Turchia, e adesso?

“I russi hanno Putin, perché non possiamo avere una figura così anche noi?” Viaggio nella Turchia del giorno dopo, tra i sostenitori del sì e quelli del no. Nel frattempo continuano gli scioperi della fame in solidarietà con i leader curdi dell’HDP, ancora in carcere, mentre al Presidente le denunce dell’OCSE e dell’Europa sembrano non interessare più di tanto.

“Cosa succederà dal 17 aprile? Come cambierà la Turchia?” Fino alla proclamazione dei risultati del referendum costituzionale per il passaggio ad un sistema presidenziale, con una contestata e risicata prevalenza del sì (51.41) sul no (48.59), erano queste due delle domande più ricorrenti a Istanbul, nelle due ultime settimane di campagna elettorale.

Il giorno dopo la città si è svegliata sotto un cielo grigio. Solo poche ore prima, incuranti della pioggia scrosciante, i sostenitori del Partito Giustizia e Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP), festeggiavano il risultato di una scelta che prevede il conferimento di ampi poteri al Presidente che, al contrario di quanto avviene ora, potrà tornare ad essere anche il capo del Partito.

L’insieme degli emendamenti riguarda 18 articoli della Costituzione turca e prevede, tra i vari cambiamenti, l’abolizione della figura del primo ministro, un maggior controllo del Presidente sui rami dei poteri esecutivo, legislativo e potere giudiziario, l’abolizione delle corti militari, abbassamento dell’età per le elezioni a 18 anni (contro gli attuali 25) e l’aumento del numero dei parlamentari (da 550 a 600).

I partiti dell’opposizione, in particolare il Partito Repubblicano del Popolo (CHP) e il Partito Democratico dei Popoli (Halkların Demokratik Partisi – HDP), ma anche partiti minori come il Partito Democratico  di Sinistra (Demokratik Sol Parti – DSP), hanno descritto la riforma come una manovra per creare un governo, o meglio regime, modellato sulla persona di Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Repubblica dal 2014, con un 51.79% di preferenze raggiunte nelle prime elezioni a suffragio universale. Al contrario, i sostenitori del Presidente si dicono fiduciosi della necessità di affidare la guida del Paese ad una sola persona, al fine di riportare stabilità nel Paese, fortemente polarizzato e teatro di attentati, in particolare dalle elezioni del 7 giugno 2015, che hanno visto emergere  del partito pro-curdo HDP, con un 13.2% di voti.

“Una costituzione è l’espressione di una società” ha spiegato İbrahim Kaboğlu, professore di  diritto costituzionale e oppositore della riforma ad una platea di studenti dell’Università del Bosforo, lo scorso 13 aprile. L’attuale costituzione turca risale al 1982 ed è stata promulgata dopo l’ultimo colpo di Stato, durante il governo dei militari. La discussione di una riforma era, quindi, plausibile, ma l’attuale proposta, con un modello presidenziale à la turca, non ha trovato né approvazione unitaria in parlamento, né presso la società civile.

Gli attori politici: i sostenitori del “sì” e quelli del “no”

L’intera campagna per il referendum, che ha visto contrapposti i due schieramenti, quello per il sì (evet), i cui sostenitori erano il partito maggioritario e il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), né quello per il no (hayır), essenzialmente rappresentato dal CHP, HDP e partiti minori, si è rivelata una campagna condizionata da una serie di fattori: dalla sproporzionata visibilità concessa dai media ai sostenitori del si, al clima di sospetto e paura, legato alla presenza dello stato di emergenza (olağanüstü hâl – OHAL), in vigore dopo il tentato colpo di Stato dello scorso 15 luglio 2016, che attribuito ai seguaci del predicatore spirituale Fetullah Gülen, ha portato a numerosi arresti ed epurazioni tra numerose categorie professionali, oltre ad arresti di personalità politiche di rilievo, come i due co-leader dell’HDP, Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, accusati di collusione con organizzazioni terroristiche.

Al fine di coinvolgere più elettori possibili, in particolare la fascia degli indecisi, stimata tra il 10 e il 15% dai sondaggi pre-elettorali, l’AKP ha organizzato, con modalità simili a quelli delle precedenti campagne elettorali, raduni nelle grandi piazze di numerose città, in particolare nei centri urbani, in cui si presagiva un alto numero di no.

