Tra Argentina e Polonia, negli interstizi della Storia

La raccolta “L’occhio di Celan” di Susana Szwarc (Edizioni Fili d’Aquilone, 2016, traduzione di Alessio Brandolini) è dominata dal sensoriale. Chi legge i suoi versi li sente sulla pelle, nulla lascia indifferenti. Ci si può scottare in “Bruciature”, ci si può sentire smarriti nei meandri dei molteplici sentieri aperti e apparentemente zeppi di foschia, ben vivido è l’impatto di “La pista” in cui tre regioni sono cancellate dalle mappe e dalla storia di botto: la poesia lo svela con un solo, incisivo verso d’apertura. Un verso come una lancia nel cuore.

Tutto sensoriale è anche il rapporto con la storia, la poetessa la vuole palpare perché, nonostante le tante rimozioni, falsificazioni e versioni ufficiali confezionate dai vari sistemi dominanti, è lì nel nostro tempo il residuo di un contatto con gli accadimenti storici, in certa misura ancora a nostra portata. “Mi scoprii prima un occhio / dopo la mano / e il guanto scivolò in fondo / a una fossa comune.”; “Le orme dei tuoi piedi: / torneranno?, ancora?”.

Szwarc interroga dei frammenti di memoria e insiste sui “tagli”. Tutto assume una dimensione molto concreta ed esplora il mondo polacco ed ebraico della sua famiglia migrata in Argentina così come il mondo delle regioni settentrionali argentine, quali il Chaco in cui vive, spesso cancellate dalla storia nazionale e ancora oggi molto marginalizzate, a causa del perpetuarsi dello scollamento delle realtà metropolitane di Buenos Aires e Córdoba da quell’ ‘altrove vicino’ che è un mix di povertà importata e ricchezza ancestrale, il volto sempre nascosto dell’Argentina agli argentini.
Szwarc parte dal quotidiano, interroga vite, gesti, uomini e donne; ad una studentessa domanda: “guadagni parecchio? ; hai campi / di soia? Ride ancor più e null’altro”. Così ci presenta il dramma attualissimo del disboscamento del Nord dell’Argentina con cui si sta lasciando spazio a immensi campi di soia, campi infestati da veleni, pesticidi, fumigazioni, sfruttamento e schiavizzazione, land grabbing, riduzione dell’habitat che ospita animali e popolazioni native di quell’area. Così smaschera la disinformazione data in pasto a chi, come quella studentessa, probabilmente non conosce i risvolti di certi business e ride, prendendo a cuor leggero un male che le si rivolterà contro. In effetti, Szwarc lo dice chiaramente: “forse risiede / in se stessi la prova, il nemico?” La linea tra male e bene chi e in quale punto potrà tracciarla? Con quanta sicurezza? È il nostro tempo ad imporci questo? È sempre stato così? È la natura umana o, come preferirebbe evidenziare Jacque Fresco, fondatore del Venus Project e di proposte per il rinnovamento sociale, anche il comportamento umano a cui siamo stati educati ed è reversibile?

Sono grandi domande, grandi almeno quanto il titolo di una poesia della raccolta: “Verso dove?”. Eh già. In mezzo a tante distrazioni, capricci e contingenze banali la poetessa argentina sente di perdere la bussola, quasi fino allo svenimento. Ma sembra giungere una risposta: “è sull’amaca dove / si decide la rotta”. In mezzo a tanto pur prolifico movimento, è nel raccoglimento che gli eventi assumono senso nella loro profondità, non a caso il momento della siesta è così ricorrente nella raccolta poetica. Che sia proprio un’amaca a sostituire la scrivania dello scrittore/filosofo/critico è un tocco latinoamericano ma anche di poetica. L’amaca è il luogo in cui comincia la vita per alcune culture che partoriscono in casa e rifacendosi ai saperi locali, l’amaca è quindi la condizione fetale, ancestrale, il sogno come pure la necessità di spazi aperti, di due alberi a cui tenderla. È soprattutto il continuo e impercettibile oscillare pur restando fermi, un inno al sostare senza stagnarsi.

