Il vicolo della morte dietro la Walk of Fame di Hollywood

Il cosiddetto “Vicolo della Morte”(Death Alley) è un tratto di strada lungo circa 2 miglia sulla South Vermont Avenue, nel quartiere di Westmont, a downtown Los Angeles.

Qui, a pochi isolati dalla luccicante Hollywood Walk of Fame, si registra il più alto numero di persone uccise per arma da fuoco della contea di Los Angeles. In soli sette anni più di 100 persone tra cui molti adolescenti sono stati coinvolti in sparatorie nelle quali hanno trovato la morte.

Il 40% degli abitanti del quartiere (abitato per lo più da ispanici e afroamericani) vive al di sotto della soglia di povertà e Westmont è tristemente conosciuta per essere dominata da street gang quali Underground Crips, South Los, The Hoover, 8 Trey Gangsters, the Raymond Crips e i the Rollin’ 100s.

Marta Corradi, giovane documentarista diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, nel 2016 ha vinto una borsa di studio per un Master alla prestigiosa UCLA – University of the City of Los Angeles. Durante i nove mesi trascorsi nella città più famosa della West Coast, nonostante i suoi richiami ai divi di Hollywood e le sue zone di lusso sfrenato come Beverly Hills e Rodeo Drive, Marta è stata catturata dall’altra faccia di questa città ricca di controversie.

Come nasce questa curiosità nel lato meno noto di Los Angeles?

Ricordo che il giorno dopo essere atterrata a Los Angeles ho preso un autobus per recarmi alla famosa Walk of Fame, era mattina presto ed io ero già sveglia da molto a causa del fuso orario. Quando sono arrivata lì ho avuto una sensazione stranissima: quella che noi siamo abituati a vedere attraverso le immagini alla televisione come una zona perfetta, con le sue stelle luccicanti e i divi di Hollywood, mi si presentava come una strada vuota, sporca e con molti homeless che dormivano per terra accanto a quelle stelle sul marciapiede.

Questo mi ha colpito molto e mi ha portato a tornarci spesso, in diversi momenti della giornata; e nonostante nel pomeriggio la stessa zona pullulasse di turisti, uomini vestiti da supereroi e negozi pieni di statuette da Oscar, quegli homeless erano sempre lì, nascosti ai piedi di quella marea di gente.

Quindi ho deciso di approfondire la condizione degli homeless che stavano in quella via. Ho trascorso con alcuni di loro vari giorni, in particolare con tre ragazzi di 20 anni(una coppia e un giovane ragazzo padre). Loro mi hanno accolto e introdotto ad uno stile di vita diametralmente opposto a quello che vedevo frequentando le aule della UCLA. Non ho potuto portare avanti un progetto di reportage su di loro perché qualche settimana dopo averli conosciuti sono partiti per San Francisco in cerca di nuove strade. Questo mi ha portato a cercare altre zone dove poter approfondire la condizione delle persone in difficoltà in una città che agli occhi di noi europei sembra senza macchia.

Raccontaci il tuo arrivo nel Vicolo della Morte.

La prima volta che mi sono recata nel “Vicolo della Morte”, l’ho percorso tutto da cima a fondo da un lato e dall’altro della strada. Era tardo pomeriggio e i negozi, quei pochi che si possono trovare in quella via, erano tutti chiusi. La gente che incrociava il mio sguardo sui marciapiedi mi guardava con stupore, probabilmente non abituata a vedere una ragazza bianca da quelle parti.

Quando ha iniziato a fare buio sono tornata a casa. Questo è un po’ il mio modo di approcciare ad un luogo, anche al Centro Sperimentale il mio docente di Cinema e Realtà, Daniele Segre, una volta mi ha definito “un falchetto”: che gira e gira intorno, guardando, osservando e poi plana. Così ho fatto anche in quella occasione. Sono tornata nei giorni successivi e piano piano ho cercato di parlare con le persone che incontravo, entrando nei negozi o con chi vedevo per strada. Inutile dire che alcuni tratti di strada non erano avvicinabili perché percepivo che la mia presenza non era benvoluta, molti di quelli che stavano per strada erano sotto effetto di stupefacenti.

Una cosa che mi ha colpito, su cui ho sviluppato un progetto fotografico intitolato “Bulletproof” con il quale sono arrivata finalista per una borsa di studio alla scuola intenazionale di fotografia EFTI di Madrid, è stato il fatto che in ogni negozio i proprietari erano divisi dai clienti da vetri antiproiettili. Alcuni di loro erano letteralmente chiusi in box di vetro con piccole fessure larghe tanto quanto basta per far passare il denaro per pagare. Questo è indicativo del senso d’insicurezza e paura che si prova in quella zona.

Come hai conosciuto CK?