Durante questi meeting, il Presidente, il Primo Ministro o esponenti di rilievo del partito hanno illustrato, con toni quasi informali, i motivi per continuare a seguire l’AKP su una strada “unica” (tek yol), alla quale tutti sarebbero chiamati a partecipare. Così, a  Kayseri, città dell’Anatolia Centrale legata all’AKP, il Primo Ministro Binali Yildirim ha ricordato al pubblico presente i successi ottenuti negli anni di governo del partito, in carica dal 2002, la vittoria  la notte del tentato colpo di Stato, e ha fatto presente i problemi da affrontare: ripresa economica, economici e, soprattutto, fronte comune contro i nemici della Repubblica, ovvero i sostenitori di Gülen, il PKK e le altre organizzazioni terroristiche di matrice marxista-leninista, nonché i membri dell’HDP accusati di essere simpatizzanti -per non dire uguali- ai membri dell’organizzazione terroristica curda, e i quelli di Daesh. Nel discorso del Primo Ministro non è mancato il riferimento all’Europa, dopo le tensioni legate ai mancati incontri  previsti dai Ministri turchi per continuare la campagna del sì tra i cittadini turchi residenti in Germania e in Olanda.

Agli appelli del Primo Ministro, la piazza di quella che è stata definita una delle Tigri dell’Anatolia, per lo sviluppo economico, ha reagito con approvazione, come poi dimostrato dalla prevalenza di “sì” (67.8%) nei risultati elettorali.

“Gli Europei criticano il nostro Presidente, non capiscono. I russi hanno Putin, perché non possiamo avere una figura così anche noi?” afferma uno dei presenti, indossando una sciarpa con il volto del Presidente. Altri sventolano bandiere o fasce con il suo nome, alimentando il dibattito sulla creazione del culto della persona del Presidente, in continua competizione con quella che è la figura di riferimento per eccellenza: Mustafa Kemal Atatürk  fondatore della Repubblica turca.

D’altronde, come ha ricordato lo stesso Presidente nel discorso dell’8 aprile alla folla radunata a Yenikapı, lo stesso fondatore della Repubblica è stato anche capo del partito, aggiungendo un invito ai membri del Chp a rileggere la storia della fondazione del proprio partito.

Un racconto, con toni quasi epici, dell’ascesa e affermazione politica di Erdogan è stato declamato da Ahmet Misbah Demircan, presidente locale dell’AKP, nel suo quartiere natale, Kasımpaşa che, situato all’inizio del Corno d’Oro,  è attualmente al centro di progetti e opere di riqualificazione.

Ad un pubblico composto prevalentemente da abitanti del luogo, in un pomeriggio dedicato ai martiri e agli eroi dello scorso 15 luglio, il sindaco ha ricordato la carriera politica di Erdoğan, da quando pochi avrebbero scommesso che sarebbe diventato sindaco d’Istanbul fino alla sua elezione a Presidente. “Sapevo che un giorno lo sarebbe diventato”, dice con ammirazione. Discorso che evidenzia costruzione della figura, un “eroe” locale che, anche dopo la fortuna politica  personale, non si è dimenticato delle persone del suo distretto natale.

Un sostegno genuino al Presidente è emerso anche nelle testimonianze di alcune liceali presenti a Yenikapı. Per le ragazze, quasi maggiorenni, Erdoğan è un riformatore, che ha permesso di poter praticare pubblicamente l’Islam. L’uso politico del discorso religioso è, inoltre, un elemento ricorrente nelle campagne elettorali del partito di maggioranza, che hanno spesso strizzato l’occhio ai conservatori religiosi. In più, come ha ricordato il prof. di diritto İbrahim Kaboğlu, dopo lo scontro con i gülenisti, si è aperto uno spazio che può essere riempito dai seguaci delle confraternite sufi politicizzate, ancora presenti sul territorio turco. Di fatto, poco fuori dall’area del meeting a Yenikapı uno sguardo all’abbigliamento e al nome del giornale distribuito da alcuni giovani è bastato per confermare la presenza dei membri della confraternita Nakşibendi-Khālidī, collegata alla comunità della moschea di İsmailağa (İsmailağa Cemaati), particolarmente attiva nel quartiere di Fatih, dove propone attività educative e assistenza sociale.