La grande tangibilità della raccolta è bilanciata da una certa volatilità. La parola volatile è ripetutamente posta in corsivo in “Le acque non ci riconoscono” e sembra riferirsi ad un uccello ma anche a qualcosa di più. In un’altra poesia si fa riferimento all’airone senz’ombra che si libera dalle pagine dell’omonima raccolta del poeta cubano José Kozer e dai corridoi dell’ospedale in cui la poetessa apre quel libro. In “Durante la siesta” il volo spiccato apre verso altri orizzonti e, accanto alla necessità di fare zoom in sui singoli casi, si manifesta anche quella di mantenere il quadro d’insieme e tessere le connessioni. Con questo sguardo, Szwarc investiga gli “interstizi della storia”.
Scruta allora “Tra le colonne” dove, col sottofondo di una filastrocca polacca, le vengono alla memoria Bucara e Napalpí, due luoghi geograficamente lontanissimi (il primo in Uzbekistan e il secondo nel suo Chaco argentino) ma accomunati dalla stessa meschina storia di violenza. Gli anni sono pressapoco gli stessi: tra il 1920 e 1930 a Bacara cominciano le repressioni contro la comunità ebraica lì insediatasi da tempo; il 19 luglio 1924 centinaia di indigeni qom e mocoví vengono trucidati nel Massacro di Napalpì perchè hanno osato protestare contro la condizione di schiavitù in cui versavano nelle loro riserve, costretti a produrre cotone.

Gli strumenti di cui Szwarzc si avvale per creare quadri completi sono: 1) la parola “precisa come uno sparo”, mai dedita a riempire o a creare orpelli, talvolta evocativa ma agente come controcanto, stridìo, voce insolente o autocritica e 2) il catalogo, sia esso di luoghi che di prospettive e ne é un chiaro esempio “In questo paese” in cui la poetessa sembra riportare il vivace avvicendarsi delle opinioni, spesso in profonda antitesi fra di loro, attorno a come sono percepite dai diversi settori della società le persone socialmente escluse. Il canto finale, citato in lingua wichí (u’ yalh i’hi, traducibile secondo la nota al testo come: respirare o resistere o prendere fiato) non schiaccia le altre voci riportate, piuttosto riesce a collocarsi nella baraonda delle altre. Qualcosa del genere accade quando cita canzoni in yiddish o si riferisce alla lingua di sua madre, il polacco che, seppure in sordina, coesiste con la lingua della vita, lo spagnolo.
Qui come in altri punti de “L’occhio di Celan”, l’accento è posto sulla dimensione onirica, oracolare, fiabesca della voce umana, quel sottile fiato in antitesi con quella risata disperata e famelica che abbiamo incontrato nel caso della studentessa e del campo di soia e che prefigura la iena chiusa nel petto di ognuno di noi.

Parlavamo dei tagli della memoria, degli interstizi, della parola che vi si incunea e incrosta. Swarzc sembra applicare in poesia la tecnica giapponese del kintsugi, quella secondo la quale se un vaso è rotto le crepe vanno riparate e messe in evidenza, anche con oro. L’occhio poetico di questa scrittrice sospesa tra Polonia e Chaco, mette insieme attraverso la parola poetica le dolorose ma anche preziose cicatrici del passato e del presente. Vederle, conservarle, farle nostre è quanto ci chiede insistentemente. In questo senso i versi “Chi ora nega, dopo afferma?” E poi “Chi nega / cosa afferma?” sembrano un richiamo a chi vuole tapparsi gli occhi anche di fronte ad una storia svelata. Quando ci si ritrova costantemente “sedotti / dalla crudeltà del mondo, / allontanati dai seni generosi, / i corpi feriti da cifre, / bisturi, pavoni, guerre”, bisogna dubitare, nel senso più altamente filosofico e indagativo del termine e conviene cominciare a farlo a partire da se stessi.


L’ARTICOLO È PARTE DEL 6° NUMERO DE LA MACCHINA SOGNANTE, UNA RIVISTA DI SCRITTURE DAL MONDO. OGNI SETTIMANA FRONTIERE NEWS PUBBLICA UN ARTICOLO SELEZIONATO DALLA REDAZIONE DE LA MACCHINA SOGNANTE.


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