Un giorno sono entrata in un negozio di alimentari dove ho fatto la conoscenza di D., una ragazza afroamericana della mia età (avevamo entrambe 27 anni) e lei era incinta del terzo figlio. D. mi ha aiutato molto a capire le dinamiche di quella zona. Lei ha otto fratelli ed in particolare uno di loro fa parte di una gang che controlla il quartiere, John, che ho avuto modo di conoscere nei pomeriggi che ho trascorso con loro. Un giorno mentre ero lì con lei, entra un ragazzo molto alto e magro, compra un caffè e mi chiede cosa stessi facendo. Era CK. È stato da subito gentile e molto disponibile con me. Siamo rimasti d’accordo che sarei tornata per passare del tempo con lui, fargli qualche domanda e poi filmarlo, ma quando sono tornata la volta successiva lo avevano arrestato. Ho dovuto aspettare due settimane perché lo scarcerassero per poter iniziare il progetto su di lui, abbiamo trascorso insieme circa due mesi.

Che tipo di esperienza è stata?

Il rapporto con CK è cresciuto e il legame che ci ha uniti in quei mesi trascorsi insieme è stato per me il regalo più bello di quell’esperienza. Le persone e le storie che ho incrociato in quei giorni su quella strada mi hanno aperto occhi e cuore.

Ho avuto la fortuna di trovare un angolo di bellezza in quel Vicolo della Morte che però rimane un posto molto difficile non solo in cui vivere ma anche semplicemente in cui passare qualche ora al giorno, ogni volta che tornavo a casa ero prosciugata, non solo di stanchezza ma proprio di nervi, perché nonostante mi sia sempre sentita protetta da CK che non ha mai mancato di schierarsi dalla mia parte nelle situazioni più difficili, non tutte le persone della zona mi vedevano di buon’occhio per via della telecamera: tutti hanno il timore che chi viene a fare delle riprese sia della polizia. Questo clima di tensione è qualcosa che là non ti abbandona mai.

Hai affrontato momenti difficili?

Solo una volta, quando con CK abbiamo filmato un momento in cui lui entrava nel negozio di D. per prendere un caffè, lei però non c’era ma c’era sua sorella che mi conosceva, per questo ho potuto filmare. Quando siamo usciti però è arrivato John, che evidentemente fuori di sé ed alterato, ha iniziato ad urlarci contro e a seguirci con la macchina. In quel momento ho capito che per non mettere in difficoltà e in pericolo CK e anche me, era meglio andar via e non attirare attenzioni scomode. Quello è stato l’unico momento in cui non mi sono sentita tranquilla, perché John poteva spuntare da un momento all’altro con la sua macchina e la pistola che una volta mi aveva mostrato. Non ho mai pensato volesse farmi del male, ma quel giorno l’ho visto diverso, forse aveva fatto uso di qualche sostanza, perché aveva un tono che non gli avevo mai sentito prima.

Da dove arriva il desiderio di raccontare le storie delle persone che vivono in situazioni di difficoltà?

Devo dire che sono da sempre stata affascinata dalla vita di queste persone che hanno una forza e una determinazione a volte inspiegabili nonostante le condizioni difficili nelle quali si trovano a vivere. Tutto è nato quando al Centro Sperimentale ho avuto la fortuna di fare un trimestre di Cinema e Realtà con il documentarista Daniele Segre, con lui ho sviluppato un progetto sui campi rom a Roma. Dopo questa esperienza, la volontà di staccarmi dal mondo del cinema e di percorrere le strade del documentarismo mi ha portato a recarmi in Turchia e da lì a raccontare il campo profughi di Mahkmur dove un centinaio di curdi fuggiti alle persecuzioni hanno messo in piedi una comunità autosufficiente. Il reportage video che insieme a Joshua Evangelista abbiamo realizzato, ha partecipato al Babel Film Festival dove è stato accolto con molto entusiasmo.


Marta Corradi, nata a Imperia nel 1988, sin da adolescente gira cortometraggi che vengono accolti dai maggiori Festival per giovani emergenti vincendo numerosi premi e riconoscimenti(con “Alici nel Paese delle Meraviglie”, a 14 anni, vince il Sony Award come miglior regista esordiente e partecipa a diversi festival tra i quali Sottodiciotto Film Festival a Torino dove ottiene il secondo premio; “S.O.S”, “Sì, potremmo” e “Dentro di Sé” sono solo alcuni dei cortometraggi che Marta sviluppa nell’arco dei cinque anni di Liceo e che le permettono di prendere parte e vincere riconoscimenti a Festival quali l’Efebo Corto Giovani, la sezione di cortometraggi per ragazzi della 64° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e altri).

Nel 2009 a soli 20 anni è tra i 6 registi ammessi a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia-Scuola Nazionale di Cinema. Questo le permette di girare altri corti quali “Ragazze Splash”(Genova Film Festival) e “Undici.. dodici”(selezione cortometraggi David di Donatello 2013, proiezione su Rai 2).

Marta ha avuto modo di lavorare con registi di fama mondiale in Italia e all’estero: Pupi Avati, Daniele Vicari, Giuseppe Piccioni, Erik Gandini, Ross Kaufmann e altri.


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