Oltre all’apertura religiosa, un’altra studentessa liceale presente a Yenikapı ha spiegato -in linea con quanto pubblicizzato durante la campagna referendaria- come in passato altri esponenti politici turchi, dall’ex presidente Necmettin Erbakan ad Alparslan Türkeş, colonnello che figura tra i promotori del Colpo di Stato degli anni 1960 e fondatore dell’MHP (partito di riferimento dl movimento nazionalista dei Lupi Grigi), avessero già provato a introdurre il presidenzialismo, per arginare gli scontri tra partiti che hanno caratterizzato storia turca fino al colpo di Stato degli anni’80.

Solo pochi giorni prima di Yenikapı, ad Ankara, ha avuto luogo una cerimonia commemorativa per Türkeş, presieduta dal portavoce del partito nazionalista di Devlet Bahçeli, che attualmente è il terzo in Parlamento, 79 seggi, a cui hanno partecipato numerosi studenti dell’università Gazi, in gruppi con le bandiere dei movimenti giovanili chiamati i Focolari dell’Ideale (Ülkü Ocakları).

Il sostegno di Bahçeli, storico contestatore di Erdoğan, che in precedenza aveva definito il sistema presidenziale “una ricetta per un sultanato senza trono”, ha portato ad una spaccatura con una fazione schierata per il no, guidata da una donna: Meral Akşener.

Originaria di İzmit, città industriale a 200km circa da Istanbul, la Akşener è un ex membro del partito nazionalista, dal quale è stata espulsa per aver tentato di scalzare l’autorità di Bahçeli. La sera del 28 marzo, davanti al pubblico presente nell’auditorium di Bostancı, nel lato asiatico d’Istanbul, l’ex parlamentare ha spiegato, con voce decisa e buona dose d’ironia, i diversi motivi a sostegno del no, elencando accentramento di potere, crisi economica e, non ultimo, le incongruenze delle scelte politiche del partito maggioritario, come il sostegno a Barzani, nonostante le questioni interne con i curdi. I toni iper-nazionalistici usati su quest’argomento, l’origine della matrice politica, lontana dalle posizioni dell’HDP e del CHP, nonostante la comune opposizione a quello che è stato definito “il regime di un solo uomo”. Durante la campagna referendaria, le è stato rifiutato il permesso di tenere comizi in alcune città, in altre ci sono stati incidenti, come tagli della corrente, ma ad Istanbul e ad Izmir, il suo pubblico ha riempito gli spazi concessi.

La campagna del CHP, nonostante le pubbliche accuse del leader Kemal Kılıçdaroğlu e la larga diffusione del partito, sembra mancare di presa sul pubblico. Come hanno affermato un paio di giovani, di Gebze e Istanbul, il partito è spesso percepito come un’entità elitaria, che non riesce ad avvicinarsi alla gente comune, nonostante. Invece, la capacità di raggiungere il pubblico e promuovendo una partecipazione dal basso è uno degli elementi caratterizzanti del partito del Rais. “Ci accusano di avere troppo spazio in TV e di aver speso troppi soldi per la campagna elettorale” ha spiegato un ragazzo del movimenti giovanili dell’AKP (AKP Gençlik Kolları) a Yenikapı , “ma non è vero, noi lavoriamo sodo, abbiamo preparato questo meeting, informiamo le persone nel nostro quartiere. Loro si lamentano solo”. Tuttavia, oltre Kılıçdaroğlu, nel corso della  campagna referendaria, si è notata la presenza di Muharrem İnce, deputato di Yalova, che ha cercato di sensibilizzare quanto più possibile il pubblico nelle città industriali sul Mar Nero e nelle campagne.

Più complessa, invece, la situazione del partito pro-curdo, la cui visibilità e presenza pubblica ha risentito dei numerosi arresti di quest’inverno, soprattutto quello dei suoi due co-presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, in prigione con l’accusa di sostengo all’PKK.

