ormai sfornito di tutto: senza operatori, senza fondi. Da quel momento iniziava una grande azione di solidarietà da parte dei cittadini di San Lorenzo. Il luogo poteva contenere 210 posti letto ma già da quel momento c’erano 500 presenze, in gran parte eritrei in transito.

Nasceva così un gruppo di persone con diversi background di attivismo che si mettevano insieme per far rinascere il centro. Era un’auto organizzazione, venivano convocate varie assemblee che raccoglievano la mobilitazione di una fitta rete di cittadini e organismi. Venivano contattate aziende per le scorte di produzione. Fu così che prese avvio il Baobab Experience».

Nel frattempo la Giunta Marino ignorava la situazione, senza degnarsi di vedere cosa stesse accadendo. Si formava una rete solidale: chi portava generi alimentari, chi vestiti, chi il suo contributo personale. Pezzi di cittadinanza diventavano le figure di una nuova presa in carico. Nell’agosto del 2015 il centro accoglieva 900 migranti, il cui 99 per cento sempre eritrei: uomini, donne, minori anche non accompagnati, tutti in transito. Non solo, ma oltre al coinvolgimento dei singoli cittadini entravano nella rete organizzazioni come “Medici per i Diritti Umani”.

Poi s’insediava il Commissario Tronca e il sub-commissario Vaccaro che aveva la delega alle politiche sociali, annunciava la necessità di sgomberare il centro, per una sentenza del TAR che imponeva la restituzione ai proprietari, cioè una società immobiliare il cui titolare è un certo Alfonso Tamarri. «Tronca ci chiama – continua Roberto – e ci dice che ci riceverà solo se  l’indomani abbandoniamo il centro. Poi il 6 dicembre diventa una data possibile per chiudere se si trova una soluzione. E noi la soluzione la troviamo, cioè quella di trasferire il centro presso l’istituto Ittiogenico, abbandonato da nove anni. Abbiamo redatto un progetto strutturato costruendo una fitta rete interistituzionale con vari soggetti che andavano da Save the Children ad architetti disponibili ad una operazione solidale. Ma non è successo niente e il centro Baobab veniva sgomberato».

L’amministrazione Raggi sembrava inizialmente voler essere propositiva sul problema, quando nell’estate del 2016 si formava la tendopoli in via Cupa e la rete delle organizzazioni s’infoltiva: oltre a MEDU entravano Intersos, Cir, A Buon Diritto, Action, Radicali, tutti pronti alla gestione di un centro stabile nel futuro prossimo. Nel frattempo però ci sarebbe stata una tensostruttura ad ospitare i migranti, in una sorta di “interegno”. A settembre la tendopoli in via Cupa veniva sgomberata e a novembre l’assessora Baldassarre cambiava atteggiamento: l’unica proposta dell’amministrazione diventava una vettura con due operatori che per qualche ora al giorno avrebbero indirizzato i migranti verso posti letto di primo soccorso che in città neanche ci sono. «Abbiamo fatto dei tavoli da settembre – conclude Roberto – con l’amministrazione per cercare delle risposte sia immediate che di lungo periodo ma si è fermato tutto. Quello che ci hanno detto è che c’è il rischio di creare un polo di attrazione pericoloso per i migranti di tutta Italia, poiché verrebbero tutti a Roma: se noi ne accogliamo cento domani ne verranno altri cento».

Come abbiamo detto, allo stato attuale, sono veramente tantissimi i migranti  accampati sotto i cavalcavia e circa 250 nelle tende della Croce Rossa in via Ramazzini, tra le proteste dei residenti benpensanti, il cui deposito mezzi ha preso anch’esso fuoco proprio qualche ora prima che scoppiasse l’incendio nell’edificio di via Cupa. Questa volta sembra certo che la causa sia stata generata da un senza dimora che cercava di scaldarsi.

Quello che rimane di tutta questa storia è il presidio umanitario permanente in piazzale Spadolini dei volontari del Baobab Experience poiché la loro azione sociale ha inaugurato un metodo di lavoro del tutto nuovo che supera i burocratismi dell’accoglienza istituzionale e finanziata dai fondi pubblici, utilizzati prevalentemente dalle cooperative sociali per coprire i loro bilanci, al di là delle vicende di Mafia Capitale ovviamente. Lì i rifugiati vengono considerati soggetti disagiati da educare, mentre per gli attivisti del Baobab Experience sono semplicemente persone. Ecco da cosa nascono le loro iniziative socio-culturali: dalle attività sportive al tour della città per scoprire le bellezze artistiche della capitale, dai corsi di musica a quelli di fotografia… E se tutto questo infastidisce la politica del potere e i cittadini benpensanti, loro vanno avanti con determinazione e senza rassegnazione.


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