Carlos Paz: cantare, comunque e sempre. Dai ritmi andini alla salsa caraibica


foto e testo di Loredana De Pace

Carlos Paz è un cantante e fiatista ecuadoriano. Ha quarantacinque anni, ventitré dei quali spesi in Europa, sempre in compagnia della sua musica. Canta sin da quando era bambino e non ha mai smesso. Emigra dall’Ecuador nel 1990 a causa della persecuzione del governo di allora che non vedeva di buon occhio gli ideali rivoluzionari trasmessi dai testi delle sue canzoni. Contraddistingue il suo percorso professionale una forte componente umana oltre che politicamente impegnata, affiancata da uno spirito poliedrico che lo trasporta dai ritmi ancestrali andini a quelli gioiosi della salsa caraibica. La sua carriera è costellata da avvenimenti e incontri fortunati, interrelazioni rese possibili grazie al nesso che accomuna i popoli di ogni Paese, qualunque sia la lingua o la cultura di origine: la musica. Oggi Carlos è un cantante affermato, è membro della nota Orchestra di Piazza Vittorio e continua a far “fluire” la musica attraverso le sue corde vocali e a cantare per onorare il suo Paese.

CARTA DI IDENTITÀ
Chi è Carlos Paz?
Un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a fare musica in stretta relazione col vivere quotidiano, con le problematiche sociali ed economiche dell’Ecuador. Mi considero un artista popolare.

Data di nascita.
Sono nato il 31 dicembre 1967 quindi, da pochi mesi ho compiuto quarantacinque anni.

Città di provenienza.
Quito, capitale dell’Ecuador.

Il tuo percorso di studi.
In verità sono un musicista autodidatta, anima e core, come si dice. Non ho avuto la possibilità di studiare perché sono nato in una famiglia molto umile. Mio padre se n’è andato quando ero bambino e, quindi, mia madre ha dovuto lavorare duramente tutta la vita per i suoi figli.

Quanti fratelli hai?
Sono l’ultimo di cinque figli, la seconda è una donna. I miei fratelli, però, hanno scelto di restare in Ecuador.

Foto di Guido Martinez

 

 

CARLOS PAZ, EMIGRANTE
Quando hai lasciato il tuo Paese?
Sono partito dall’Ecuador nel 1990 a seguito delle persecuzioni da parte dello Stato. Allora c’era il “regime” del Presidente León Febres Cordero che ha impiantato un sistema di militarismo, tortura e persecuzione. Era un dittatore mascherato e in Ecuador vigeva una finta democrazia. Alla fine degli anni Ottanta noi artisti abbiamo cominciato a emigrare perché eravamo i più perseguitati.

Per via dell’impegno politico… Qual era il movimento di lotta armata per il quale parteggiavi?
Si chiamava Alfaro Vive ¡Carajo! però, io avevo un’arma più potente di quella che sparava le pallottole. Era quella che sparava le parole, i pensieri, le idee, un’arma molto poderosa, quindi considerata altamente sovversiva.

Sei più tornato nella tua terra?
Sì, ma solo dopo aver “pulito” la mia reputazione. Ritornerò ancora per visitare la mia famiglia, non per rimanerci. La mia vita è qua, anche se quando sono tornato a Quito – dopo diciassette anni dalla mia partenza – ho trovato una città completamente cambiata, devo dire in meglio, anche grazie al governo del Presidente Rafael Correa che considero l’eccellenza della politica nella storia del nostro Paese.

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Raccontaci il principio di questo tuo “auto-esilio”.
Sono partito con un mio amico d’infanzia e compagno d’arte perché erano stati assassinati diversi artisti e, quindi, abbiamo pensato che la stessa sorte sarebbe toccata a noi se non ce ne fossimo andati.

