Gentrificazione e resistenze: San Francisco e la Bay Area

Viaggio nel cuore della tech economy, un tempo terra sacra dei nativi Ohlone, oggi paradiso neoliberista e sparpagliato quartiere residenziale gravitante intorno a San Francisco e alle industrie tecnologiche.

Quando nella primavera del 2015 mi misi a cercare una stanza a Berkeley, 15 chilometri a nordest di San Francisco, trovai sul sito craiglist.com una singola a 700 dollari al mese e la rifiutai in quanto fuori budget. Non sapevo allora che nella Bay Area l’affitto medio è tra i 1600 e i 3000 dollari al mese e che a San Francisco un monolocale ne costa in media 3380. Ad agosto 2015, avrei poi trovato un posto in una doppia a 650 dollari all’ultimo piano di una fraternity, con bagno e cucina condivisi con un numero di persone che mi è tuttora ignoto e avrei capito di cosa è fatta la gentrificazione.

Con gentrificazione (dall’inglese gentrification) si intende, dagli anni Sessanta, l’imborghesimento postindustriale di quartieri popolari correlato a un innalzamento incontrollato degli affitti (che porta alla dislocazione forzata degli abitanti delle classi mediobasse) e a politiche urbane di «riqualificazione» attraverso il miglioramento dei servizi pubblici. La gentrificazione è la manifestazione spaziale dei flussi di persone e capitale nell’epoca del capitalismo globale finanziario, dell’inasprirsi del divario sociale nel mondo globalizzato e dell’agonia del welfare state nei Paesi occidentali. Negli Stati Uniti, la gentrificazione si materializza, come mai altrove, nel locus amoenus della tech e della gig economy: la Silicon Valley e la Bay Area, terra sacra dei nativi Ohlone, oggi paradiso neoliberista e sparpagliato quartiere residenziale gravitante intorno a San Francisco, alle industrie tecnologiche della contea di Santa Clara e alle università di Berkeley e Stanford.

Stando a uno studio dell’Università di Berkeley intitolato Urban Displacement, tra il 2000 e il 2013 la regione della Bay Area ha perso il 50% degli alloggi economici (affordable housing), mentre le famiglie a basso reddito aumentavano del 10%: di conseguenza, più della metà delle famiglie locali a basso reddito corre oggi il rischio di doversi trasferire. Secondo i dati Census, tra il 2007 e il 2011 più di cinquemila persone di classe media (cioè, che guadagnano tra i 35 e 75 mila dollari l’anno) si sono spostate da San Francisco all’Alameda County (quella di Oakland e Berkeley), mentre quasi seimila residenti dell’Alameda County si sono spostati nella contea di Contra Costa (più a nord) nello stesso periodo. Si tratta di una transumanza forzata collettiva che crea aree residenziali fortemente caratterizzate in base al censo: dei centri concentrici del tutto eterogenei intorno a San Francisco e ai nodi delle vie di comunicazione. A San Francisco i ricchissimi, in Alameda la classe media, in Contra Costa le classi popolari. Ma il fenomeno, nella Baia, eccede semanticamente l’etimologia di gentrificazione: è la stessa classe media infatti – dopo una metamorfosi in working poor data dall’impennata irrazionale degli affitti – a essere pressata sistematicamente verso i margini e privata delle sue scuole, dei suoi servizi e dei suoi centri di aggregazione. La Baia – «ripulita» e hipsterizzata – conta oggi un 30% di abitanti sotto la soglia di povertà.

