Le parole per dire “Bianco” e “Nero”

Accademici, attivisti e scrittori si interrogano sul lessico da usare per contrastare vecchie e nuove forme di razzismo.

Mentre sono in vacanza per le consuete ferie estive, su un social media noto un evento milanese dal titolo Il Bianco e il Nero – Le parole per dirlo. Mi piacerebbe molto partecipare e, infatti, appena rientrata in Italia mi precipito lì con mio figlio. Appena entriamo una persona dallo sguardo cordiale a delicato si avvicina e si presenta dandoci il benvenuto. Reginaldo, un lampo sereno che crea luce attorno a sé. L’impaccio iniziale scivola via e sorrido anch’io, molto più a mio agio.

L’evento è ospitato presso la Casa della Memoria di Milano, uno spazio pubblico aperto alla città che promuove eventi culturali e manifestazioni dedicate alla preservazione e alla memoria dei valori di libertà e democrazia, fondanti la Repubblica del nostro Paese. Il dibattito è organizzato dall’associazione A.N.E.D. (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), in collaborazione con La Macchina sognante, un contenitore editoriale di scrittori e poeti dal mondo, e con il Festival GOes DiverCity, una piattaforma di dialogo aperto e riflessione sulle diversità.

Il dibattito è diviso in quattro laboratori in cui degli esperti ci guideranno per rintracciare “le parole per dirlo”, cercando nuovi lessemi e significati da conferire ai temi affrontati: l’origine degli altri, i razzismi nuovi e vecchi, la menzogna dell’identità e l’umanità in rivolta. L’intento è chiaro: partendo dal linguaggio che si utilizza, si esamineranno parole chiave per fare chiarezza e creare un nuovo lessico necessario in Italia e nel mondo. Sin da subito si sollecita il pubblico a fornire un apporto attivo e a porre domande, in un sorta di “brainstorming” su come incidere sui movimenti contro il razzismo e per i diritti delle vittime di discriminazione forgiando nuovi strumenti.

Razza e razzializzazione

Apre il convegno Angelica Pesarini, docente presso la New York University -sede di Firenze- del corso interdisciplinare Black Italia, inerente l’analisi intersezionale dell’identità razziale in Italia. Curioso come sia un’università straniera a studiare i fenomeni razziali in Italia. Il suo laboratorio, condiviso con Francesco Ohazuruike, che prenderà la parola dopo di lei, è dedicato alla questione della razza e della razzializzazione.

La professoressa Pesarini comincia mostrando due immagini in sequenza, chiedendo subito al pubblico cosa ne pensasse. La prima immagine è una foto in primo piano dei volti dei coniugi Obama, ritoccati in modo tale che la parte inferiore dei due visi, dal naso in giù, coincida con la parte inferiore del volto di due scimpanzé. L’effetto è tremendo poiché la connotazione negativa è palese; la similitudine, offensiva e provocatoria in quanto richiamante secoli di attribuzione di caratteri scimmieschi al corpo nero.

Una delle tante immagini ritoccate, altamente razziste, dei coniugi Obama

La professoressa ha poi chiesto di alzare la mano a coloro che pensassero se l’immagine fosse razzista e con mia grande sorpresa non tutti l’hanno fatto.

La seconda immagine ritrae l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump. La foto è un montaggio tra la sua testa, con la caratteristica acconciatura bionda, attaccata il corpo di una scimmia di piccole dimensioni con un manto di tonalità uguale ai capelli. La domanda è sempre la stessa: è razzista l’immagine? Alcune signore alzano la mano, credo soltanto un paio. Una di loro sente di doversi giustificare perché dichiara spontaneamente che se la prima immagine è razzializzata, allora lo deve essere anche la seconda.

A questo punto viene il noto doll test, un esperimento psicologico ideato nel 1940 negli Stati Uniti e riproposto a dei bambini italiani. Avevo già visionato sia la versione americana sia quella italiana, ma questa volta c’è mio figlio, novenne di carnagione mista. Il test è finalizzato a verificare la percezione di sé legata alla razza: si mettono di fronte al bambino due bambole identiche tranne che nel colore della pelle e dei capelli. Ai bambini viene chiesto con quale bambola preferirebbero giocare, quale è più bella ed infine con quale si identificano di più. Il risultato del test è tanto più dirompente quanto più si pensa alla sua semplicità: è disturbante e sconcertante osservare in maniera così diretta come dall’atteggiamento adottato dai bambini emergano nitidamente le maggiori problematiche legate al razzismo in base ai condizionamenti sociali cui sono sottoposti: il bianco assume significati positivi, il nero significati negativi. L’attribuzione di questi significanti è così netta da indurre anche i bambini di pelle scura a identificarsi con le bambole bianche.

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Un esempio di doll test.