Quindi, hai deciso di partire. Destinazione?
La città di Mosca perché pensavo che in Russia avrei trovato la medesima ideologia in cui io credevo. Una volta lì, però, mi sono accorto che le cose erano molto diverse da quelle che ci avevano raccontato. Erano gli anni Novanta, la Guerra Fredda era ancora nell’aria, stava cominciando la Perestrojka ed era appena caduto il muro di Berlino (1989, ndr), quindi c’era tanta incertezza. Dopo un mese e mezzo, con l’aiuto di un’amica, mi sono spostato in Austria, più precisamente a Vienna, città nella quale sono rimasto per quattro anni. Poi, sono emigrato in Italia, più che altro per motivi di razzismo.

Razzismo?
Sì, era latente ma concreto. Varie volte sono scappato dai naziskin che in quel periodo organizzavano vere e proprie retate contro gli stranieri. Questo è stato il motivo principale. Il secondo è stato il freddo, davvero troppo insistente.

LA MUSICA DI CARLOS
Cosa rappresenta per te la musica?
Una benedizione ricevuta in dono, non so se da Dio, dall’Universo o dal Cosmo celestiale. Mi considero un bypass tramite il quale fluisce questa divinità che è la musica e che ha un potere molto forte. La musica può arrivare ovunque, apre la mente e il cuore delle persone. Per me è stata anche una ciambella di salvataggio in quel mare di povertà nel quale sono nato e cresciuto e dove era molto facile perdersi, diventare un malvivente. Nel mio quartiere, San Juan a Quito, è successo a parecchi ragazzi. Io, invece, mi sono tanto aggrappato alla musica che sono riuscito ad andarmene via indenne.

Hai cominciato con le sonorità ancestrali. Ora ti conosciamo come salsero. Quando è avvenuto il passaggio a questo diverso genere musicale?
In effetti, nasco come fiatista. Dopo aver fatto un’investigazione musicale attraverso i Paesi andini per raccogliere strumenti a fiato provenienti dalle comunità di Paesi come la Colombia, l’Ecuador, la Bolivia e il Perù, ho cominciato suonando musica ancestrale e organizzando concerti insieme ad alcuni amici musicisti. Quando ero in Austria, invece, ho conosciuto i Guararé, una band che suonava salsa e, insieme abbiamo fatto molti concerti in Germania, nell’allora Cecoslovacchia e in Ungheria. In pratica sono ventitré anni che il mio stile musicale è passato ai ritmi caraibici, tipici di generi come la salsa, la cumbia e il merengue.


I tuoi strumenti musicali a fiato: come si chiamano e come sono fatti.
Quelli che ancora utilizzo sono la kena che è un flauto dritto, dal suono simile a quello del flauto dolce, ma diverso a livello strutturale. Infatti, è di bambù come tutti gli strumenti a fiato delle Ande. Nella kena il diametro del tubo ha una fessura a “U” che deve essere attaccata al mento per emettere il suono. Per questa conformazione non è molto facile da suonare. Poi uso il siku, un aerofono comunemente noto come flauto di Pan, costruito da più canne di diversa lunghezza. La tarka, invece, è un flauto orizzontale in legno proveniente dalla Bolivia. Questo ha una struttura squadrata, è composto da un unico pezzo di legno e dispone di un beccuccio.

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Cosa provi quando interpreti le tue canzoni?
È un’emozione davvero molto intensa. Canto per far ascoltare al pubblico proprio quella melodia, non Carlos che la interpreta. Certo, la gente apprezza il mio modo di cantare, ma il motivo principale per cui mi esibisco è fare ascoltare la musica. Di solito compongo con la chitarra e le mie canzoni sono semplici. Forse è per questo motivo che arrivano alla gente.

La tua canzone preferita.
Sono particolarmente legato a tutte quelle dedicate alla mia ex compagna, in special modo La luz de tu mirar che è un appello a un ripensamento, la richiesta di un’altra opportunità per continuare a crescere i nostri figli insieme. Amo molto anche la canzone intitolata Por ti che è un bolero, e poi El mambo de Machahuai che è la cover di un pezzo peruviano arrangiato e cantato in modo diverso dalla versione originale.