Come spiega un curdo di Dolapdere, quartiere povero nel lato europeo d’Istanbul, Demirtaş resta un eroe, come anche la co-leader, una turca “che però ha letto, ha studiato e ha appoggiato la causa curda”. Tuttavia, sempre nello stesso quartiere, c’è chi pur appoggiando ancora l’HDP ha delle obiezioni: “ci sono stati degli errori interni. Qualcosa deve cambiare”.

Intanto, lo sciopero della fame, di Demirtaş alla fine di marzo, ha ispirato altre azioni simili, da Istanbul a Diyarbakır, per attrarre l’attenzione sulla condizione dei detenuti nelle carceri, mentre le sue parole a non aver paura nel votare “no”, sono state riportate sulle immagini distribuite agli stand.

“Anche se cercano di ostacolarci, i curdi sono dei combattenti, voteranno no” ha spiegato una rappresentante dell’HDP presso uno stand a Beşiktaş. “Siamo qui, anche se ogni giorno succede qualcosa e la polizia controlla cosa distribuiamo. Noi siamo qui perché anche se uscisse un “no”, con il 51% potrebbero esserci problemi, potrebbero esserci imbrogli. Così, bisogna cercare di spiegare alle persone indecise. Sappiamo che ci sono tanti curdi, soprattutto nell’est, che dopo il colpo di stato e gli attentati hanno paura. Eppure sono dei combattenti, il loro voto ha un forte peso”. Alla luce della differenza di percentuali tra il si e il no ottenute, le sue parole risultano quasi profetiche. Così oltre contestare i risultati delle elezioni, l’HDP è stato uno dei primi partiti a proporre un ricorso per i brogli elettorali.

Società civile e movimenti dal basso

A sostegno del “no” sono scese in campo anche diverse associazioni per i diritti civli, preoccupate per gli effetti della riforma costituzionale e del prolungato stato di emergenza. Una delle associazioni ha visto la partecipazione di 550 ex parlamentari (550 Milletvekili) proveniente da diversi schieramenti politici. Come riportato sul quotidiano Hürriyet, il 7 aprile, l’ex parlamentare Gönül Saray ha affermato che loro non sarebbero rimasti da parte: “mentre il parlamento -che è il più grane potere di un sistema democratico parlamentare – è reso disfunzionale”. La presa di posizione degli ex parlamentari, come quella di diverse categorie e associazioni professionali si oppone alla fusione dei ruoli in un unica figura per il controllo del potere esecutivo, legislativo, giudiziario, fino all’influenza sui militari,oltre che al possibile isolamento politico ed economico del Paese.

Motivazioni condivise dalle associazioni e dai movimenti dal basso, che raggruppano gruppi femministi, LGBTQ, ambientalisti e gruppi orientati a sinistra che, rifacendosi all’esperienza di Gezi Park, hanno iniziato un tamtam di informazione attraverso incontri locali, attività pubbliche condivise nei parchi e in zone visibili della città, oltre ad un uso capillare dei social network.

Tra queste associazioni emergono, ad Istanbul, gruppi presenti nell’area asiatica di Kadıköy, come BiBu (Biraradayız Buradayız) e gruppi per i diritti delle donne. La partecipazione dal basso è stata promossa anche attraverso una pagina web, quella della Piattaforma del no (Hayir Platformu), dove si può trovare sia materiale informativo sul referendum che materiale stampabile da poter appendere nelle strade, oltre ad una serie di link che permettono di venire a conoscenza delle attività previste in diversi quartieri d’Istanbul e città della costa egea.

Uno degli effetti visibili dell’operato delle organizzazioni dal basso è stato il dibattito in strada tra sconosciuti, che si confrontavano, più o meno tranquillamente, sulle diverse posizioni, tirando in ballo le più diverse argomentazioni, da quelle più generali -come la crisi economica e l’inflazione- alle situazioni personali, com’è avvenuto ad Ankara, dove un gazi, un’eroe della notte del colpo di Stato – oggi impiegato- e un disoccupato hanno avuto un acceso confronto sul tema del lavoro e, soprattutto, dell’assistenza sanitaria. Per il disoccupato, l’indennizzo mensile che l’altro percepisce, a fronte della ferita ricevuta la notte del colpo di Stato, è una “miseria”, soprattutto a fronte dell’assistenza gratuita ricevuta dai siriani. Quello della discriminazione positiva dei rifugiati è uno dei temi ricorrenti: l’accesso alle università, alloggi e la promessa di concedere loro la cittadinanza, promessa dall’AKP, non sono ben viste, soprattutto da chi teme una crescente “arabizzazione” del Paese.