Mio figlio è scandalizzato dall’inquietante dinamica che emerge dal test e il suo commento è molto forte, chiede infatti se poi quei bambini saranno costretti a togliersi la vita per uscire dall’impasse di aver rinnegato il loro corpo, la loro fisicità e, va da sé, il loro orgoglio e la loro anima. Il commento potrebbe sembrare esagerato, ma ha senso in un quadro simile perché se davanti a terzi, in particolare davanti a persone bianche, un non-bianco è disposto ad ammettere la repulsione verso il proprio colore di pelle anelando quello antonimo per eccellenza, ne consegue che il complesso d’inferiorità ha preso il sopravvento e che l’identità e la personalità ne escono spezzate, con un’immagine del proprio corpo destrutturata e deteriorata per la quale non rimane alcuno spazio sociale da occupare. In effetti, l’Io sociale di quei bambini ha commesso un suicidio.

La professoressa Pesarini prosegue con un excursus storico per spiegare l’origine degli “altri” (in contrapposizione al “noi” bianchi) illustrando come nell’era moderna tutta la terminologia linguistica correlata al corpo nero e utilizzata per descriverlo e rappresentarlo nella realtà sia stata impiegata con profitto per annichilirne sistematicamente qualsivoglia valore positivo. Alla luce di questa spiegazione, le immagini presentate acquisiscono un significato non più neutro anche per il pubblico bianco ed appaiono finalmente a tutti per ciò che sono: razziste.

Negro, nero, di colore

Il dibattito è già entrato nel vivo. Infatti Francesco Ohazuruike, ingegnere e scrittore, ha prontamente adattato la propria presentazione assecondando la discussione sulla terminologia che tanto ha scaldato il pubblico. Lui si presenta, è nato a Catania, da genitori nigeriani trasferitisi in Italia negli anni ’70. Ohazuruike ci ricorda come nessuna parola in sé sarebbe offensiva, se la spogliassimo della sua storia e del suo significato, quindi nessuna parola può essere scelta e utilizzata consapevolmente senza conoscerne l’etimologia, la storia e la connotazione semantica che assume in un determinato contesto. Incluso la parola “negro”, il cui utilizzo è offensivo e giustamente ormai tabù nell’italiano di oggi, dato che esiste il termine “nero”, ma che può essere utilizzato da chi è nero, come spesso accade nel rap. Mentre l’espressione “di colore”, che in molti usano in Italia come eufemismo per nero, è offensivo in quanto associato a un solo colore, il nero, con sottointeso che gli altri non abbiano colore.

Così Kiasi Sandrine Mputu, attivista per i diritti umani ed esperta di comunicazione, ci spiega sia necessario e prezioso il lavoro di ri-categorizzazione e appropriazione da parte dei neri italiani della terminologia utilizzata per parlare di quei temi che coincidono con tutti i problemi che ho affrontato sin da piccola: discriminazione in base al colore della pelle; afrofobia; xenofobia; criticità dell’evocazione esotica dell’immagine legata al corpo nero; esclusione sociale. Sandrine ci aiuta a smontare questi stereotipi di razzismi vecchi e nuovi legati non solo al colore della pelle, ma anche alla classe sociale o condizione economica di appartenenza o provenienza geografica, ponendo come esempio lo sfruttamento dell’immagine dei bambini migranti o africani, per i quali il diritto alla privacy non vale tanto quanto per i coetanei europei bianchi, definendo questo atteggiamento “pornografia della diversità”, poiché sfrutta il corpo nero a vantaggio di una lettura positiva di quello bianco, unico soggetto narrante che agisce (salvando, aiutando, compatendo) sempre con la solita accezione positiva, in contrapposizione perenne all’“Altro”, che è diverso e, per ciò, inferiore.

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Pina Piccolo, scrittrice, coordinatrice della Macchina Sognante e curatrice dell’evento, ci ricorda come la narrazione negativa del corpo nero conduca alla sopraffazione fisica con le parole di una toccante poesia dedicata all’assurda morte di Abba, giovane diciannovenne italiano nero ucciso a sprangate, accompagnate da epiteti razzisti, per aver rubato una scatola di biscotti al culmine di una notte di festa.

Sono scossa. Come sempre quando mi confronto su questi temi, anche se stavolta c’è una novità fondamentale: non sono sola, fra il pubblico ci sono molte persone che hanno lo stesso vissuto e ascoltare loro apportare le mie stesse argomentazioni, mi fa sentire in uno spazio sicuro in una nuova comunità finalmente libera di esprimersi.

La menzogna dell’identità

La dottoressa Migliarini spiega i concetti di “privilegio bianco, di bianchezza, negritudine ed identità sottolineando quanto sia importante fare ricerca sul campo, raccogliendo dati per disporre di materiale scientifico su cui studiare e da cui partire per cambiare il discorso pubblico sul razzismo in Italia. Ci racconta come la “menzogna dell’identità” sia una persecuzione semantica volta a creare un’identità razziale, quella della bianchezza -in contrapposizione con tutte le altre-, finalizzata ad una supremazia strutturale, che nella sua più becera recrudescenza storicamente ha trovato parole e false teorie scientifiche per giustificare fenomeni sociali aberranti quali la schiavitù, la segregazione razziale, l’omicidio sistematico ed il cui scopo, questo sì scientifico, è stato quello di terrorizzare e controllare un intero segmento di popolazione per ottenere un vantaggio economico. Questa menzogna dell’identità è il concetto su cui si basa il potere di questo modello di autorità incontrollata, cioè di potere totale, esercitato prima di tutto attraverso l’uso propagandistico della parola, paradigma di modello e di azione politica ed economica che considera l’altro, il diverso da sé, inferiore.

