Gentrificazione e resistenze a Bologna

Bologna è una città in costante cambiamento, non per forza positivamente. E nella Bolognina sta avvenendo quanto è già successo al Pratello: la gentrificazione passa per gli sgomberi e la «riqualificazione estetica». Il risultato finale? Innalzamento degli affitti nei quartieri appena fuori dal centro ed esodo verso la periferia vergine tutta da costruire.

Quando, nel marzo 2016, lo street artist Blu si mise a cancellare le sue opere sparse per Bologna, i benpensanti – che in altri tempi avrebbero messo una «taglia» sui writers di via Petroni – si ersero inopportuni a paladini dell’arte di strada, chiedendo che quei murales venissero in qualche modo preservati, in quanto da loro catalogati come «bene di tutti». Ma l’azione performativa e politica di Blu (e di altri con lui) non veniva per vezzo: in quel mese, Genius Bononiæ di Fabio Roversi Monaco (ex rettore dell’Università di Bologna, ex presidente di Imi, di Fondazione Carisbo…) aveva organizzato una mostra intitolata L’arte allo stato urbano, appropriandosi di pezzi di muri dipinti da altri per «salvarli dalla demolizione e preservarli dall’ingiuria del tempo». Blu agiva quindi contro la museificazione dell’arte di strada e la mercificazione sfrenata di ciò che è collettivo; interrogato da due vigili urbani su quanto andava facendo, Blu consegnava un volantino che diceva: «di fronte alla tracotanza da landlord […] di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni».

Uno dei murales cancellati da Blu – il più grande, il più iconico – si trovava su una facciata dello spazio pubblico autogestito Xm24, presente dal 2002 dove sorgeva il mercato ortofrutticolo, nello storico quartiere popolare della Bolognina. Quel murale era stato creato per proteggere con l’arte quello spazio dalle minacce di demolizione e rappresentava una battaglia tolkieniana tra la Bologna arroccata dentro le mura (la Bologna delle mortadelle e dei controllori ATC, delle forze di polizia e del sindaco Sauron) e quella meticcia e popolare che la assedia da fuori (la massa critica dei cavalieri di Rohan e i no Tav, i cocomeri e il book bloc). Ora, quello stesso Xm, con la sua facciata grigia dove fu il murale, è minacciato di sgombero entro giugno 2017: questo ennesimo sgombero si inserisce nel progetto pluriennale di «riqualificazione» della Bolognina.

La Bolognina è un rione popolare e migrante, con una lunga storia di lotte sindacali: amministrativamente, appartiene al quartiere Navile. Data la sua posizione nella primissima periferia (strategicamente a ridosso della nuova stazione Av) e la sua composizione popolare, il quartiere è al centro di un progetto di «riqualificazione urbana», inaugurato nel 2007 sotto l’assessorato all’urbanistica dell’attuale sindaco Virginio Merola.

Di quel piano di «riqualificazione» (che è parola amministrativa per gentrificazione), faceva parte Trilogia navile, un progetto su 300 mila metri quadrati di suolo che prevedeva la realizzazione di lotti di appartamenti privati, 300 appartamenti di edilizia popolare e sociale, un poliambulatorio, una scuola, uno studentato e nuovi uffici comunali. Trilogia Navile si presentava come il primo tentativo italiano di progettazione urbana partecipata (2005-2007), ma ad oggi, del progetto originario sono stati realizzati solo gli alloggi privati e una residenza universitaria, mentre le varie aziende costruttrici sono fallite o liquidate, senza che siano stati pagati gli oneri di urbanizzazione. Del progetto partecipativo (che voleva «immaginare e definire un tessuto urbano innovativo, in cui trovasse spazio un’edilizia privata perfettamente integrata all’interno di spazi pubblici e ampie aree di verde») è rimasto un comitato di cittadini (istituito nel 2014, a progetto impantanato) composto da chi aveva acquistato appartamenti nel «futuro centro di Bologna» e si trova ora a vivere in un grattacielo che pare un fungo velenoso in un cantiere abbandonato.

La gentrificazione – sostiene Paola Bonora dell’Università di Bologna – ha come obiettivo «riprendere il controllo urbanistico sia dal punto di vista formale/estetico (attraverso ristrutturazioni, attraverso l’arredo urbano, attraverso il decoro sostanzialmente)» sia da quello sociale in quanto «le operazioni di riqualificazione portano a innalzamento dei valori di suoli e immobili e quindi avviano un processo di ricambio sociale». La gentrificazione della Bolognina, nonostante l’inceppo causato dal fallimento di Trilogia Navile, continua sistematica, così come era avvenuto prima per il Pratello, un quartiere popolare e eretico dentro le mura che, dopo gli sgomberi delle occupazioni negli anni Novanta, è stato sottoposto a una «riqualificazione estetica» attraverso un processo di pedonalizzazione–lastricazione–illuminazione–riverniciatura culminato, come prevedibile, in gentrificazione. Quanto alla Bolognina, il presidente del quartiere Navile, Daniele Ara, ha dichiarato programmaticamente a Radio Città del Capo che c’è «bisogno di portare un po’ di ceto medio da mescolare con chi vive nelle duemila case Acer della zona». Nel frattempo, il progressivo innalzamento degli affitti nei quartieri appena fuori dal centro provoca un esodo verso la periferia vergine tutta da costruire: secondo Bonora, «la “rigenerazione” rappresenta il core business degli anni futuri», e così il «seno sul piano padano» della Bologna-vecchia-signora si gonfia a dismisura.