Negli Stati Uniti, la gentrificazione – come ogni altra cosa – è legata alla questione razziale. Nella Baia, gli abitanti condannati alla dislocazione sono in gran parte neri e latinos e, sui contratti d’affitto delle loro case, vengono sostituiti da bianchi che lavorano nella Silicon Valley. Oakland, a nord di San Francisco attraversato il Bay Bridge, è una comunità storicamente nera, almeno a partire dagli spostamenti demografici del secondo Dopoguerra: a Oakland, militavano quelle Pantere Nere che negli anni Sessanta scrissero un Ten-Point Program anticapitalista che chiedeva, tra le altre cose, libertà, piena occupazione e giustizia sociale per i neri statunitensi. Il terzo punto del programma chiedeva, allora, «abitazioni decenti, adatte agli esseri umani». Nei dieci anni passati, a Oakland sono arrivati 20mila nuovi abitanti, 40mila posti di lavoro nell’industria tech (da quest’anno, ci sono gli uffici di Uber) e un supermercato Whole Foods (una catena cool di cibo costoso e di qualità), mentre gli abitanti neri diminuivano del 24%. Paradossalmente, è proprio l’eredità di quella vivacità politica e culturale (insieme agli affitti più bassi che a San Francisco) a rendere oggi Oakland un posto «figo» dove abitare per i tech yuppies bianchi del ventunesimo secolo: la gentrificazione allunga i suoi tentacoli anche sull’immaginario. Proprio a Oakland, nel dicembre 2016, trentasei persone sono morte nell’incendio di un magazzino trasformato in abitazione e collettivo artistico. Un magazzino non del tutto adatto «to shelter human beings», avrebbero notato le Pantere Nere.

L’anno scorso, L., uno studente italiano di informatica, ha fatto un tirocinio a Google a 5000 dollari al mese: in quei mesi, viveva a San Francisco ed era uno dei tanti che ogni mattina si accalcano alle fermate degli shuttle bus, autobus aziendali che si spostano dalla Baia alla Silicon Valley. Questi bus enormi, spesso senza nessun logo aziendale, spostano quotidianamente circa 10mila tech workers (con un salario medio di più di centomila dollari all’anno) dai loro quartieri dormitorio (spesso paradossalmente in centro città) ai loro posti di lavoro, a 30-50 miglia più a sud. A San Francisco, gli shuttle bus usufruiscono quasi gratuitamente di 200 fermate del trasporto pubblico, soprattutto lungo la avenue Van Ness e a Mission, un quartiere di tradizione latina, campo di battaglia della gentrificazione più feroce. Intorno a ogni fermata del bus a distanza percorribile a piedi, gli affitti salgono del 20% all’anno, come mostra la ricerca di Alexandra Goldman dell’Università di Berkeley. Per quanto le proteste locali del 2014 contro i Google bus abbiano avuto un’eco globale, L. non ne aveva sentito parlare: «ma come? quei bus riducono il traffico e l’inquinamento!» mi diceva.

Un argine al dilagare della gentrificazione e della dislocazione e al disagio sociale che comportano sono gli affitti calmierati (e di fatto ne esiste una regolamentazione – per quanto non del tutto efficace – a San Francisco, Berkeley e Oakland) e l’inclusionary housing, che costringe i proprietari ad affittare parte dei loro alloggi a soggetti di classe mediobassa: ma questi strumenti possono poco di fronte allo stravolgimento del panorama socioeconomico cui il boom della tecnologia 2.0 ha sottoposto la Baia. Tuttavia, nello Stato del Free Speech movement, delle Pantere e dei movimenti latinos, si resiste: tra gli altri, il sindacato degli affittuari di San Francisco (SF Tenants Union) influenza da decenni le politiche sulla casa della città, mentre il progetto Anti-Eviction Mapping documenta la dislocazione attraverso la un uso radicale della cartografia e della storia orale.

Quanto a me, il secondo semestre andai a vivere in una coop: una casa condivisa tra 60 studenti, dove il vitto (biologico) e l’alloggio stavano sui 700 dollari al mese, a fronte di cinque ore settimanali di lavoro offerto alla cooperativa e di lunghissime assemblee democratiche durante le quali decidere come gestire la casa, il budget, gli ospiti. La Berkeley Student Cooperative, con le sue 20 case, dà vitto e/o alloggio a 1300 membri all’anno, in un campus dove gli studenti che accedono alle residenze universitarie si trovano a pagare rette da 1200 dollari mensili. Dal tetto di Hoyt Hall, la mia coop, dove salivamo di tanto in tanto a cenare nei nostri piatti spaiati, si aveva una splendida vista sulla Baia gentrificata.


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