Si comprende così come sia di cruciale importanza riappropriarsi del linguaggio corretto per destrutturare quello propagandistico e riportarlo su di un piano neutro per raggiungere pari dignità sociale e soprattutto legale.

Sostituirsi alle vittime

Andy Nganso, medico della Croce Rossa Italiana e fondatore del Festival GOes DiverCity, fa il punto della situazione esortando ognuno di noi a chiedersi dove crede di potersi posizionare in questo momento della propria esistenza. Infatti, sostiene che nessuna azione sia possibile senza conoscere esattamente la propria posizione, senza sapere da dove si è partiti e dove si intende arrivare. Ci invita inoltre ad avere pazienza affinché il dialogo possa fluire liberamente. Il contributo di Nganso risulta particolarmente toccante quando precisa che colui che non è discriminato e si trova quindi in una situazione di potere, ha il dovere di fare un passo indietro per ascoltare. Nessun bianco ha il diritto di stabilire cosa sia offensivo per la vittima di discriminazione, di obiettare cosa possa essere accettabile o meno arrogandosi il diritto di utilizzare termini ritenuti offensivi da chi li subisce, così come nessun medico dovrebbe imporre la propria proiezione sulla qualità o quantità di dolore che prova il malato ovvero colui che è in una condizione di svantaggio, oltre che di minoranza. Un parallelismo folgorante. Insomma, non bisogna imporre le proprie (sup)posizioni sostituendosi alle vittime di discriminazione: una persona bianca che voglia davvero comprendere e acquisire consapevolezza e che desideri davvero interrompere la catena offensiva, deve soprattutto fare un passo indietro e ascoltare le persone discriminate seguendone le indicazioni.

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Questo ribaltamento è possibile attuando una rivolta concettuale che svolga un processo di recupero funzionale della memoria, decolonizzando la storia dal punto di vista sociologico, geografico ed economico, così come ci racconta Filippo Menozzi, docente di Letteratura inglese decolonizzata presso la John Moore’s University di Liverpool, grazie al quale aumentiamo gli strumenti di consapevolezza per reclamare pari dignità e tutela dei diritti di tutti.

Lo scrittore Reginaldo Cerolini interroga invece in maniera delicata e propulsiva su quale direzione vogliamo imprimere al nostro futuro, domanda attualissima e aperta, mentre Mari Pagani, counselor e coordinatrice A.N.E.D. per rapporti con le scuole, sottolinea proprio il ruolo chiave della memoria cui è dedicata la struttura che ospita l’evento.

In chiusura, il video di Camilla Hawthorne, docente della University of California, è deflagrante per il contenuto potente. Con la sua specifica competenza, ci ricorda come la razza, concetto biologicamente inesistente, si fondi su un costrutto sociale e di potere ben radicato anche in Italia, che in Europa non fa eccezione rispetto agli altri più grandi imperi coloniali storici (ricordiamo che l’Italia è presente nel Corno d’Africa da ben 150 anni). Oggigiorno, il tentativo di superamento del concetto di razza non è altro che una precisa strategia per evadere e silenziare il discorso antirazzista portato avanti dagli italiani neri, negando, di fatto, la loro marginalizzazione dal discorso pubblico e loro esclusione dal godimento di uguali diritti, così come invece sancito dalla Costituzione del Paese. Essi non sono rappresentati in nessun profilo professionale: non ci sono forze dell’ordine o carabinieri neri, né postini o dipendenti pubblici, né magistrati, funzionari dello Stato, giornalisti o presentatori televisivi, avvocati o professori universitari con tanto di cattedra. Semplicemente, la categoria degli italiani neri non è narrata, come se non esistesse. Ma ci siamo, e cominciamo ad essere tanti, non più come nei lontani anni ’70 quando ero l’unica nella scuola che frequentavo a Roma.

È da qui che deve partire una contro-narrazione critica, che si appropri del linguaggio e degli strumenti corretti per includere e normalizzare i cittadini italiani neri, a partire proprio dal diritto di cittadinanza per chi nasce in suolo italiano, nel proprio Paese.

L’evento si chiude in bellezza con vivide testimonianze da parte delle giovanissime generazioni di Tommy Kuti, rapper e scrittore, Omarito Sali e Roy Raheem.

Ne esco rinfrancata e felice, consapevole di aver trovato una nuova dimensione e un nuovo futuro. E chissà, forse anche mio figlio, che è rimasto lì tutto il tempo nonostante la giovanissima età.


Profilo dell'autore

Amina Abducarim
Genitori somali, nata e cresciuta a Roma. Laureata presso la Scuola Interpeti di Trieste, traduttrice e insegnante per hobby, lavoro a Milano nel non-profit.
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