Mezzo secolo di occupazione in 50 storie di vita quotidiana in Palestina

Dal 5 al 10 giugno 1967 il vicino oriente fu insanguinato da quella che passò alla storia come la Guerra dei sei giorni.

Attaccati a sorpresa dall’aviazione di Tel Aviv, gli alleati arabi tentarono di reagire alle varie operazioni militari che gli israeliani condussero via aerea e via terra. Un blietzkrieg che colse gli eserciti arabi (principalmente Egitto, Siria e Giordania) alla sprovvista, benché fu proprio lo schieramento delle truppe di questi ultimi a dare a Israele il pretesto per muovere guerra.

Gli arabi ricordano questi giorni come an-Naksah (النكسة), “la sconfitta”: alla fine della guerra Israele aveva infatti conquistato la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all’Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria.

L’espansione territoriale israeliana, benché ottenuta in pochi giorni di combattimenti, è costata la vita18mila soldati arabi e a circa 700 militari israeliani. Questo evento bellico ha lasciato in eredità la famigerata condizione giuridica dei territori occupati (Cisgiordania – inclusa Gerusalemme Est – e la Striscia di Gaza) che Israele, potenza occupante, definisce “contesi”, e il problema dei rifugiati palestinesi (a cui Israele rifiuta categoricamente il diritto al ritorno).

L’occupazione nega ai palestinesi il controllo su aspetti fondamentali della vita quotidiana. La capacità di muoversi senza restrizioni all’interno del proprio paese, di uscire e di farvi ritorno, di sviluppare il proprio territorio, di costruire sulla propria terra, di accedere alle proprie risorse naturali o di sviluppare la propria economia è in gran parte determinata dall’esercito israeliano.

Le politiche legate all’occupazione hanno diviso villaggi, intaccato la coesione sociale, privato i palestinesi dei propri diritti umani, influenzato l’attività economica e minato il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

L’OchaOpt (United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs in the Occupied Palestinian Territory) ha raccolto 50 storie per raccontare la vita della popolazione palestinese in questi 50 anni di occupazione militare che – tra bombardamenti, assedi, annessioni e raid – sembra non finire mai (neanche nella “libera” Striscia di Gaza).

NASSER SAMMOUR – AL QARARA | GAZA

 “Al termine dell’inverno 2016, ho affittato 150 dunum da un proprietario terriero nell’area di Al Qarara, a circa 700 metri dalla recinzione. Lì ho piantato 13 tipi di colture. In un terzo del terreno ho piantato spinaci, perché sono molto richiesti d’inverno.

Tutto è andato bene, sono riuscito a trovare un grossista che mi ha pagato oltre 11mila dollari in anticipo per quella merce.

Nel gennaio 2017, appena tre giorni prima del raccolto, un aereo israeliano ha spruzzato le colture con degli erbicidi, e tutta la coltivazione di spinaci è stata distrutta.

Avevo già usato i soldi ricevuti dal grossista per coprire il costo di gestione e per pagare l’affitto al proprietario.

La mia perdita è di circa 43mila dollari. Non ho soldi per pagare il grossista”.

(Leggi l’intera storia di Nasser)


ABBAS YOUSEF – AL JANIYA | RAMALLAH

Abbas possiede un terreno situato all’interno della recinzione di un insediamento israeliano, con due file di alberi di ulivo.

Tra il 2000 e il 2006 è stato sospeso un accordo raggiunto con le autorità israeliane che gli permetteva di continuare ad accedere alla sua terra. In questo contesto la maggior parte dei suoi alberi è stata vandalizzata o sradicata.

Dal 2011, ai contadini di Al Janiya vengono assegnati (per accedere alla loro terra, previa coordinazione con i funzionari israeliani) 3-4 giorni durante la stagione della vendemmia, e 1-2 giorni durante la stagione dell’aratura.

Le autorità impediscono ad alcuni agricoltori di utilizzare i trattori per arare la loro terra, appellandosi a danni potenziali alla rete fognaria della colonia.

(Leggi l’intera storia di Abbas)


MANAL ‘AYYAD – ABU DIS | GERUSALEMME, versante occidentale della barriera


“Il muro di separazione ha avuto un effetto negativo sulle vite di tutti i residenti della zona. Prima del Muro eravamo una comunità, ma il Muro ha diviso la nostra comunità in due.

In seguito alla costruzione del muro, non mi piace più andare ad Abu Dis (nel lato orientale). Ci vuole più di un’ora, e se il checkpoint è chiuso le ore diventano due o forse tre. È necessario usare due auto: una da casa nostra al checkpoint, poi attraversare il checkpoint a piedi e infine prendere un’altra auto dal checkpoint fino ad Abu Dis.

Una volta stavamo andando ad Abu Dis per il matrimonio di un nostro parente. Ma all’improvviso gli israeliani hanno chiuso il checkpoint; eravamo tutti pronti per il matrimonio, ma ci è stato impedito di andare ad Abu Dis.

Siamo rimasti al checkpoint per un’ora, abbiamo parlato con loro, provando a convincerli a farci passare. Alla fine, tutti stressati e innervositi, siamo tornati a casa. Ovviamente non abbiamo partecipato al matrimonio.

Nessuno può venirci a visitare. È una situazione molto difficile per noi. La mia speranza è di svegliarmi una mattina per scoprire che non esiste più nessun muro di separazione.

(Leggi l’intera storia di Manal)


KHADRA – AL FAWWAR, HEBRON

A volte, le autorità israeliane aumentano le loro restrizioni di accesso all’interno della Cisgiordania, creando ulteriori posti di blocco e checkpoint.

Ad esempio, in seguito a una decisione adottata il 14 ottobre 2015 dal Gabinetto di Sicurezza israeliano per affrontare un’ondata di attacchi palestinesi, le forze israeliane hanno installato quasi un centinaio di nuovi ostacoli in tutta la Cisgiordania.

La maggior parte di questi (il 57% alla fine del 2015) sono stati installati nel governatorato di Hebron, dove hanno avuto luogo molti degli incidenti violenti.

Il campo profughi di Al Fawwar, che si trova a sud della città di Hebron e in cui vivono oltre 8.300 persone, è stato gravemente colpito da restrizioni di accesso dopo l’installazione di un checkpoint che chiude la strada principale verso la città di Hebron.

L’insufficienza renale di cui soffre la 60enne Khadra, madre di sette figli, ostacola la sua mobilità. La chiusura della strada le ha impedito l’accesso all’ospedale di Hebron, dove riceve la dialisi tre volte alla settimana.

Quando sono state imposte queste restrizioni, ha dovuto viaggiare passando per Yatta, allungando il percorso di circa un’ora, usufruendo di un taxi che costa circa 240 NIS (60 dollari) al giorno.

Questo percorso alternativo era in uno stato precario, il che ha avuto gravi ripercussioni sulla sua salute: “Una delle volte in cui stavo tornando da una sessione di dialisi, ho cominciato a sanguinare a causa dei sobbalzi sulla strada. Mi sono dovuta sottoporre a cure nella clinica del campo, che non ha la strumentazione adatta”, ricorda Khadra.

Quell’episodio ha portato le autorità israeliane ad aprire l’ingresso principale del campo di Fawwar.

(Leggi l’intera storia di Khadra)


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