A Bologna, oggi, il piano di progressiva centrifugazione del dissenso e del disagio che muove la gentrificazione della Bolognina si riflette nella lunghissima serie di sgomberi degli spazi autogestiti (Atlantide nel 2015, e quelli annunciati di Xm24 e Làbas, l’ultimo per realizzare «un albergo, una trentina di alloggi, attività sociali e ristorative») e delle occupazioni abitative (via Solferino, via Fioravanti, via de Maria, via Mura di Porta Galliera) tra l’autunno 2015 e quello successivo; nella gestione antidemocratica della costruzione del Passante di Mezzo; nei progetti (poi semi-abbandonati) del Lazzaretto (oggi un’area ex agricola malservita, divisa tra edilizia residenziale e universitaria) e della Casaralta (che sarebbe dovuta diventare una Défense della Parigi minore); nel contestato progetto della Fabbrica Italiana Contadina di Oscar Farinetti/Eataly (che sorgerà nell’attuale CAAB, quel mercato ortofrutticolo che stava prima nell’attuale sede di Xm) e in quello della Cittadella del fashion in zona Roveri. Lo spazio striato di Deleuze e Guattari, a Bologna, si apre in squarci.

Sullo stesso disegno era stato ricalcato il cosiddetto progetto Staveco, da realizzarsi nell’ex area militare di proprietà demaniale (ex-Staveco), ceduta nel 2013 dal Comune di Bologna all’Università dell’allora Rettore Dionigi per essere riconvertita in un campus all’americana, a fronte della vendita di nove palazzi storici di proprietà dell’Ateneo, alcuni dei quali in via Zamboni: uno degli scopi, secondo Patrizia Gabellini, assessora all’Urbanistica della prima giunta Merola, era: «l’alleggerimento della presenza dell’Università in via Zamboni, che si tenta dagli anni ’70». Contro il progetto – per i costi e la retorica da grande opera, le implicazioni sul patrimonio storico-artistico e immobiliare dell’Ateneo e il modello di università gated che comportava – si erano espressi, a suo tempo, collettivi e studenti, prima che il neoeletto Rettore Ubertini vi rinunciasse e scegliesse di dedicarsi alla «riqualificazione della cittadella universitaria», cioè al controllo degli accessi agli spazi pubblici di via Zamboni, che cittadella non lo è mai stata ed è sempre stata città.

Nella lotta per la divisione sociale dello spazio urbano di Bologna, attori forti come FICo o il Tav, appoggiati da un’amministrazione spesso accondiscendente ai loro desideri, si appropriano sistematicamente degli spazi degli abitanti storici o di quelli deboli, imponendo così – con le parole di Giovanni Semi – «un genere di vita di nuovo tipo, funzionale alle rinnovate forme di colonizzazione della vita privata e pubblica da parte del capitale». Bologna e la sua amministrazione si riscoprono ad amare il pulito e il cool; le grandi catene che in centro si travestono da negozi pseudo-artigianali e finto-poveri che scacciano gli alimentari troppo-poco-medievali di bengalesi e pakistani; la militarizzazione del centro storico; gli autobus che non arrivano in periferia; e una sinistra culturale ma non sociale. L’estate scorsa, quando a Bologna si bevevano birre calde perché un’ordinanza vietava di venderle da frigorifero, il blogger Wolf Bukowski parlava di una «guerra contro le forme di vita cittadine dai consumi troppo modesti, impossibili da nobilitare o gentrificare». In un recente appello collettivo contro lo sgombero di Xm, si legge: «la Bologna ufficiale è una città boriosa, soffocante, sempre più allergica ai poveri e a marginali. Una città che sogna di sterilizzarsi dai germi del dissenso, e una di queste mattine potrebbe risvegliarsi sterile.»

Scrive B.a.u.m. (Bolognina arti urbane in movimento), citando Calvino, «ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone»: questo è il deserto di Bologna, che sta tutto sotto la pittura grigia con la quale Blu ha nascosto il suo murale, sulla facciata a punta di Xm, al numero 24 di via Fioravanti.

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