Il teatro in carcere, l’evoluzione di un fenomeno

Sono trascorsi 60 anni dalla nascita della prima Compagnia teatrale composta da detenuti, il San Quentin Drama Workshop dopo la memorabile rappresentazione dell’Aspettando Godot del San Francisco Actor’s Workshop realizzato il 19 novembre del 1957. Uno spettacolo prodotto espressamente per i 1400 prigionieri del carcere di massima sicurezza.

“I detenuti apprezzarono la recita e sembrarono capire subito lo spirito che animava Godot” ricorda Rick Cluchey, allora detenuto nel carcere, poi graziato per meriti artistici e allievo dello stesso Beckett che lo riconobbe come proprio attore ideale (in seguito Cluckey è stato impegnato in progetti di formazione di nuovi operatori teatrali penitenziari in giro per il mondo). “I detenuti sono fisicamente e naturalmente in grado di identificarsi con il tema dell’attesa e l’assurdità di una vita spesa fra quattro mura, senza speranza o prospettiva futura”.

Il prolungarsi nel tempo di esperienze teatrali nelle carceri in Europa ed America Latina, oltre che negli Stati Uniti, con la nascita di nuove compagnie teatrali penitenziarie, ha sviluppato un tessuto di esperienze diversificate fra loro; si è trattato di esperienze condotte da uomini e donne del teatro professionista che sono andati a lavorare nelle carceri e non solo. In particolare in Italia è nato un vero e proprio Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere che oggi riunisce 44 esperienze, attive in 14 Regioni differenti ( www.teatrocarcere.it ).

Questi percorsi hanno consentito una progressiva creazione di metodi d’intervento, stili, linguaggi inediti. È nato così qualcosa di nuovo, di completamente originale: un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena secondo i limiti dati dalle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Spesso i limiti sono diventati armi vincenti. Spesso abbiamo visto forme teatrali fortemente intrecciate fra sperimentazione e tradizione scenica.

Un teatro che privilegia la scrittura scenica sia quando affronta testi o autori classici della cultura europea (da Don Chisciotte a Pinocchio, da Shakespeare a Genet) sia quando procede attraverso forme di autodrammaturgia.

È nato un teatro di scrittura scenica in forme fra loro differenziate: dalle case circondariali (dove si scontano pene brevi ed è più difficile garantire continuità all’esperienza) alle case di reclusione, dalle carceri femminili agli istituti minorili fino alle strutture psichiatrico giudiziarie (oggi REMS Residenze per le Misure di Sicurezza), si è cercato di coniugare l’utilità per i detenuti di queste esperienze laboratoriali e produttive con la creazione di un teatro di evidente valenza artistica e comunicativa. La “diversità” di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato non appare come una moda teatrale quanto come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale ed educativo, una zona pratica della scena contemporanea, ricca di implicazioni sociali e civili.

Si tratta di un lavoro artistico – fatto di metodi artigianali e laboratoriali – che è, inevitabilmente ricco di ricadute sociali: nella dinamica fra il “dentro” e il “fuori” del carcere nel senso di ospitare spettatori nelle strutture carcerarie in occasione delle repliche, di andare a rappresentare nei teatri ufficiali gli spettacoli prodotti in carcere  ma anche – sia pure per una minoranza di ex-detenuti – di continuare a fare anche fuori dal carcere i mestieri del teatro (come attori e come tecnici).

In questo senso il teatro in carcere getta un ponte fra il “dentro” e il “fuori” degli istituti di pena e si colloca, nella logica originaria del teatro pubblico europeo quando ipotizzava e praticava l’idea di un teatro d’arte al servizio delle comunità, un servizio pubblico da svolgere con autonomia e libertà creativa. Non a caso il teatro in carcere adotta abitualmente tecniche e riferimenti artistici che guardano alle avanguardie artistiche del Novecento esprimendo una creazione teatrale che – attraverso l’invenzione della regia – usa lo spazio, il movimento, l’improvvisazione, il gesto vocale e corporeo. Un teatro che va oltre la prosa e che utilizza linguaggi nei quali le culture e le lingue possono incrociarsi, creando nuove alchimie sceniche. Il teatro in carcere appare come un’esperienza teatrale, insieme, popolare e di elevata qualità artistica.

Si tratta comunque di esperienze molto fragili e soggette a processi sociali e scelte culturali a rischio per mancanza di sostegni strutturali.   I problemi sono i più vari: sovraffollamento del carcere; conseguente carenza di personale; orientamenti e decisioni che spingono verso il rischio di un ritorno ad un carcere non rieducativo ma prettamente esecutivo della pena; presenza di detenuti con evidenti problemi di povertà, difficoltà comunicative, spesso vittime di fenomeni migratori; presenza sempre maggiore di giovani che per piccoli reati (ad esempio detenzione o piccolo spaccio di stupefacenti) riempiono le galere e, purtroppo, spesso imparano il mestiere proprio in questo contesto.


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Profilo dell'autore

Vito Minoia
Dottore di Ricerca in Pedagogia della Cognizione all’Università di Urbino, dove sviluppa attività di ricerca e didattica sul valore educativo e formativo del linguaggio teatrale. Direttore del Teatro Universitario Aenigma e delle Riviste “Catarsi-Teatri delle diversità” e “CERCARE, carcere anagramma di”. Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere.
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