IN ITALIA
Il tuo percorso musicale in Italia.
Da diciannove anni vivo a Roma che è la mia città di adozione. Quando ho deciso di venire nella Capitale ho contattato una persona conosciuta durante un concerto in Austria che mi ha introdotto nel contesto musicale romano. Era il 1994. Sin da quegli anni il gruppo Chirimia cantava al Caruso Cafe de Oriente nel quartiere Testaccio di Roma. Due giorni dopo il mio arrivo ero là per ascoltare la loro musica e per conoscere il suo fondatore Alvaro Hugo Atehortua Martinez, che ora è come un fratello per me. Il feeling è stato immediato e, quindi, ho cantato con loro da subito e per molti anni. A Roma, oltre a fare salsa, ho ripreso la musica andina: cantavo a Ostia, a Piazza Navona, sempre a livello popolare. Non mi piace il termine musicisti di strada, è riduttivo. Trovo più adeguato dire musicisti urbani perché suoniamo nelle piazze, durante le fiere, non solo per la strada.

Fai anche parte dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Sì, undici anni fa è nata questa orchestra multietnica da un’idea di Mario Tronco della Piccola Orchestra Avion Travel, e da Agostino Ferrente. Tronco racconta che dalla sua finestra aperta che si affacciava su Piazza Vittorio (quartiere romano multietnico, ndr), sentì il suono di una chitarra brasiliana sovrapposto alle note di un canto arabo. Fu allora che gli venne in mente l’idea di un’orchestra composta da musicisti di diversi Paesi del mondo. Questo gruppo non ha mai avuto una sovvenzione statale come spesso pensa la gente ed è tuttora attivo solo ed esclusivamente grazie al nostro estro musicale e al lavoro dei concerti e dei dischi che produciamo. È un laboratorio decisamente particolare: non facciamo molte prove, ma quando ci vediamo ciascuno propone un brano da interpretare. Il mio pezzo è diventato una bandiera dell’Orchestra di Piazza Vittorio: si chiama Tarareando ed è un brano che ho composto in Austria in un pomeriggio d’inverno durante una bufera di neve. Era appena un anno e mezzo che ero là e soffrivo la nostalgia di casa, quindi la prima parte della canzone è triste, poi esplode l’allegria che esprime la mia certezza che un giorno sarei tornato nel mio Paese.

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Qual è il messaggio dell’Orchestra?
L’interculturalità, l’integrazione e la fratellanza fra popoli e culture.


Hai registrato vari cd nel corso della tua carriera. I più importanti?
Con l’Orchestra di Piazza Vittorio ne abbiamo prodotti due. Il primo si chiama L’Orchestra di Piazza Vittorio, il secondo, invece, è Sona, un gioco di parole, sai a Roma si dice: “sì, sona, sona!”. In questi dischi ho interpretato Tarareando che non ha un vero e proprio testo, sono solo delle sillabe accostate e cantate. Lo stesso brano è parte della colonna sonora del film sull’Orchestra di Piazza Vittorio, e poi apre la pellicola Italians (2009, ndr) con Carlo Verdone. La medesima canzone è stata usata come sottofondo di uno spot televisivo realizzato dall’Associazione Italiana contro le leucemie (AIL, ndr) andato in onda sulle reti nazionali. Nel 2011 ho registrato un nuovo cd di salsa, si chiama Son del Ecuador che ho realizzato a Oslo, in Norvegia con il gruppo La Sonora Cimarron di Tito Guevara, autore e arrangiatore di tutti i brani. In questo periodo Radio Mambo sta mandando in onda proprio una delle canzoni di questo ultimo progetto musicale.


Progetti futuri?
Continuare il lavoro con l’Orchestra di Piazza Vittorio, fare ancora tanta buona musica e proseguire il mio lavoro con amore, dedizione e umiltà.

Carlos Paz è su youtube, al canale artevivo1, www.youtube.com/user/artevivo1

 


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