Sempre nelle strade della capitale sono emersi altri punti che esprimevano le perplessità e le obiezioni della gente comune alle riforme. Tra questi, uno riguarda l’abbassamento dell’età per entrare in parlamento. “ A me non importa se questa proposta viene da destra o sinistra” dice un signore “ma che esperienza può avere un ragazzo di diciotto anni? anche a venticinque è troppo giovane per entrare in Parlamento”. Il timore, condiviso anche da alcune persone ad Istanbul, è che l’emendamento sia stato proposto per attrarre la componente più giovane, e presumibilmente influenzabile, dell’elettorato. L’attenzione ai giovani, l’accento sul futuro delle giovani generazioni, l’uso di slogan colorati e canzoni orecchiabili sono state, inoltre, una componente essenziale delle campagna referendaria di entrambi gli schieramenti.

Più pragmatico, invece, l’atteggiamento mostrato dagli over 40 che animano i quartieri asiatici d’Istanbul, ma anche Ankara e Kayseri. “Mi piace l’Aksener, è più moderata di quelli del MHP. Quelli al governo, per anni hanno fatto quello che volevano, ora che vogliono di più? ma penso alla stabilità e agli affari” ha spiegato un costruttore edile, dopo la presentazione della lady a Bostancı, concludendo con un “quale sarà la mia scelta secondo te?”.

La disillusione, la stanchezza per le continue tensioni degli scorsi anni, il timore di nuovi attentati e la paura di esporsi troppo, sono stati elementi ben visibili di questa campagna referendaria, anche se  durante l’ultima settimana ad Istanbul, si è notata una maggiore attività pubblica, compresa una manifestazione per i giornalisti incarcerati, in aggiunta ai comizi di chiusura dei vari partiti previsti per il sabato pomeriggio.

Le votazioni del 16 aprile: tra celebrazioni e contestazioni

“Qualsiasi sia il risultato, niente sarà come prima”. Affermazioni come quella di un trentenne d’Istanbul sono state, in varia misura e con toni più o meno simili, riscontrate in vari discorsi in strada.

Fin dalle prime ore della mattina del 16, sui social, sono apparsi messaggi di chi stava andando a votare o chi aveva già votato. Nel quartiere conservatore di Fatih, a Istanbul, ai seggi arrivavano famiglie con bambini e gruppi di giovani donne velate in nero, quelle spesso indicate come esempio della crescente deriva religiosa temuta in altre aree, di tradizione meno conservatrice, della città. C’è chi scatta una foto ad un uomo con foulard in testa: “guarda, un siriano” dice, facendo riferimento alla possibile introduzione di infiltrati ai seggi. Un tema delicato che, già da solo, basterebbe a provocare reazioni.

Nel corso della giornata, da più parti del Paese, sono diffuse immagini dai seggi, comprese quelle che oggi servono come accusa per i brogli, con le schede non validate dal Consiglio Elettorale Supremo (Yüksek Seçim Kurulu – YSK).

A Istanbul dei curdi presententi in un seggio nel quartiere di Dolapdere hanno chiaramente espresso il loro timore. Come ha spiegato un commerciante del posto: “c’è chi viene da Diyarbakır, Van, Agri. Siamo tutti dell’HDP e tutti voteremo no, ma siamo preoccupati per quello che succederà nell’est” .

Gli eventi della giornata gli hanno dato ragione: tre morti a  Diyarbakır. La città di riferimento per i curdi ha espresso una prevedibile preferenza per il “no” (67.6%), ma in altre città a prevalenza curda il risultato visto prevalenza di sì, come a Şanlıurfa (78.2%) . “Soprattutto nei villaggi, a causa della pressione dei soldati abbiamo preso pochi voti” comunica un signore del posto, mentre nell’est sono stati riportati casi di rimozione degli osservatori locali, con l’accusa di appoggiare il terrorismo.

Nel tardo pomeriggio,quando le cifre cominciavano a mostrare una possibile vittoria del sì, con prevalenza di poco più del 50%, i sostenitori del partito di maggioranza hanno iniziato a festeggiare, mentre un’operatore video inglese commentava, sbalordito: “ancora non hanno i risultati ufficiali”.

Le stime dell’Anadolu Agency, l’unica agenzia autorizzata a diffondere i risultati, si sono assestate sul 51.41% per il sì e 48.59% per il no, che ha prevalso ad Istanbul, Ankara, Izmir, sulla costa egea e nelle città dell’est .

La sera, mentre nelle sedi del partito di Sütlüce e a Tarabya, dove il Presidente ha pronunciato il suo discorso di ringraziamento, erano in corso i festeggiamenti per il risultato, in altre aree della città, più legate all’opposizione, come  Kadıköy e Beşiktaş, sono apparse le prime proteste per un risultato considerato frutto di un imbroglio.

Proteste sono scoppiate, però, anche quartieri più radicali come Gazi, periferia urbana legata ai militanti di sinistra e a quelle che sono considerate organizzazioni terroristiche. Proprio a Gazi, pochi giorni prima del referendum, l’uccisione di due ragazzi da parte della polizia aveva già portato a manifestazioni, davanti ad una cemevi, luogo di culto degli Alevi, minoranza religiosa che da anni chiede il riconoscimento dei propri diritti.

Le scene della notte del 16, celebrazioni da una parte e prime proteste nelle strade, mostrano la spaccatura del Paese rispetto una scelta problematica, senza veri vincitori. Se da una parte, quelli del “sì” avranno la possibilità di riavere il loro presidente come capo del partito e dello Stato e,  allo stesso tempo, l’opposizione può consolarsi dei risultati raggiunti nonostante le difficoltà del portate avanti la propria campagna elettorale, nell’insieme tutte le parti politiche si trovano a fare i conti con una serie di spaccature e problematiche interne più pressanti delle rivalità tra partiti.

Quella interna all’AKP si è palesata con l’assenza ai comizi dell’ex presidente Abdullah Gül e dell’ex Primo Ministro, Ahmet Davutoğlu, e con lo scontento di diversi membri del partito che potrebbero guardare ai vecchi personaggi di spicco della storia del partito come possibili alternative, nel caso della fondazione di un nuovo partito.

A complicare la situazione c’è la politica estera e il sempre più travagliato rapporto con l’Europa. A solo due giorni dal referendum, il rapporto dell’OSCE, che denuncia i brogli elettorali e una campagna referendaria disequilibrata, apporta nuovo materiale di scontro. Le critiche e le opinioni dell’Europa sembrerebbero, però, non interessare più né al Presidente che ha prontamente rivendicato il diritto alla non ingerenza negli affari interni, né a diversi cittadini, anche curdi, che ricordano come l’Europa è stata zitta e non ha detto nulla di fronte alle operazioni militari nell’est del Paese, che hanno portato alla distruzione di intere aree e migliaia di sfollati.

Di più difficile interpretazione è, invece, la reazione di quella parte di società civile, giovani soprattutto, scesa in strada per protestare e denunciare le irregolarità delle lezioni.

La sera del lunedì, sotto una pioggia scrosciante, un corteo a Beşiktaş ha percorso le strade del quartiere, per protestare contro un voto ritenuto illegale e per invitare la le persone a scendere in strada, o a protestare con il suono di pentole e cucchiai. Azioni simili sono state realizzate in altre parti della città e a del Paese e sono previste per tutta la settimana. Queste azioni, da una parte, mostrano la reattività del popolo turco, nonostante l’annuncio di un ulteriore estensione dello stato di emergenza per altri tre mesi, ma da un’altra parte, emerge sempre più pressantemente  la necessità di un dialogo tra le varie parti politiche per focalizzarsi su quelli che sono i problemi interni legati alla crescente inflazione e disoccupazione.


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